Un diciassettenne, Davide, scrive a “Repubblica” per denunciare le discriminazioni subite a causa della sua omosessualità: per fortuna – lui stesso scrive – questo accorato appello è un’alternativa al suicidio… Ma un altro giovane studente gay, a Roma, si è buttato dalla finestra della scuola e si è ferito gravemente.
Sono tutti fatti molto recenti, dei quali la stampa ha parlato diffusamente. Fatti tra loro molto diversi, sui quali ognuno di noi, che vive la quotidianità dei rapporti con gli adolescenti, penso si sia interrogato. In fondo la vita di tutti questi giovani di cui si è detto gravitava (e gravita, in qualche caso) intorno alla Scuola; le loro giornate le passavano in larga parte con compagni ed insegnanti, che forse (ma dico forse, perché non si può generalizzare senza conoscere i fatti nel dettaglio…) non sono stati una risorsa “salvifica” ma parte dei loro problemi…
E per quanto riguarda gli insegnanti, sono sicuro, essi ne sono stati una parte inconsapevole, perché non è affatto facile proporsi sempre come “antidoto” (oppure come “rimedio”) a quella violenza verbale, fisica, e virtuale che – palese o latente – permea la società in cui viviamo. È invece facile suggerire un’indiscriminata colpevolizzazione della Scuola, come è avvenuto il 30 maggio nella trasmissione Italia in controluce su Radio 24 – di solito ottima – che ascolto sempre in auto, di ritorno verso casa. Parlando del sedicenne gay che ha tentato il suicidio a Roma (v. sopra), si è infatti più volte insistito sulla incapacità (ed anche, più esplicitamente, sulla non volontà) della Scuola come istituzione di affrontare questi problemi… “E la stampa, cosa fa – avrei voluto chiedere alla giornalista – al di fuori dell’emergenza?”. E l’inviata presso l’Istituto del ragazzo lamentava pure che Preside e docenti non volessero parlare con lei: ma come è possibile – dico io – che con un minorenne (e lo ripeto, un minorenne…) in prognosi riservata, con un’indagine in corso, si possa a cuor leggero fare dichiarazioni alla radio!
Tornando a riflettere sui nostri compiti, sulle nostre responsabilità, io non mi tiro affatto indietro: parliamone pure. Ma una cosa deve essere chiara: noi insegnanti non possiamo “sorvegliare” la vita online dei nostri studenti, controllare ogni giorno i lividi delle nostre studentesse, comprendere sempre al volo il muto disagio dell’emarginazione. Insomma, non siamo psicologi, medici, assistenti sociali, poliziotti, hacker, confessori… anche se molto spesso, part time, abbiamo svolto tutte queste funzioni. E lo abbiamo fatto, talora, con lo scarso gradimento delle famiglie dei nostri allievi, poco propense a credere ad alcune nostre informazioni sui loro figli (presunto uso di droghe leggere, sospetti di anoressia, forme di disagio psichico…), soprattutto se formulate – faccio un esempio personale – dal professore di Latino, sacro custode della consecutio temporum. “Ma questo che ne saprà poi… E chi, meglio dei genitori, può capire i disagi di un ragazzo?”.
Mi piacerebbe che qualcuno, da queste colonne o da altre, mi desse un consiglio. Mi spiegasse come posso meglio accorgermi dei disagi di una Carolina, di una Fabiana, di un Davide… che magari vorrebbero da me un’attenzione che la fretta del quotidiano – anche se spesso bellissimo – tran tran della “trasmissione di saperi”, m’impedisce di dare loro. Lo dico convinto come sono che la Scuola debba anzitutto “fare la Scuola” e che forse sarebbe inutile aggiungere altro ai già numerosi (troppo numerosi? non saprei…) incontri o conferenze di prevenzione di tabacco, alcool, droga, AIDS, oppure di educazione alla guida corretta, alla sessualità, alla legalità, al risparmio energetico, alla donazione del sangue e degli organi, o di orientamento al lavoro o all’università. Dobbiamo forse convocare l’ennesimo psicologo per dire ai giovani di non discriminare i gay o un medico per spigare ai nostri mini-machi di non picchiare le loro ragazze? Se fosse così ne convocherei due al giorno, e li pagherei con parte del mio stipendio. Ma credo che ciò non basti, e che – anzi – l’eccesso di queste iniziative rischi di dare un’idea distorta di questi problemi: razzismo, omofobia, la violenza sulle donne non sono malattie da schivare, sono qualcosa di ben più difficile da prevenire e controllare.
Io, comunque, penso che le discriminazioni e gli atteggiamenti di prevaricazione si combattano – in primis – con la cultura, con l’attenzione, con il dialogo dentro le aule scolastiche. E penso anche che, se si manifestano a Scuola, questi non debbano essere in alcun modo tollerati: perché dovremmo prendere un provvedimento disciplinare verso un ragazzo che “bigia” (così si dice qui nel Milanese…) e invece accogliere con buonismo d’accatto una battutaccia sui gay, lo scarso rispetto verso un compagno straniero o un commento “pesante” – da caserma, si diceva un tempo… – su una ragazza? In questo sì, la Scuola deve differenziarsi dalla grevità del mondo che la circonda, e finanche da quello della politica, e soprattutto dal suo linguaggio violento; con alcune nobili eccezioni, va detto, tra le quali vi sono recenti, appassionati, interventi della Presidente della Camera Laura Boldrini sulle questioni di cui stiamo trattando. Ma come è possibile – mi chiedo – che una coalizione politica mandi al ballottaggio (tra pochi giorni) un candidato sindaco che qualche anno fa – senza mai smentirsi – disse che avrebbe fatto cacciare dalla sua città i culattoni dalla polizia. O che si schernisca un ministro perché di colore (bingo bongo e dintorni…), o anche – su altre sponde… – che la nobile parola vecchio (in senso anagrafico) diventi sinonimo di superato, obsoleto, inutile e che spesso le si associ l’altrettanto intollerabile idea di rottamazione… Che penseranno allora, i giovani dei loro nonni, ma anche dei loro insegnanti sempre più anziani?
Lo ripeto, spero che qualcuno consigli me e miei colleghi su questi temi: ne abbiamo bisogno, molto bisogno. Però mi permetto di dare anch’io un consiglio, perché deriva da un’esperienza didattica personale; esperienza nata – come talora capita a Scuola – in modo quasi casuale, e stimolata dalla vivacità e dall’intelligenza dei miei allievi.
Terza Liceo Classico, D’Annunzio. Lettura di un passo del romanzo Il trionfo della morte, quello che dice:
«Ella è dunque la Nemica», pensò Giorgio. «Finché vivrà, finché potrà esercitare sopra di me il suo impero, ella m’impedirà di porre il piede su la soglia che scorgo. E come ricupererò io la mia sostanza, se una gran parte è nelle mani di costei? Vano è aspirare a un nuovo mondo, a una vita nuova. Finché dura l’amore, l’asse del mondo è stabilito in un solo essere e la vita è chiusa in un cerchio angusto…».
Giorgio Aurispa, il protagonista, è un “aspirante superuomo”; è violento, antidemocratico, egoista e pensa di dominare il mondo, ma non sopporta che Ippolita, una donna (essere “inferiore”, a suo dire), possa vincolarlo tanto con la sua conturbante passionalità. Ne è fisicamente attratto, ma la considera una nemica, un ostacolo alla realizzazione di sé. Dunque? La ucciderà in un paradossale omicidio-suicidio che sancirà soprattutto il suo fallimento, il fallimento di chiunque pensi di poter “possedere” un altro essere umano, il fallimento di un uomo che crede di potere disporre di una donna solo come di un trastullo. Questo è pertanto emerso dal dibattito coi miei ragazzi: ogni sopruso, ogni oltraggio, ogni violenza contro un altro (e soprattutto di un uomo verso una donna, ma non solo!) è anche un oltraggio fatto a se stessi, alla propria umanità e il primo passo della distruzione etica di chi lo compie. E di conseguenza si è convenuto che le ragazze (intendo quelle di oggi, le mie studentesse…) farebbero bene a denunciare subito qualunque atteggiamento di questo tipo.
Questo vorrei che passasse, anche tramite la cultura. Che chi ha spento la vita della ragazza calabrese, chi ha indotto la giovane novarese al suicidio o il ragazzo di Roma a buttarsi dalla finestra ha, nello stesso tempo, violentato se stesso nel più profondo e forse irreversibile dei modi. E che anche se non si è ucciso – come Giorgio Aurispa – ha ferito a morte la propria dimensione morale. Sono parole che pesano, sono concetti che restano e che turbano gli adolescenti…
Lo so, questo mio è un contributo da nulla, è poca cosa, è un ago nel pagliaio. Ma se non servirà a nessuno, almeno è servito a me: a stare zitto, non ce la facevo proprio.