Smartphone a scuola?

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Sicurezza, benessere e consapevolezza nell’era digitale: una conversazione tra Marco Gui, sociologo, e Simone Giusti, esperto di letteratura, dall’ultimo numero de «La ricerca».
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Damien Hirst, “Demone con ciotola”, Palazzo Grassi, Venezia 2017 – “Treasures from the Wreck of the Unbelievable”, Photo Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd.

Tra il 2013 e il 2014 Simone Giusti e Marco Gui hanno coordinato una ricerca su Gli effetti degli investimenti in tecnologie digitali nelle scuole del Mezzogiorno, pubblicata nel 2015 nella collana Materiali UVAL, l’Unità di valutazione degli investimenti pubblici della Presidenza del Consiglio. In quell’indagine, i cui risultati hanno contribuito a una revisione delle politiche di investimento in tecnologie dell’informazione e della comunicazione da parte del Miur, si fornivano alcune indicazioni e suggerimenti pratici anche sull’uso dei dispositivi mobili privati a scuola.

«È importante – si legge a pagina 209 del volume – porre l’attenzione anche sugli strumenti di più recente diffusione e che finora sono rimasti esclusi dalla riflessione sulle TIC nella scuola, soprattutto gli smartphone. Sugli effetti dell’utilizzo di tali strumenti in classe non sono ancora disponibili risultati di ricerca chiari. Nel frattempo, però, la loro diffusione è ormai trasversale ai contesti socio-economici ed è – nei fatti – parte integrante della vita degli studenti. Il loro uso non è più un problema esclusivamente extrascolastico, sia perché sempre più spesso vengono utilizzati dai docenti stessi per fini didattici nonostante il divieto ministeriale, sia perché le ricadute negative del loro abuso impattano anche sulla vita scolastica. Rispetto a questi strumenti manca ancora una presa di posizione chiara, da un punto di vista didattico-pedagogico, da parte delle istituzioni formative. È palpabile la mancanza di una guida per gli studenti rispetto agli sviluppi e alle ricadute che essi hanno sulla loro vita scolastica, ma anche più in generale sul loro benessere. Appare perciò non più rimandabile l’esigenza di affrontare in modo intenzionalmente educativo l’uso dei dispositivi mobili. A questo fine, occorre incentivare le scuole e i singoli docenti a progettare in modo esplicito il loro uso nell’azione didattica ed educativa, sia indicando con quali modalità è opportuno l’utilizzo o il non utilizzo di tali dispositivi, sia favorendo un approccio critico degli studenti verso di essi».

Dopo quella esperienza, Gui e Giusti hanno continuato l’attività di ricerca e formazione su questi temi. Marco Gui, già autore del libro A dieta di media. Comunicazione e qualità della vita (il Mulino, 2014), svolge attività di ricerca sugli effetti sociali dell’iperconnessione e ha pubblicato report e articoli scientifici sull’uso dello smartphone tra gli adolescenti. Simone Giusti, nel suo libro Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015), ha approfondito il rapporto tra tecnologie digitali e insegnamento linguistico-letterario.

Abbiamo chiesto loro di affrontare in forma dialogica alcune questioni relative all’uso degli smartphone a scuola.

Redazione: La dichiarazione della ministra Fedeli che autorizza lo smartphone in classe ha aperto un dibattito ampio, nel corso del quale sono emerse posizioni favorevoli, ma anche molte preoccupazioni che sembrano legittime. Cosa ne pensate?

Marco Gui: Cominciamo col prendere in seria considerazione le preoccupazioni di chi vede nello smartphone una fonte di distrazione. Hanno ragione! Lo smartphone ha un potenziale distraente altissimo. Esiste un’ampia letteratura che misura gli effetti negativi per la concentrazione di avere con sé uno smartphone, sia nella vita privata sia in quella scolastica. Si prenda ad esempio la ricerca della LSE che mostra che la proibizione dell’uso dello smartphone a scuola porta benefici ai livelli di apprendimento (https://www.theguardian.com/education/2015/may/16/schools-mobile-phones-academic-results). Se vogliamo sintetizzare, l’effetto distraente dello smartphone è quello che finora è stato meglio misurato e su cui abbiamo più certezze. Questo, secondo me, ci porta a una prima, chiara, conclusione: va evitata la presenza costante dello smartphone in classe. Che facciamo allora? Proibiamo del tutto gli smartphone? Non è così semplice. È chiaro che gli studenti devono fare esperienza – almeno a scuola – di momenti privi di connessione permanente, ma per essere in grado di riprodurre questa esperienza anche autonomamente occorre una educazione all’uso dello strumento. Tutti noi andiamo in realtà educati a governare i dispositivi digitali mobili, ci dobbiamo educare insieme! E allora, se lo smartphone deve essere oggetto di educazione e apprendimento, è chiaro che – almeno in qualche momento – deve esserci.

Simone Giusti: È evidente che lo smartphone esercita una grande influenza – non necessariamente positiva – sugli alunni, e anche sugli stessi insegnanti, i quali, come tutti i lavoratori, sono costretti a fare i conti con il problema della connessione permanente, della reperibilità e, ovviamente, della gestione del tempo. Tutti, bambini, adolescenti e adulti, siamo continuamente sollecitati a essere collegati alla rete, connessi alle nostre reti di “amicizie” virtuali. Ciascuno di noi vive una vita moltiplicata: siamo qui e ora, seduti a tavola con i nostri familiari, e siamo anche altrove, pronti a ricevere una nuova notifica e a essere proiettati in uno spazio virtuale. E siamo bombardati da notizie e da storie con cui dobbiamo fare i conti quasi in tempo reale, senza però avere occasione di approfondire, di studiare, di dialogare. Condivido dunque le preoccupazioni, certo, e per questo ritengo fondamentale educare all’uso dello smartphone a scuola. E dove, sennò? La scuola è il solo spazio protetto in cui gli studenti possono fare esperienze educative e riflettere su se stessi e sul mondo.

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Un video che documenta il recupero delle opere d’arte da parte di sommozzatori. Palazzo Grassi, Venezia, 2017, “Treasures from the Wreck of the Unbelievable” – Photo Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd.

Redazione: Va anche detto che molti già lo usano per la didattica: non si tratta di una novità assoluta. E poi ci sono le altre tecnologie digitali: le LIM, i tablet…

Marco Gui: Finora effettivamente abbiamo parlato di educazione all’uso dello smartphone. Diverso è il tema del suo uso per la didattica delle diverse discipline. Partirei dalla constatazione che lo smartphone ha funzionalità utilissime per la creazione di contenuti (es. video, audio, social media) così come è prezioso per la fruizione non tradizionale dei contenuti (es. audio in mobilità come i podcast, mappe interattive o collaborative). Lo smartphone è invece meno utile, talvolta dannoso (ad esempio per gli occhi, per la schiena), nel caso della fruizione tradizionale dei contenuti: la lettura approfondita o la visione di film. Questo emerge chiaramente dalle testimonianze dei docenti e degli studenti che abbiamo intervistato nella nostra ricerca del 2015. Quindi, a mio parere, lo smartphone può certamente rappresentare uno strumento utile a patto di fare i conti con i suoi limiti, e senza trasformarlo in uno strumento didattico universale o centrale. Semplicemente, non è stato costruito per questo scopo! Se si vuole usarlo per la didattica, quindi, l’ambito di utilizzo e gli obiettivi dell’utilizzo vanno a mio parere circoscritti chiaramente. Simone, tu però oltre ai risultati di ricerca hai anche una esperienza diretta in classe. Qual è la situazione quotidiana nelle classi?

Simone Giusti: Anche io trovo utile partire dalla constatazione che gli studenti della scuola secondaria già fanno uso di dispositivi collegati a internet per fare ricerche, per tradurre testi, per condividere informazioni con i compagni, ma anche per mettere in comune i compiti svolti: temi, saggi, articoli di giornale e analisi del testo che possono essere scambiati su un social network o recuperati su siti specializzati rivolti specificamente agli studenti. Per noi insegnanti si tratta di capire quali sono, per ciascuna disciplina, gli strumenti più idonei.

Non va dimenticato, infatti, che lo sviluppo delle competenze digitali è previsto dalle Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e il primo ciclo e dai traguardi di apprendimento della scuola secondaria di secondo grado, ed è trasversale a diverse discipline. Al termine della scuola del primo ciclo, addirittura, si prevede la valutazione e la certificazione della competenza digitale, che è così descritta: «Utilizza con consapevolezza le tecnologie della comunicazione per ricercare le informazioni in modo critico. Usa con responsabilità le tecnologie per interagire con altre persone». Per ottenere questo risultato, che deve essere documentato e verificato dagli insegnanti, è necessario ricorrere all’uso delle tecnologie e io ritengo che sia opportuno coinvolgere proprio quelle che fanno parte della vita quotidiana degli alunni, e non solo quelle specificamente scolastiche, come la LIM o il tablet. In questo modo abbiamo maggiori possibilità che gli alunni continuino a usarle anche al di fuori della scuola nei modi e con le funzioni che abbiamo insegnato loro.

Se poi mi dite che con lo smartphone si insegna meglio, io questo ancora non sono in grado di dirlo, né mi interessa avere certezze. La mia sola certezza è che viviamo nell’era dello smartphone e che il solo modo per insegnare a usarlo è ammetterne l’esistenza e riconfigurare la didattica a questo scopo.

Redazione: Ma non si rischia così di fare gli interessi delle aziende che producono smartphone e, in generale, dell’industria dei contenuti, che attraverso i dispositivi mobili veicola un’enorme quantità di informazioni commerciali e non solo?

Marco Gui: Questa è un’altra legittima preoccupazione! Ma è anche un’altra ragione che dovrebbe spingere la scuola ad avvicinarsi al mondo degli smartphone. Il mondo digitale è permeato di interessi commerciali sempre più forti, che sfruttano l’attenzione e i dati di tutti noi, in particolare di chi ha meno senso critico. In questa categoria rientrano – per ragioni fisiologiche – gli adolescenti e ancor più chi tra di loro ha alle spalle una famiglia con poche risorse culturali ed economiche. Alcune ricerche che ho svolto con la somministrazione di test di competenza digitale a studenti delle scuole secondarie mostrano che una delle loro carenze più rilevanti riguarda proprio i meccanismi commerciali che stanno dietro le piattaforme che più utilizzano. Come guadagnano Instagram, Whattsapp o Youtube? Se uno non ne ha nemmeno un’idea, è più facile che sia ingenuo di fronte a tentativi di influenza commerciale, sociale e anche politica.

Simone Giusti: Anche la costruzione e la ristrutturazione degli edifici scolastici in qualche modo favoriscono il settore edile, ma non per questo ce ne priviamo o neghiamo che esse corrispondano ai bisogni degli alunni e del sistema educativo in generale. Riguardo al bombardamento di contenuti digitali, io ritengo che sia uno dei problemi più seri e urgenti per gli insegnanti di italiano, i quali sono i più coinvolti perché hanno direttamente a che fare con la gestione dell’immaginario e con l’interpretazione dei sistemi simbolici. In questo senso io credo sia importante non solo e non tanto usare gli smartphone, ma anche riconfigurare la didattica, gestendo in modo intenzionale e progettuale attività con le ICT e attività senza le ICT. Per questo è tanto importante fare attività rigorosamente senza le tecnologie, proprio per valorizzare alcune abilità e competenze che sono necessarie in questo momento storico. Penso in particolare alla capacità di ascolto, e quindi alle pratiche di lettura ad alta voce, alle competenze narrative, che sono alla base della capacità di auto-orientamento, all’esperienza di lettura come esperienza forte, portatrice di senso e addirittura pericolosa, perché capace – come i videogiochi, prima dei videogiochi – di immergerti completamente in un mondo narrato nel quale vivere avventure incredibili, moltiplicare la vita.

Redazione: Questo numero de «La ricerca» si occupa soprattutto di fake news e dei nuovi approcci alla ricerca e alla gestione delle informazioni e delle notizie da parte delle persone. Pensiamo anche ai progetti di lettura del giornale in classe, o alla scrittura degli articoli di giornale, che ormai fanno pensare a un mondo in via di estinzione. Oggi gli adolescenti accedono alle notizie dallo smartphone e quasi sempre attraverso il filtro dei social network. Che ruolo educativo può avere la scuola?

Simone Giusti: Oggi un testo autentico – penso semplicemente all’articolo di un giornale online – è composto di parole e immagini, ed è circondato se non addirittura ingombrato da banner pubblicitari e video promozionali che sembrano aggredire il lettore, imponendosi alla sua attenzione. Il “pacchetto-notizia”, inoltre, spesso contiene anche i commenti alla stessa – i commenti dei lettori, non di esperti o di persone con un qualche titolo per esprimersi sulla questione o sull’argomento: chiamiamole opinioni, pareri, reazioni spesso viscerali. Per sapersi difendere e per fruire in modo consapevole di questi contenuti, interagendo con il web in modo attivo e non passivo o esclusivamente da consumatore, non è sufficiente avere una buona padronanza linguistica: occorre anche, tra le altre cose, saper installare programmi di sicurezza sui propri dispositivi, saper gestire la propria identità digitale e essere in grado di capire, nei limiti del possibile, l’attendibilità delle fonti, come anche di saper distinguere tra la notizia e il suo commento, tra una voce autorevole e l’opinione comune.

Marco Gui: Proprio perché lo smartphone non è uno strumento fatto per l’approfondimento, è più facile farci un uso informativo più impulsivo e disattento. Spesso questo tipo di notizie fanno leva su argomenti caldi, scioccanti, di impatto emotivo. Essere consapevoli di come funziona la nostra attenzione, e dei meccanismi che vengono utilizzati per richiamarla da parte di portatori di interessi commerciali e politici, credo diventerà sempre più importante. Le fake news sono un problema per le singole persone che si informano male, che possono esser raggirate e strumentalizzate. Ma sono anche un grande problema collettivo che può influenzare negativamente la vita civile e politica. D’altro canto, lo smartphone permette di informarsi in tempo reale ed è quindi potente sulla dimensione della prontezza più che su quella dell’approfondimento. Ma il cittadino digitalmente competente deve esserne consapevole e padroneggiare entrambe queste dimensioni.

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Un reperto archeologico ancora incrostato dai coralli in mostra a Palazzo Grassi, Venezia, 2017 – “Treasures from the Wreck of the Unbelievable”, photo Irene Fanizza © Damien Hirst and Science Ltd.

Redazione: Quindi, per concludere, qual è la vostra posizione? Cosa pensate dell’uso dello smartphone a scuola?

Marco Gui: Come ho detto, la vera urgenza che vedo è quella di un’educazione all’uso consapevole dello smartphone nella vita quotidiana. Su questo sono convinto che la scuola debba intervenire subito. In secondo luogo, c’è l’utilizzo dello strumento per la didattica disciplinare. Su questo penso ci sia ancora bisogno di capire di più attraverso studi e sperimentazioni, ma soprattutto con le buone pratiche elaborate dagli stessi insegnanti. In ogni caso, ritengo che occorra incanalare questa risorsa verso le attività per cui risulta effettivamente utile e non dannosa: vanno pensati alcuni momenti e compiti specifici e va comunque evitata la presenza costante.

Simone Giusti: Concordo sulla necessità di educare all’uso consapevole dello smartphone, con particolare attenzione alla gestione delle informazioni. Ne va del benessere dei nostri studenti, i nuovi cittadini, i quali avranno la responsabilità di costruire nuove regole di comportamento e di individuare antidoti ai veleni della manipolazione delle informazioni. In questo ambito almeno, è evidente, non possiamo escluderli: dobbiamo lavorare insieme al fine di individuare stili di vita adeguati al tempo presente.

Marco Gui è ricercatore in sociologia dei media presso l’università di Milano-Bicocca. Svolge attività di ricerca sull’uso dei media digitali nella vita quotidiana, in particolare dei giovani. Ha coordinato diverse indagini sull’uso del digitale nelle scuole.
Simone Giusti, insegnante e saggista, scrive per «La ricerca» e dirige insieme a Natascia Tonelli la collana «QdR / Didattica e letteratura».

Leggi l’intervista a Marco Gui A dieta di media.


NOTE

– La ricerca Gli effetti degli investimenti in tecnologie digitali nelle scuole del Mezzogiorno è rintracciabile in rete al sito: http://www.agenziacoesione.gov.it/opencms/export/sites/dps/it/documentazione/servizi/materiali_uval/analisi_e_studi/MUVAL33_Digitale_scuola.pdf.

– Sulle immagini a corredo del pezzo:
Venezia ha ospitato in questi mesi una mostra straordinaria (a Palazzo Grassi; chiude il 3 dicembre): un tesoro vecchio di 2000 anni riscoperto sul fondo dell’Oceano Indiano. Apparteneva a Cif Amotan II, un liberto vissuto tra il I e il II secolo dopo Cristo ad Antiochia. Molto ricco, religioso e amante del bello, egli aveva deciso di costruire un tempio dedicato al dio Sole e di ornarlo con opere d’arte colossali, purtroppo andate perdute per il naufragio della Apistos (“incredibile” in greco), la nave che le trasportava. Sino al fortunato ritrovamento avvenuto nel 2008, ben documentato dai video che corredano la mostra dei reperti dal titolo Tesori dal naufragio dell’Incredibile, ospitata alla Punta della Dogana e a Palazzo Grassi, nel cui atrio è visibile il colossale Demone con ciotola.
«La mostra è incentrata su quello che crediamo», afferma Damien Hirst, l’artista britannico che ha inventato di sana pianta Cif Amotan II, le opere e tutta la vicenda. «Io credo nella storia del collezionista vissuto 2000 anni fa. Se chiudo gli occhi lo vedo, non mi si può dire che non sia mai esistito».

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