Nel 1958, il sociologo e scrittore di fantascienza inglese di ispirazione laburista Michael D. Young pubblicò il libro The Rise of Meritocracy. Nel testo, l’autore descriveva una distopia in cui un’ipotetica società del futuro sceglieva la sua classe dirigente non per ascrizione, censo, sorte o consenso, ma sulla base di un parametro definito dalla somma del quoziente intellettivo della persona (misurato con test di intelligenza ripetuti) e dell’impegno da lui profuso nello svolgimento di specifiche attività. Tale parametro era definito “merito” e rappresentava una perfetta sinergia tra le “doti di natura” del soggetto (così come allora era definita l’intelligenza) e il suo investimento personale nel mondo. Young descriveva come, ben presto, quella che poteva sembrare un’idea formidabile per ridurre le diseguaglianze e dare a tutti le medesime opportunità di accedere ai posti di comando, diventava un’arma di chi deteneva il potere per selezionare e premiare solo soggetti compatibili con la loro idea di merito: definendo cosa fosse l’“intelligenza” e cosa fosse l’“impegno” era possibile escludere in maniera insindacabile e oggettiva tutti coloro che non rientravano in questi parametri e formare una classe dirigente di “omologati”, in grado di autoreplicarsi all’infinito senza possibilità di ricambio. Il romanzo finiva con una gigantesca e sanguinosa rivolta degli esclusi contro la dittatura dei “meritevoli”.
Quando la definizione fa la differenza
La distopia di Young mette a nudo una serie di problemi chiave: chi definisce il “merito”? Sulla base di quali parametri? A quale scopo? Per escludere le persone o per includerle? Mai come in questo caso, la definizione del termine, sul piano concettuale (cosa vuol dire) e sul piano operativo (come si quantifica), è importante, perché assegna a esso un senso e ne fa uno strumento di emancipazione o di oppressione.
Recita l’articolo 34 della Costituzione: «La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». L’articolo è breve ma ricchissimo. Anzitutto sottolinea che tutti, senza distinzioni di nessun tipo, devono accedere per almeno otto anni a un’istruzione inferiore obbligatoria e gratuita. Sottolinea poi che coloro che si dimostrano capaci e meritevoli hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, anche usufruendo di provvidenze attribuibili previo superamento di un concorso volto ad accertare il possesso di entrambe le qualità. Parlando di soggetti «capaci e meritevoli», l’articolo usa infatti i due concetti ritenendoli indipendenti e questo significa che il merito non può essere definito in termini di capacità possedute (come nella distopia di Young, dove una delle due componenti era costituita dall’intelligenza). E allora come definirlo? Come hanno sottolineato Barrotta1, Sen2, Duru-Bellat3, Xodo4, la questione è problematica, perché il termine ha molteplici sfaccettature e risente di un dibattito secolare caratterizzato dagli apporti di più discipline. Rimanendo su un piano puramente linguistico, per il dizionario Treccani il termine “merito” deriva dal latino merĭtum, a sua volta derivato da merere, ossia meritare, di essere cioè degno di lode, di premio o anche di castigo: premiare, punire, trattare secondo il merito. In genere il termine viene usato con accezione positiva e indica il diritto che, con le proprie opere o le proprie qualità, si è acquisito all’onore, alla stima, alla lode, oppure a una ricompensa, in relazione e in proporzione al bene compiuto. La definizione porta con sé due importanti corollari: a) il merito si ottiene con le proprie opere o le proprie qualità, quindi deriva dal mettere a frutto una capacità posseduta; b) il merito si misura in proporzione al bene compiuto, quindi è necessario un principio etico che definisca tale “bene”. In sintesi, il merito fa riferimento all’impegno del soggetto nel compiere azioni considerate positive all’interno un sistema di valori (ciò che riteniamo desiderabile) e non ha senso al di fuori di esso. Calato in un contesto di istruzione, è necessario chiedersi: cosa riteniamo desiderabile in un allievo o in un’allieva? Quali sono le qualità che – fatte salve le capacità per affrontarli – gli o le danno diritto al sostegno economico per gli studi superiori?
Un primo elemento può far riferimento alla buona volontà e all’operosità del soggetto. Un ragazzo o una ragazza che dimostra capacità e impegno nell’applicarle nello studio ha diritto agli studi superiori anche se proviene da una situazione familiare, sociale, economica, culturale meno favorevole o disagiata. L’atteggiamento che il soggetto mette nello studio e nel lavoro è quindi un elemento chiave per definire il merito. Atteggiamenti di interesse, curiosità, disponibilità, apertura, riflessività, responsabilità, tenacia, collaborazione, accuratezza, costituiscono buoni modi di porsi nei confronti dello studio e sono indicatori della volontà della persona di impegnarsi per mettere a frutto le proprie capacità. Valorizzare buona volontà, operosità, impegno è importante e motivante, laddove invece trattare allo stesso modo chi si impegna e chi non si impegna costituisce una forma di discriminazione (verso chi si impegna) e una fonte di demotivazione, perché veicola messaggi del tipo “l’impegno non dà vantaggi, quindi inutile metterlo in atto”. Dove i soggetti scelgono liberamente di investire il proprio tempo e le proprie risorse cognitive nello studio – sia perché credono nel valore intrinseco di ciò che fanno, sia perché si aspettano dei vantaggi da questo – lì esiste un impegno che va premiato.
Un secondo aspetto fa riferimento al fatto che buona volontà e operosità si esplicano in un contesto sociale: siamo tutti inseriti in una rete di rapporti interpersonali che abbraccia ogni aspetto della nostra vita. Quindi l’impegno deve trovare espressione in tale contesto, contribuendo a costruirlo e mantenerlo. Il principio di solidarietà presente nella Costituzione (Art. 2) recepisce e sottolinea la dimensione sociale dell’essere umano. Il merito è un merito solidale, una condizione di pregio e di valore utile per concorrere «al progresso materiale o spirituale della società» (Art. 4) e assume quindi connotazione positiva se non porta solo vantaggi al soggetto che “merita” ma a tutto il suo gruppo di riferimento.
I paradossi della meritocrazia
Ragionare sul “merito” ha quindi una funzione positiva: invita a adottare un quadro di ricompense per chi, messo nelle condizioni opportune, decide di impegnarsi per mettere a frutto le proprie capacità, farle crescere, renderle disponibili in un contesto sociale. Il merito è utile e desiderabile in un’ottica sociale e non puramente individualista.
La distopia di Young diventa reale quando la definizione di “merito” è ambigua o viene prodotta e utilizzata strumentalmente da parte di qualcuno per escludere qualcun altro. Nella sua accezione originaria, il termine “meritocrazia” definisce il principio di giustizia che postula che ognuno debba essere ricompensato o valorizzato in funzione dei propri meriti. Secondo questo principio, è legittimo dare premi e valutazioni migliori agli studenti che dimostrano prestazioni migliori e offrire attività più stimolanti a coloro che imparano più rapidamente5.Il principio esisteva già nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (Art. 6: «Tutti i cittadini […] sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti»), per ovvi motivi: in una società in cui le risorse venivano distribuite secondo il criterio dell’ascrizione, rifarsi al criterio della “virtù e dei talenti” era rivoluzionario e metteva in discussione tutto il sistema delle diseguaglianze sociali. Anche nelle rivisitazioni degli anni successivi alla seconda guerra mondiale6 l’idea alla base della meritocrazia era di evitare che gli allievi provenienti dai ceti meno abbienti fossero sistematicamente penalizzati dalla carenza di risorse economiche, culturali e sociali: in un mondo dove devi investire precocemente le tue risorse in un lavoro che ti consenta di sopravvivere, il tuo talento non potrà mai emergere nello studio, a meno che lo Stato non ti dia la possibilità di farlo. Il principio dell’eguaglianza delle opportunità nasce proprio per rendere possibile alle allieve e agli allievi dotati di capacità e merito di continuare gli studi qualunque fosse il loro ceto di origine, allo scopo di ridurre nel lungo periodo le differenze di opportunità dovute allo status di nascita7 e liberando i giovani dal vincolo di occupare le stesse posizioni sociali dei genitori, a prescindere dalle loro capacità e dall’impegno profuso nei compiti. Questo tipo di visione, pur ritenendo inevitabile l’ineguaglianza sociale nell’accesso alle risorse (in questo caso quelle che servono per gli studi superiori), cerca almeno di regolarla con un principio di giustizia che la renda maggiormente accettabile8: le diseguaglianze dovute all’ascrizione e al censo sono “ingiuste”, quelle dovute alle minori capacità o allo scarso impegno sono “giuste”.
L’eguaglianza delle opportunità non garantiva comunque l’eguaglianza dei risultati: in una competizione in cui tutti hanno le stesse opportunità, chi ha più probabilità di vincere è chi ha più strumenti per reggere la competizione e cogliere le opportunità date, oppure chi parte da una posizione avvantaggiata (es. soggetti che vengono da famiglie con un buon livello socio-economico-culturale o che hanno frequentato buone scuole di base). Tutti gli altri, solo perché partono in svantaggio, rischiano di essere bollati alla fine del percorso come incapaci o non meritevoli. L’eguaglianza delle opportunità rischia quindi di legittimare la posizione di superiorità dei primi e la posizione di inferiorità dei secondi, dando a questa giustificazioni “oggettive”9. Un sistema di questo tipo è solo apparentemente “meritocratico”: nella realtà non fa altro che perpetuare le differenze sociali di partenza, mascherandole come “espressione del merito”. Una soluzione possibile è affiancare al principio di eguaglianza delle opportunità anche il principio dell’eguaglianza dei risultati10, puntando ad esempio su una formazione scolastica che faccia raggiungere a tutti (o comunque al maggior numero possibile di allievi) un determinato standard di esiti, dando a ciascun allievo e a ciascuna allieva ciò che gli serve, secondo i bisogni che esprime.
Le distorsioni nell’eguaglianza dei risultati
Anche l’eguaglianza dei risultati ha i suoi problemi: cosa vuol dire eguaglianza dei risultati? In cosa consistono questi “risultati”? Sono costituiti da voti o da apprendimenti? Prendere come indicatore di successo il voto, senza preoccuparsi di stabilire e condividere con gli studenti tabelle di corrispondenza non ambigua tra voti conseguiti e obiettivi di apprendimento raggiunti, fa correre il rischio di generare dinamiche negative: a) se è il docente che decide il voto sulla base di criteri non chiari agli studenti, il voto stesso diventa una sorta di elargizione o portato della sorte, che dipende da cause non controllabili dallo studente; b) se docenti differenti usano in modo differente la scala di valutazione, il voto conseguito diventa una questione aleatoria: capitare con un docente generoso renderebbe paradossalmente più “meritevoli”; c) se gli studenti focalizzano la loro attenzione sul conseguimento del voto possono perdere di vista gli apprendimenti effettivi, studiando più per la prestazione del momento che non per l’effettiva padronanza di quanto acquisito.
In aggiunta, anche laddove esistesse un sistema oggettivo di rilevazione dei risultati, un allievo che partisse a inizio anno scolastico da un livello più basso rispetto a un altro e che arrivasse al termine dell’anno scolastico allo stesso livello, avrebbe ottenuto gli stessi risultati in uscita dell’altro ma – probabilmente – a seguito di un impegno e un investimento di risorse molto più alti, quindi chi dei due avrebbe in quel caso maggior merito?
Altro aspetto di cui tenere conto è la tendenza umana a valutare le proprie capacità in maniera relativa, utilizzando gli altri come termini di paragone11. Se questo genera da un lato sentimenti di soddisfazione quando gli allievi si rendono conto che i compagni sono meno bravi di loro, ne genera anche molti di frustrazione quando accade il contrario. Cercare di combattere le diseguaglianze sociali operando per portare tutti gli allievi a omologarsi a uno standard unico di “merito” aumenterebbe potenzialmente tale frustrazione, perché tale omologazione richiederebbe agli allievi di investire risorse in obiettivi che potrebbero non sentire propri, li porterebbe a confrontarsi con modelli troppo distanti da loro e a focalizzarsi non su ciò che hanno o che sanno fare bene, ma su ciò che a loro manca o non sanno fare. In aggiunta, la tensione verso l’omologare tutti a standard di merito predefiniti porterebbe alla negazione e devalorizzazione delle differenze individuali, che invece sono importanti, perché danno forza e potenziale innovativo alla società.
Quindi, il criterio di valutazione dei risultati non dovrebbe essere l’aderenza a uno standard o una posizione in graduatoria, ma la propria crescita personale nel tempo e la propria capacità di apprendere dai propri errori e di non ripeterli, facendo emergere e valorizzando i propri interessi e i propri talenti. Agganciando il merito alla crescita personale dei soggetti e allo sviluppo delle proprie potenzialità e inclinazioni, lo si aggancia al loro senso di autoefficacia, ossia alla loro convinzione nella propria capacità di mettere in atto le azioni necessarie per ottenere i risultati che desiderano e per esercitare il controllo sulla propria motivazione, comportamento e ambiente sociale12 e alla loro autostima, facendolo diventare fonte di gratificazione e autorealizzazione, più che di possibile insoddisfazione generata da continui paragoni con altri che forse sono come noi, ma non sono uguali a noi.
Per tutti questi motivi il merito non andrebbe descritto con voti o graduatorie, bensì sulla base di giudizi analitici riferiti a comportamenti, scelte, atteggiamenti dei soggetti, che descrivano livelli di partenza e traiettorie evolutive individuali, astenendosi da confronti comparativi. Le descrizioni dovrebbero dare conto di come evolvono le capacità dei soggetti man mano che acquisiscono nuovi metodi di lavoro, di come evolvono gli atteggiamenti nei confronti dei compiti, di come evolve la consapevolezza dello studente delle proprie potenzialità e limiti.
Merito e agentività
L’impegno e l’azione collaborativa in contesti sociali sono elementi positivi associati al merito, ma nei percorsi di istruzione impegnarsi e collaborare non è sufficiente, bisogna raggiungere gli obiettivi prefissati. Il merito deriva dall’impegno solo se questo porta alla riuscita, al risultato, al compimento di quanto iniziato (il “bene compiuto”). Questa condizione di successo nelle proprie azioni intenzionali è definita dal concetto di agentività (agency), ossia la capacità dei soggetti di intervenire in senso causale sulla realtà, operando sia sul proprio mondo interno sia sull’ambiente esterno e trasformando entrambi in funzione delle proprie anticipazioni, ossia delle proprie previsioni sugli eventi futuri13. Essa richiede la capacità di focalizzare uno scopo preciso e di identificare le azioni idonee per raggiungere gli obiettivi che ne derivano.
Il successo nelle proprie azioni intenzionali è però condizionato dal contesto in cui ci si trova. Per giungere al risultato non basta saper agire e voler agire, è necessario anche poter agire, ossia non avere ostacoli esterni all’espressione della propria capacità e impegno. Questo implica due cose: a) per giungere al successo è necessario che siano presenti le giuste condizioni sociali, ossia non vi sia qualcosa o qualcuno che agisca contro; b) che il successo non sia il successo di uno contro il gruppo (altrimenti vi sarà sempre chi remerà contro), ma il successo di tutto il gruppo che ha contribuito al suo verificarsi. Essendo tutti noi inseriti in una rete dinamica di relazioni, l’agentività è sempre una co-agentività: gli obiettivi non si raggiungono da soli ma con i gruppi di riferimento in cui ci si trova ad agire, aiutando ed essendo aiutati. Ragionare sulla co-agentività invita a non vedere gli altri come rivali ma come risorse per il raggiungimento dei propri obiettivi individuali: ciò che non possiamo da soli possiamo farlo insieme, servendosi della forza del gruppo e dell’eterogeneità delle sue idee. Il perseguire obiettivi individuali può essere compatibile con il perseguire obiettivi del gruppo: il singolo può dare al gruppo la forza e le idee che servono per raggiungere gli obiettivi collettivi, il gruppo aiuta il singolo a raggiungere quelli individuali sapendo che sono funzionali al raggiungimento di quelli collettivi.
Il merito come proprietà del gruppo in cui il soggetto è inserito
Se il gruppo non è un ostacolo per l’autorealizzazione individuale ma un mezzo per facilitarla, il concetto di merito passa dall’essere una proprietà del singolo a una proprietà del gruppo in cui il soggetto è inserito e che lo supporta nell’ottenere i suoi successi. Dove il gruppo funziona, grazie ai contributi coordinati dei singoli, il merito prende forma nell’impegno che i singoli profondono per mettere a frutto (e migliorare) le capacità di tutti i membri del gruppo, consentendo al gruppo di ottenere dei risultati di cui tutti i membri possono beneficiare. In tal modo, la tensione verso il merito non è più una partita giocata contro l’altro, ma con l’altro. L’altro non è più il rivale, la minaccia, l’ostacolo al proprio raggiungimento del merito, ma una risorsa per ottenerlo. Se il successo non è più una proprietà del singolo ma del gruppo in cui il singolo è inserito, la cooperazione e l’integrazione sinergica delle differenze all’interno del gruppo diventano non solo possibili, ma indispensabili per l’acquisizione del merito e le differenze individuali (di metodo, di atteggiamento, di consapevolezza) diventano una risorsa, anziché un problema.
La forza nel gruppo non sta nel costruire l’omogeneità dei suoi partecipanti ma nella sua capacità di tenere insieme e far lavorare in modo complementare, sinergico e vicendevolmente rafforzante le varie eterogeneità. L’avere un sistema di valori condiviso è un elemento chiave per fornire una base di interazione tra soggetti potenzialmente uno diverso dall’altro, ed elementi chiave sono anche la disponibilità dei singoli all’ascolto, al rispetto degli altri, alla comprensione delle loro buone ragioni, alla cooperazione, alla flessibilità cognitiva. Il gruppo funziona perché vive degli apporti di tutti coloro che hanno interesse, piacere e sincera motivazione nel farlo funzionare, e più questi apporti sono eterogenei, più il gruppo ha strumenti ed energie per crescere e per far crescere i singoli.
Anche qui, l’adozione di una prospettiva di merito non ha come scopo quello di promuovere una competizione tra gruppi in luogo di una competizione tra singoli, ma di promuovere una crescita del gruppo con l’apporto di tutti i suoi membri, anche predisponendo un sistema di ricompense per i gruppi che l’hanno ottenuta. Nella pratica scolastica questo significa premiare un’intera classe se questa ha dimostrato agentività nel promuovere il successo di tutti i singoli membri, e premiare un intero team insegnante se ha dimostrato agentività nel promuovere il successo di tutti i singoli allievi. Il merito del gruppo ritorna sui singoli come riconoscimento del proprio valore e dell’importanza del proprio contributo.
Passando da un concetto di merito come proprietà individuale a uno di merito come proprietà di un gruppo si danno quindi agli allievi (e agli insegnanti) messaggi molto precisi legati alla socialità, alla cooperazione, alla presa in carico dei più deboli, alla valorizzazione di talenti disparati come mezzo per servire i contesti sociali ed esserne serviti (e non per asservirli, come accadeva nella distopia di Young).
Alcune conclusioni
Ragionare sul merito può essere utile e funzionale. Anzitutto ci porta a chiederci quali sono i criteri che dovrebbero essere utilizzati per allocare in modo equo le risorse pubbliche destinate alla valorizzazione delle persone dotate di capacità, anche laddove non nascano e crescano in contesti in grado di farli emergere senza aiuti esterni. Ci porta poi a chiederci quali siano gli elementi che consideriamo desiderabili in un allievo (e che quindi lo rendono “meritevole” di proseguire il suo cammino di studente) e quali non lo siano. Nella distopia di Young è meritevole chi ottiene punteggi alti in test di intelligenza ripetuti periodicamente e si impegna attivamente nei compiti assegnati, ma è davvero questo che vogliamo? La meritocrazia che egli descrive non è differente da un’aristocrazia: seleziona “cervelloni” e non forma persone intelligenti, esclude le persone dalle decisioni e non le include, premia chi è omologato o in linea con gli standard definiti da chi detiene il potere e ignora gli altri. L’eguaglianza delle opportunità e l’eguaglianza dei risultati non fanno molto meglio: mantenendo l’accento sulla competizione più che sulla cooperazione, fanno sì che comunque a primeggiare siano quelli che partono da livelli più alti e che riescono a superare gli altri, anziché quelli che si impegnano per far emergere i propri talenti, coltivarli, migliorarli e metterli a disposizione del gruppo in cui sono inseriti.
Come uscirne? Superando la necessità dell’eguaglianza e della standardizzazione a tutti i costi, trasferendo la competizione con gli altri su un piano di competizione con sé stessi (impegnarsi per migliorare) e ridefinendo il merito come proprietà collettiva anziché individuale. In tal modo, il miglioramento dell’individuo diventa una risultante del miglioramento del gruppo di cui fa parte, miglioramento che a sua volta è innescato da quello dell’individuo stesso, secondo un processo che si autoalimenta. Tale miglioramento non viene valutato sulla base di parametri assoluti ma di parametri derivati da un quadro valoriale esplicito e condiviso, che aiuti nel decidere cosa è desiderabile e cosa non lo è (senza di questo anche i gruppi devianti purché dotati di agentività possono risultare estremamente meritevoli). Allocare risorse scarse sulla base del merito diventa così una forma di dialettica tra gruppi che si confrontano e operano negoziazioni sociali. Il sistema di valori condiviso prende forma in un sistema di diritti applicabili a tutti, “meritevoli” e non, e questa è, in buona sostanza, l’essenza stessa di una società democratica.
Calato in un’ottica di istruzione, una scuola che “merita” è una scuola che costruisce gruppi e aggregazioni efficaci, che includono i singoli, li educano a un sistema di valori condiviso, li migliorano e li aiutano a scoprire e costruire progressivamente i propri talenti in modo che, attraverso questi, possano a loro volta migliorare i rispettivi gruppi di appartenenza. Un allievo che “merita” è un allievo pienamente inserito in questo processo, che cresce grazie al gruppo e promuove la crescita del gruppo stesso. I talenti del singolo lavorano per il gruppo, i talenti del gruppo lavorano per il singolo, perché gli altri sono come me, ma (per fortuna) non sono uguali a me.
Note
- Cfr. P. Barrotta, I demeriti del merito. Una critica liberale alla meritocrazia, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999.
- Cfr. A. Sen, Merit and Justice, in K. Arrow et al (a cura di), Meritocracy and Economic Inequality, Princeton University Press, 2000, pp. 5-16, consultabile all’indirizzo http://assets.press.princeton.edu/chapters/s6818.pdf.
- Cfr. M. Duru-Bellat, L’inflation scolaire: les désillusions de la méritocratie, Seuil, Paris 2006.
- Cfr. C. Xodo, Merito, meritocrazia e pedagogia, in «Studium Educationis», n. 1, 2017, pp. 9-36.
- Cfr. M. Crahay, L’école peut-elle être juste et efficace?, De Boeck, Bruxelles 2000.
- Cfr. F. Butera, La meritocrazia a scuola: un serio ostacolo all’apprendimento, in «Psicologia Sociale», n. 3, settembre-dicembre 2006.
- Cfr. Duru-Bellat, L’inflation scolaire cit.
- Cfr. Butera, La meritocrazia a scuola cit.
- Cfr. M.J. Sandel, La tirannia del merito, trad. it E. Marchiafava, Feltrinelli, Milano 2021.
- Cfr. Crahay, L’école peut-elle être juste et efficace cit.
- Cfr. Butera, La meritocrazia a scuola cit.
- A. Bandura, Self-efficacy: Toward a unifying theory of behavioral change, in «Psychological Review», 84, 1977, pp. 191-215.
- A. Bandura, Self-efficacy mechanism in human agency, in «American Psychologist», 37, 1982, pp. 122-147.