Una soluzione al problema potrebbero consistere nei così detti test oggettivi che cercano di evitare il problema, risolvendolo alla radice. Dallo scetticismo circa l’oggettività della valutazione, se non affidata a test oggettivi, si opta per questi ultimi come via d’uscita. Essi però presentano una serie di limiti che qui non posso discutere. Mi limito solo a osservare che, ammesso e non concesso che quei testi siano davvero oggettivi, essi si prestano per valutare solo alcune delle abilità e capacità normalmente richieste.
Un altro modo di affrontare la questione passa per quella lunga e ricca tradizione di riflessioni sul ruolo dell’affettività nella formazione personale che si è svolta a partire dalle riflessioni di Pascal sulla logique du coeur e ha attraversato l’etica e la metafisica di Max Scheler, la fenomenologia di Dietrich von Hildebrand, la filosofia dell’educazione di Romano Guardini, fino ai lavori di Roberta De Monticelli e della sua scuola. Va insomma chiarito il ruolo del sentimento nella dinamica del conoscere.
L’articolazione migliore del problema, per quanto ne so, è quella che riporto qui di seguito. Il testo ha, per modo di esprimersi, il taglio della filosofia analitica. Esso, infatti, ripropone il problema con estrema chiarezza e in formula:
Se chiamo r (o «ragione») l’energia conoscitiva del soggetto umano e se chiamiamo v (o «valore») la realtà da conoscere in quanto di fatto penetra nell’orizzonte dell’umano interesse, la r non potrà mai avere una idea chiara e oggettiva della v per la presenza intermediaria e alterante della s (o «sentimento»). Ecco dunque la formula:
r →s ← v
L’oggetto della conoscenza in quanto interessa (v) suscita uno stato sentimentale (s), e questo condiziona la capacità conoscitiva (r). La serietà dell’uso della ragione esigerebbe la eliminazione della s o una riduzione al minimo di questo fattore. Solo in una eliminazione o, se vogliamo, in una riduzione al minimo del fattore s la conoscenza sarebbe veramente oggettiva, conoscenza vera dell’oggetto.
Il testo offre, nella parte che segue il passo ora citato, la soluzione del problema. La presenta attraverso un’immagine che resta impressa:
Immaginiamo di essere in vacanza in Val Gardena. Si arriva al Passo Sella. È una stupenda giornata. Prendo il cannocchiale, provo a guardare, ma non vedo nulla, tutto è oscuro, opaco. Metto a fuoco la lente, e mi si presenta un panorama eccezionale nel quale riesco perfino a distinguere le persone che sciano sulla Marmolada. La lente del cannocchiale non è fatta per impedire o rendere più difficoltosa la vista, ma per renderla più facile. E come la rende più facile? Portando, per così dire, la Marmolada più vicina alla pupilla dell’occhio, cosicché l’energia visiva del mio occhio l’afferra facilmente. […] Analogamente avviene per il problema che ci interessa. La s, cioè il sentimento, va immaginata come una lente: l’oggetto da questa lente viene convogliato più vicino all’energia conoscitiva dell’uomo; la ragione può conoscere più facilmente e più sicuramente. Allora la s è una condizione importante per la conoscenza; il sentimento è un fattore essenziale alla visione. Non nel senso che sia esso a vedere, ma nel senso che rappresenta la condizione per cui l’occhio, o la ragione, vedano secondo la loro natura.
Una simile spiegazione valorizza tutti e tre i fattori e mi pare tranquillamente razionale, a differenza della prima. […] Il problema cioè non è che il sentimento venga eliminato, ma che il sentimento sia al suo posto giusto
I due passi di Luigi Giussani (Il senso religioso, Milano 1986, pp. 41, 43), rispettivamente, esprimono il problema e ne mostrano per via intuitiva la soluzione: essa va cercata non nell’eliminazione di uno dei fattori in gioco, ma nella comprensione della funzione di ciascuno di tali fattori. Nello specifico, l’autore mostra la funzione del sentimento che consiste nel portare più vicino ciò che altrimenti sarebbe lontano e indistinguibile. Il sentimento, dunque, svolge una funzione importante nella dinamica della conoscenza. Esso di per sé aiuta a conoscere meglio, ma va messo a fuoco attraverso l’uso della ragione, altrimenti la sua funzione fondamentale finisce per interferire con la possibilità di cogliere ciò che pure si desidera vedere/conoscere.
Nell’atto della valutazione perciò il sentimento non va eliminato, ma regolato. In questo senso, si può parlare di un lavoro di ascesi dell’insegnante che valuta, di una qualche forma di distacco, senza con ciò voler dire che questo mortifica la vita emotiva. Al contrario, tale lavoro valorizza appieno l’affettività e, al contempo, riesce a neutralizzarne le tentazioni. Si evita così quella situazione paradossale in cui si finisce col far del male agli allievi, proprio perché mossi dai più buoni sentimenti. Infatti, dire loro che hanno fatto bene, quando invece hanno fatto male, impedisce che imparino ad autovalutarsi.
Se questa è la teoria, resta vero che nella pratica la messa a fuoco del sentimento costituisce una delle sfide più difficili per ogni insegnante, appena attenuata nelle difficoltà dal confronto intersoggettivo della collegialità. Non mi stupisce che la maggior parte delle persone, che non conoscono la professione per esperienza diretta, creda che l’insegnamento sia un lavoro facile: non ne colgono infatti le sottili, ma non per questo meno faticose, problematiche.