Ci sono due grotte dietro all’ultimo premio Nobel in Fisiologia o Medicina: una si trova nella valle di Neander in Germania, dove nel 1856 furono scoperti i resti di quello che sarà chiamato, appunto, Homo neaderthalensis; l’altra è quella di Denisova nei monti Altai (Siberia meridionale), dove nel 2008 fu rinvenuta una falange del mignolo di un altro nostro antenato. È il cosiddetto “uomo denisoviano” che ancora non ha un nome latino ufficiale, e nemmeno si sa se l’ossicino apparteneva a un individuo maschio o femmina, ma il DNA estratto da questo reperto e da quelli neandertaliani ha fatto vincere il Nobel a Svante Pääbo.
Nato a Stoccolma il 20 aprile del 1955, suo padre era il biochimico Sune Bergström (anche lui vincitore del Nobel per la medicina nel 1982 insieme a Samuelsson e Vane per la scoperta delle prostaglandine), ma Svante porta il cognome della madre, la chimica estone Karin Pääbo, perché frutto di una relazione extraconiugale, come racconta lui stesso nel suo memoir del 2014. Il libro (tradotto da Daniele A. Gewurz) si intitola L’uomo di Neanderthal. Alla ricerca dei genomi perduti ed «è una lettera dal fronte. Se volete scoprire come funziona davvero la scienza, vi consiglio di leggerlo», come diceva il grande entomologo statunitense Edward O. Wilson (da poco scomparso). Questo il suo incipit fulminante: «In una tarda serata del 1996, quando avevo appena preso sonno, squillò il telefono. Era Matthias Krings, un dottorando del mio laboratorio presso l’istituto di Zoologia dell’Università di Monaco. Si limitò a dire: “Non è umano”. “Arrivo,” farfugliai, mi buttai addosso qualche vestito e traversai la città in macchina per raggiungere il laboratorio».
Una frase enigmatica pronunciata nel cuore della notte segnala che una delle più importanti scoperte nel campo della paleogenetica è confermata: quello che “non è umano” è appunto il DNA di un uomo di Neanderthal, isolato e sequenziato per la prima volta dal gruppo di ricerca di Pääbo. Come ha sancito anche l’Accademia reale svedese delle scienze, questa scoperta è una pietra miliare della conoscenza del cespuglio evolutivo da cui si è originata anche la nostra specie: Homo sapiens.
Quando il giovane Pääbo inizia a usare metodi genetici moderni per studiare il genoma neandertaliano, si rende conto ben presto che le difficoltà sono enormi: con il tempo infatti il DNA si modifica chimicamente e si frammenta, ecco perché in reperti che hanno qualche migliaio di anni ne rimangono solo tracce spesso anche contaminate dal DNA di altri organismi (come batteri o umani moderni). Ma negli anni Novanta, divenuto professore di biologia all’ateneo di Monaco di Baviera, riprende le sue ricerche e decide di analizzare il DNA dei mitocondri (organuli cellulari che contengono un proprio genoma). Queste molecole sono molto più piccole di quelle presenti nel nucleo della cellula e contengono solo una parte dell’informazione genetica, ma essendo presenti in migliaia di copie, le possibilità di successo aumentano. Con questo nuovo approccio, Pääbo riesce a sequenziare una regione di DNA mitocondriale da un frammento d’osso di 40.000 anni. È la prima volta che possiamo leggere una sequenza genetica da un nostro parente estinto.
Però le informazioni che si possono ricavare analizzando solo il DNA mitocondriale sono limitate, allora Pääbo e il suo gruppo di ricerca decidono di sequenziare l’intero genoma nucleare di Homo neanderthalensis: una missione che sembra impossibile. Nel frattempo gli viene offerta la possibilità di fondare il Max Planck Institut für evolutionäre Anthropologie a Lipsia in Germania, dove dal 1999 è direttore del dipartimento di genetica evoluzionistica. Nel nuovo istituto, con i suoi collaboratori migliora sempre più le tecniche per isolare e analizzare il DNA dai resti ossei più antichi, e i loro sforzi hanno successo: nel 2010 pubblica la prima sequenza del genoma di una specie umana estinta. Si riesce così a stabilire che il più recente antenato comune fra la nostra specie e i Neanderthal risale a circa 800.000 anni fa. E nel frattempo è nata anche una nuova disciplina scientifica: la paleogenetica.
A questo punto, il team di Pääbo non si ferma e inizia a indagare se e quali relazioni ci sono tra Neanderthal e gli esseri umani contemporanei provenienti da diverse parti del mondo. Grazie alle analisi comparative fra genomi, si dimostra che alcune sequenze di DNA neandertaliane sono più simili a quelle di persone provenienti dall’Europa o dall’Asia rispetto alle sequenze di persone d’origine africana. La spiegazione è che Homo sapiens e H. neanderthalensis si sono incrociati durante i millenni in cui hanno abitato le stesse zone del pianeta.
C’è poi un altro evento significativo nella sua sfolgorante carriera, nel 2008 era stato scoperto in una grotta nel sud della Siberia un frammento osseo di un dito risalente a 40 000 anni fa. La falange conteneva del DNA molto ben conservato, che viene sequenziato all’istituto di Lipsia e i risultati sono sensazionali: la sequenza è diversa da tutte quelle note sia dei Neanderthal che degli umani attuali. Pääbo ha individuato una nuova specie di ominini (gruppo di ominidi comprendente scimpanzé, bonobo, noi e vari nostri antenati estinti) che viene chiamato uomo di Denisova, come la grotta in cui era stato trovato.
Anche questa volta, confrontando le sequenze di DNA di persone provenienti da diverse parti del mondo si è dimostrato che c’era stato un flusso genico anche tra Homo sapiens e i denisoviani; soprattutto nelle popolazioni che vivono in Melanesia e in altre parti del sud-est asiatico.
Queste scoperte ci hanno fatto capire meglio la nostra stessa storia evolutiva, provando a rispondere a una delle domande fondamentali dell’esistenza umana: “da dove veniamo?”. Grazie a Svante Pääbo sappiamo oggi che quando la nostra specie è uscita dall’Africa, c’erano almeno altre due popolazioni di ominini estinti che vivevano in Eurasia. Homo neanderthalensis abitava la parte occidentale del continente, mentre nella parte orientale c’erano i denisoviani. Durante la sua migrazione H. sapiens ha incontrato e si è incrociato con entrambe le specie, ecco perché tra la popolazione europea circa l’1-2% del DNA è neandertaliano, mentre chi vive in Papua-Nuova Guinea ha un altro 1-6% del genoma di origine denisoviana.
Come dice Pääbo in una conferenza del 2011 intitolata Indizi DNA del nostro Neanderthal interiore: «dal punto di vista genomico, siamo tutti africani! Sia che viviamo ancora in Africa sia che ne siamo usciti». Infatti ogni essere umano attuale può far risalire i suoi antenati a una piccola popolazione di ominini africani che poi si sono diffusi in ogni angolo del mondo. Inoltre, grazie alle ricerche del Nobel svedese abbiamo capito che neandertaliani e denisoviani si sono accoppiati con i più moderni Homo sapiens e hanno lasciato la loro impronta nelle profondità del nostro genoma. Questo secondo Pääbo è la dimostrazione che «ci siamo sempre mescolati, sia tra di noi sia con altre forme di Homo oggi estinte». Quasi un inno alla contaminazione, di genomi così come di culture, che dalle profondità di una grotta abitata dai nostri antenati ancora oggi fa sentire la sua eco.