Quel che sappiamo di Saffo
Saffo, poetessa nata sull’isola greca di Lesbo e vissuta tra il VII e il VI sec. a.C., è senza dubbio un personaggio storico: ne fanno fede le sue emozionanti liriche rimaste, pur se in forma gravemente frammentaria e lacunosa, nonché la considerazione che gli antichi ebbero per lei, se è vero che Platone la chiamò con l’appellativo di «decima Musa». Della sua vita, però, sappiamo poco, e per lo più desunto dai suoi frammenti.
Sappiamo che fu colta e raffinata, che ebbe alcuni fratelli, un marito (Cercila), una figlia (Cleide, nome anche di sua madre), e che a Mitilene fu a capo di un tiaso, cioè una comunità di fanciulle devota ad Afrodite, che aveva lo scopo pedagogico-religioso di educare (con la musica, la danza…) e preparare alla vita sociale e matrimoniale la “meglio gioventù” femminile dell’isola.
Sappiamo anche di un periodo di esilio in Sicilia, perché la sua famiglia – come quella dell’amico Alceo – fu coinvolta nelle lotte politiche che turbarono la loro città. Non molto di più.
L’invenzione dell’amore infelice
Ma Saffo fu troppo brava, forse, per poter essere stata anche felice. Così, almeno, pensavano gli antichi, che costruirono le fake news del suo amore non corrisposto – a causa della sua scarsa avvenenza – per il bel barcaiolo Faone e del successivo suicidio della donna, gettatasi in mare dalla rupe di Leucade. Certamente il suo “amore infelice” divenne un topos letterario, che toccò vertici sublimi nelle Heroides di Ovidio (la Saffo di Ovidio è stata oggetto di una recente, bella, videoconferenza di Nicola Gardini n.d.A.) e, in tempi successivi, nell’indimenticabile Ultimo canto di Saffo (1822) di Giacomo Leopardi: qui, dopo un’apostrofe alla Placida notte, e verecondo raggio / della cadente luna, la poetessa greca, prima di suicidarsi, confonde il proprio destino con quello del poeta recanatese, giacché per virili imprese, / per dotta lira o canto, / virtù non luce in disadorno ammanto. Insomma, ci vuol dire che da “brutti” si vive male e si è mal considerati, e i miei indulgenti lettori spero scuseranno questa rozza semplificazione; è però vero che l’immagine di Saffo è stata riprodotta in vari modi, dall’antichità ai nostri giorni, sempre con fattezze sensuali e affascinanti, a testimonianza del fatto che alla sua presunta “bruttezza” non ha mai davvero creduto nessuno. Potenza, immagino, dell’idea greca di kalokagathía: come poteva non essere kalé una poetessa che affermava che «la cosa più bella… è ciò che si ama», introducendo – di fatto – sentimento e soggettivismo nella letteratura occidentale?
La Saffo di Montanari: un falso originale
In realtà i meravigliosi versi leopardiani erano stati preceduti qualche anno prima da un’originale operazione letteraria, e cioè un testo romanzesco scritto da Alessandro Verri dal titolo Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene, edito a Roma nel 1782. Il letterato milanese narra la vicenda fingendo di tradurre un testo greco, proprio come ha fatto – oltre duecento anni dopo – un grande filologo come Franco Montanari (sì, proprio l’autore del dizionario GI di Loescher), del quale è stato da poco riedito un prezioso volumetto già stampato nel 2005 dal titolo Saffo. Autobiografia segreta. Confessioni di una poetessa, Guida editore, Napoli 2019.
Il libro di Montanari, che fa parte di una collana dal nome ossimorico di “Falsi originali”, prende infatti origine dalla finzione del ritrovamento di un papiro con una sorta di diario segreto (in prosa) della poetessa greca. Da qui una narrazione – gradevole e avvincente – ottenuta mediante una sapiente “cucitura” delle notizie sicure della vita della donna con altre che l’autore costruisce ad hoc, usando però un criterio che definirei di verosimiglianza.
Se infatti non manca qualche coraggiosa innovazione (ad esempio il finale, che però non svelo…) il fil rouge del racconto sono i versi stessi di Saffo, nitidamente tradotti da Montanari; e questa presenza – per così dire – “documentaria” ci invita a farci ingannare da questo “falso originale”, nel quale il lettore smaliziato troverà anche qualche allusione letteraria ad autori d’epoca successiva (da Dante a Kant, tra gli altri).
Ne emerge l’immagine di una donna libera, a tratti spregiudicata, consapevole del proprio ruolo educativo svolto nel tiaso (che comporta anche un’iniziazione omosessuale delle discepole), ma nel contempo pronta a lasciarsi trascinare in turbolente e appassionate relazioni sentimentali con uomini giovani e avvenenti, in primis con il “collega” Alceo (che nei suoi versi aveva lodato la «chioma di viola» dell’amica). Tale livello di emancipazione, ovviamente, non era troppo ben visto dai benpensanti del tempo!
Al di là della fiction, c’è però una frase che ci consegna una Saffo che non può non essere vera, quando scrive: «In certi momenti, che fossero gli dèi o il mio essere più segreto, la mia poesia si sostituiva a me, anzi era me stessa, più vera del vero» (p. 43). Perché, a prescindere da tutto, è la sua arte che l’ha resa immortale; un’arte nella quale la sua vita (felice o meno) è stata sublimata e collocata, pur nella sua enigmatica frammentarietà, sub specie aeternitatis.
La Saffo di Ugo Pontiggia, tra leggerezza ed essenzialità
Chi vuole approcciarsi alle liriche di questa grande artista, tra l’altro, ha da oggi uno strumento bibliografico in più, e cioè il volume a cura di Ugo Pontiggia, Saffo ritrovata, La finestra editrice, Lavis (TN) 2020.
Pontiggia si era già cimentato traducendo e commentando gli epigrammi di Anite (e ne ho parlato su queste colonne) e le poesie d’amore di Ibico; ed è come se si fosse gradualmente preparato ad avvicinarsi a un “mostro sacro” come Saffo, della quale ci propone una silloge di venticinque testi, accompagnati da un’introduzione e da qualche breve nota esplicativa.
Non si tratta – è bene dirlo – di un’edizione per specialisti, e lo stesso curatore ne è ben consapevole. Si tratta invece di un garbato invito ad accostarsi a una poesia complessa avendo la «leggerezza» dei versi come punto di riferimento. Una leggerezza che è conquista formale e grazia comunicativa, come pure «accettazione del mondo e dei suoi misteri» (p. 20); ma che non deve essere identificata con la «debolezza femminile» (p. 20) o la semplicità, perché in queste liriche «il divino si manifesta nel potere con cui domina la mente e il corpo dei mortali» (p. 19), e anzi in esse «vi è… qualcosa che c’interroga e ci mette a disagio rispetto alla sfida di Saffo: declinare poesia, bellezza, verità, violenza» (p. 21).
Siamo dunque, mi pare, davanti all’eterna complessità dell’uomo greco (e ovviamente anche della donna…), che spesso fa del contrasto (amore/dolore, spiritualità/sensualità, vita/morte, divino/umano…) la sua più alta forma di armonia.
La traduzione di Pontiggia è scabra, essenziale, e in qualche caso è come se invece delle bianche pagine cartacee avessimo in mano un consunto papiro. Tale essenzialità si manifesta, tra l’altro, nel consapevole uso limitatissimo dell’articolo italiano; ciò poiché nella lingua di Saffo esso non compare quasi mai, in quanto nel greco di quell’epoca l’articolo aveva ancora, per lo più, valenza pronominale.
Propongo ora qualche esempio di questo lavoro:
47: Eros colpisce mio cuore / come raffica di venti su querce montane.
102: Dolce madre, proprio non riesco a tessere questa tela / da desiderio d’un ragazzo vinta / per Aphrodite leggera.
168 B: Selene e Pleiades tramontate, / notte a mezzo, / tempo scorre. / Sono sola.
Ultima nota. L’edizione è impreziosita da una copertina con una splendida fotografia d’epoca in bianco e nero, che raffigura due nudità femminili nell’atto di una danza, evocativa della vita del tiaso; le due ragazze sono in bilico tra dinamismo e staticità, e sembrano separarsi pure tenendosi la mano. Certamente il fotografo (del quale non si menziona il nome) non era coevo di Saffo: eppure quell’idea tutt’altro che semplice di «leggerezza» e di armonia nel contrasto di cui abbiamo detto prima l’ha resa davvero benissimo.