Anche quest’anno, durante l’orale dell’Esame di Stato, tre studentesse di un liceo veneto si sono rifiutate di parlare. Quel loro gesto mi ha ricordato da vicino un mio alunno (che per semplicità chiameremo B), che lo scorso anno ha deciso di non svolgere il suo colloquio orale.
Cosa succede quando un alunno o alunna si rifiuta di svolgere l’orale dell’Esame di Stato?
A conti fatti nulla. Così come avvenuto con B lo scorso anno, anche quest’anno alle tre studentesse la commissione ha assegnato un punteggio minimo.
Dal punto di vista del docente, ci si trova di fronte a un evento così come descritto dal filosofo francese Deleuze[1]: un fatto che non solo sovverte un ordine predeterminato, ma che esprime un’azione di libertà che rompe la promessa performativa che è legata all’Esame di Stato stesso.
Vorrei dunque evidenziare una serie di contraddizioni che ritengo debbano richiamare noi docenti a un senso di responsabilità educativa maggiore.
Lo sfondo è quello evidenziato da Valentina D’Ascanio in La performatività: come cambia l’orizzonte della formazione[2]. Nel suo studio, la ricercatrice evidenzia come la scuola (e si badi bene, questo è un concetto estremamente scalabile) sia basata sulla performatività attraverso delle forme di controllo che hanno ormai superato la foucaultiana società basata sulla disciplina e la punizione. Infatti, attraverso la costante richiesta di espletare lavori e controllo dei risultati, la scuola esercita una forma di controllo su studenti e docenti. Quello che da un lato sembra essere un sistema che incoraggia l’autonomia, dall’altro vincola subdolamente tale autonomia ai risultati che possono attendersi.
Nel momento in cui B ha deciso di esporre nulla nel proprio orale ha rotto questa promessa performativa e con essa ha esposto l’esame stesso a una contingenza: la possibilità che l’esame[3] sia effettivamente autentico piuttosto che non lo sia.
La performatività
Per iniziare a definire i contorni di questo ragionamento, possiamo partire proprio dalla performatività. Se in effetti a prima vista la parola stessa possa dare l’impressione di qualcosa legato alla realizzazione di una prestazione (performance, appunto, in inglese), a un’analisi più profonda quello che emerge è che la performatività funziona come una promessa: la performatività è una promessa che viene mantenuta[4].
L’introduzione del concetto di performatività si deve alle ricerche in campo linguistico svolte da John Austin e riassunte nel libro How to do things with words[5]. Nel suo libro Austin evidenzia come esistano alcune espressioni di uso comune, ad esempio «vi dichiaro marito e moglie», che effettivamente producono effetti nella vita reale[6]. Austin cioè si accorge che esistono alcune espressioni, collegate con dei rituali, che, pronunciate nel corretto contesto, hanno la forza di far accadere determinate cose nella realtà. Nel caso dell’affermazione di prima, se tali parole sono dette da un ministrante ufficiale e in un luogo consono, la coppia risulterà effettivamente sposata.
Nel contesto scolastico, due sono le coordinate principali: la prima è che la performatività, assimilata in quanto promessa, esercita forme di controllo nei confronti di studenti e docenti. La seconda è che la performatività implichi un aspetto di pre-determinazione che può sfociare in forme di obbedienza e coercizione.
La scuola performativa
Se quindi la performatività funziona come una promessa, dove possiamo trovarla nella scuola? Ebbene, in generale possiamo coglierla a partire dal patto di corresponsabilità, nelle griglie di valutazione come quelle predisposte dal MIM per la valutazione degli alunni durante gli orali dell’Esame di Stato[7] e in generale nei vari appuntamenti valutativi. Alla luce del fatto che tanto B quanto le tre studentesse venete, facendo scena muta, hanno preso una valutazione minima all’orale, non sarà giusto dover considerare l’Esame di Stato come la promessa che gli alunni si presenteranno davanti alla commissione preparati?
E arriviamo a B, uno studente di V liceo scientifico che, durante il suo orale, è entrato in classe dichiarando di non voler sostenere la prova.
Due dati introduttivi prima di presentare l’esempio in dettaglio: uno, B si presentava all’esame con la media del 9; due, B entrava all’orale con un punteggio tra crediti e prove scritte di 72. In altre parole, se da un lato il suo esame era già superato, dall’altro, potremmo certamente ipotizzare che B sarebbe potuto uscire dall’orale con un punteggio finale che rispecchiasse la sua media.
In effetti, il giorno dell’orale B ha dichiarato che, pur essendo preparato per affrontare la discussione, non intendeva sostenere l’orale. Alle nostre domande di chiarimento circa quella scelta e dopo molte nostre insistenze, B ha ceduto e raccontato il suo punto di vista.
B motivava la sua scelta ritenendo che l’esame fosse una farsa, e riferendo della sua esperienza di studente in un liceo romano. A dispetto dei voti, la sua non era stata un’esperienza positiva. La scuola, a suo dire, lo aveva spesso fatto sentire schiacciato, non valorizzato e in generale non ascoltato. In altre parole non aveva trovato, nella scuola, quel luogo dove potersi esprimere e dove poter far emergere chi fosse. Al contrario, dalla sua descrizione emergeva un sistema di valutazione che spesso mirava a premiare la performance individuale, favorendo la singola espressione di conoscenze attraverso un valore quantitativo più che qualitativo[8].
Seguendo quanto previsto dalle griglie di valutazione approntate dal MIM, come commissione[9] abbiamo deciso di conferire allo studente un punteggio di 4/20. I punti, seppur minimi, sono stati attribuiti per il contributo che lo studente ha mostrato in termini di Educazione Civica. Per il resto, a maggioranza, ci siamo attenuti ai descrittori previsti dalla griglia di valutazione[10].
Uno studente che arriva con la media del 9, e che ha quindi dimostrato ampiamente di possedere una serie di contenuti disciplinari – per i quali è stato valutato durante l’anno –, nel momento in cui decide di non sottoporsi al colloquio orale è come se non li possedesse. La commissione ha recepito quel suo rifiuto di sostenere l’orale come un uscire fuori, un errare appunto, e che ha comportato una valutazione minima.
Letto in quanto atto performativo, dicevamo, l’Esame di Stato assume i tratti di una promessa che deve essere mantenuta; questa promessa implicitamente recita che gli studenti si presentino più o meno preparati e che affrontino l’esame orale esponendo le loro conoscenze e la loro comprensione degli argomenti svolti durante l’anno e per le discipline presenti all’interno della commissione. Se guardiamo le altre e gli altri studenti che hanno, invece, sostenuto l’orale della maturità, tra i quali troveremo compagne e compagni di B che hanno avuto, durante l’anno, un percorso didattico più incerto del suo, vedremo che, preparandosi ad hoc per quella singola performance, hanno, però, ricevuto una premialità in forma di valutazione quantitativamente più alta di B.
Con questo non intendo avvalorare l’idea che lo studente o studentessa, che magari ha lavorato con meno costanza durante l’anno e si presenta preparato all’orale di maturità, vada penalizzato.
Al contrario, occorre considerare l’originaria promessa performativa implicita nell’Esame di Stato – scommetto che ogni studente e studentessa si presenterà preparato – non come un concetto statico, bensì dinamico. Tale promessa viene attivata dalle scelte, anche frutto di auto-valutazione, che gli studenti e studentesse faranno di volta in volta rispetto alle richieste didattiche.
In tal senso, seguendo quanto sostiene Jacque Derrida sulla performatività, è possibile considerare i momenti valutativi della scuola come una continua citazione[11] di quella originaria promessa performativa, che è esplicitata in documenti quali il patto di corresponsablità o anche le griglie di valutazione.
Ed è in questa logica che ogni studente pare acquisire responsabilità circa gli esiti delle proprie azioni, presenti e future[12].
Performatività, volontà e coercizione
Il punto appena enunciato non può essere sorvolato così brevemente. Al contrario, porta a una serie di considerazioni che, grazie ad Agamben che rilegge un dialogo tra Platone e Aristotele, chiamano in causa il tema del gesto, della colpa e della volontà[13].
Secondo quanto riporta Agamben, Aristotele arriva a concepire il passaggio tra la potenza e l’atto, cioè tra il pensiero e l’azione, come una tensione tra due desideri opposti tra loro. Come scrive Aristotele stesso «quello che dei due contrari desidera in modo dominante, quello farà»[14]. Intuitivamente, quanto asserito da Aristotele può essere applicato alla dinamica dello studio per arrivare preparati o meno a un Esame di Stato o a una qualunque verifica periodica degli apprendimenti.
A questo punto, però, è interessante notare l’appunto che Platone fornisce ad Aristotele a riguardo della volontà quale criterio che muove le decisioni umane.
Platone, infatti, obietta ad Aristotele che se la volontà è il solo criterio con il quale determinate azioni prendono corpo nella realtà fisica, allora «si dovrà definire buono l’arciere che manca volontariamente il bersaglio […]»[15]. E questa obiezione di Platone ci conduce inevitabilmente nel paradosso deterministico che caratterizza la performatività e che viene rotto dal rifiuto di sostenere l’orale.
Infatti, se questioniamo il solo aspetto della volontà, ci troviamo di fronte a due prospettive che inevitabilmente convergono in una: l’obbedienza e il controllo esercitati dalla promessa performativa.
Da un lato, avremo la volontà come condizione sufficiente e premiante che, mantenendo la promessa performativa, attiva inconsapevolmente una forma di controllo: nel bene o nel male, alla fine attraverso l’Esame si è riusciti a far studiare gli studenti. Dall’altro, la performatività è una forma di controllo che ha in sé un aspetto deterministico e di coercizione: si studia perché ci sono forze esterne che agiscono e influiscono sulla libertà di scelta e che, ingenerando una serie di emozioni (ad es. paura di un brutto voto; desiderio di affermarsi ecc), fanno sì che gli studenti si facciano trovare più o meno preparati[16].
Rompere la performatività: volere senza volontà come B
Il rifiuto di B, al contrario, è un indice della sua libertà[17]. Ha introdotto nel cosmo scuola un principio di indeterminazione, che Deleuze definisce evento: qualcosa di inimmaginabile che crea un cortocircuito nelle regole di uniformità adottate con gli altri orali di maturità.
Come facciamo a dire che quanto visto sia effettivamente l’evento di cui parla Deleuze?
La risposta la troviamo inserendo il rifiuto di B di non sostenere l’orale con l’analisi che Deleuze prima e Agamben poi hanno fatto del melvilliano Bartleby e del suo “I would prefer not to”[18].
Infatti, la citazionalità e iterabilità[19] dell’Esame di Stato quale promessa performativa deve essere colta come un copione ripetuto all’infinito, una sorta di eterno ritorno nietzscheano! In questa logica di Esame di Stato quale eterno ritorno, la scelta di non sostenere l’orale apre l’esame stesso a una contingenza: la possibilità che l’esame orale rappresenti allo stesso tempo qualcosa di autentico piuttosto che il suo contrario. Un po’ come il Bartleby di Melville che decide di smettere di copiare, formulando la famosa espressione “preferirei di no (I would prefer not to),” anche questo studente cessa di copiare.
B vuole senza volere e questo lo rende una persona che non ha referenze. Noi della commissione siamo rimasti spiazzati; ci ha lasciati senza argomenti. Come l’uomo di legge nel racconto di Melville, anche noi abbiamo dovuto insistere moltissimo affinché B ci raccontasse qualcosa che per noi avesse senso. Ma il senso della sua azione era già chiarissimo; B voleva senza volere! Avanzava indietreggiando! E così facendo ci consegnava qualcosa di preziosissimo, che solo dopo quell’evento ho compreso.
Conclusione: inclusioni
B cessa di avere referenze perché nel suo rifiuto di copiare era contenuto il suo io, la sua soggettività, che proprio attraverso quel rifiuto si rendeva precaria e fragile. Di fronte a quella sua cessione, che interrompeva l’infinita ripetizione di quel copione che è l’Esame di Stato, noi, in quanto adulti e docenti, non abbiamo colto questo aspetto di precarietà. Al contrario, abbiamo vissuto quella cessione come un vuoto che andasse riempito attraverso una somma di io – i nostri io, fatti di domande incessanti, richieste di chiarimento e di valutazioni.
B, invece, nel cedere il suo io ci insegnava una lezione importante, che come docente non posso che abbracciare e rilanciare: se la scuola è concepita come una comunità, ebbene la collettività al suo interno non si costruisce attraverso una somma ma per sottrazione; è un venir meno di io, a partire da quelli del corpo docente[20]. Chissà se B, consegnandoci il suo, fosse fiducioso che l’avremmo accolto, o se forse sapeva già che non sarebbe stato così. Forse non gli importava, ma noi comunque lo abbiamo tradito[21].
Sono cresciuto con la vista dell’acrostico s.c.u.o.l.a. (società che uccide ogni libero alunno) che campeggiava sul muro di un istituto secondario vicino casa. Credo che mai come nel momento in cui sto scrivendo questo articolo, l’intuizione di quell’anonimo studente fosse azzeccata. A trent’anni di distanza non posso far altro che costatare questo, nella fiducia che questo articolo possa sensibilizzare noi docenti, in quanto adulti, sui meccanismi della scuola e le responsabilità educative connesse.
Bibliografia
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Note
[1] Si veda G. Deleuze La piega: Leibniz e Il Barocco, trad. it. D. Tarizzo, G. Einaudi, Torino 2004.
[2] V. D’Ascanio, La performatività: come cambia l’orizzonte della formazione, in «RIVISTA SCUOLA IAD. MODELLI, POLITICHE R&T», 2012.
[3] È importante includere in questo ragionamento anche l’esame conclusivo del primo ciclo di istruzione.
[4] Per comprendere più semplicemente il concetto di performatività di Austin basti pensare alla maniglia di una porta. La comunicazione che proviene da essa è quella di oggetto atto ad aprire una porta. In termini performativi la maniglia promette all’utente che impugnandola e roteandola questa attivi una serie di meccanismi che ne consentano l’apertura. Quello che interessa all’utente sarà il suo aprirsi o meno, cioè che la promessa di un’apertura si verifichi. In termini di intenzione può dirsi lo stesso, la maniglia è un’oggetto pensato per essere aperto; l’intenzione del suo progettista si fonde con l’oggetto stesso all’interno della promessa performativa, stabile e coerente, che l’oggetto comunica. Si veda J.J. Gibson, The Ecological Approach to Visual Perception, Psychology Press, New York 2014.
[5] J. L. Austin, How to Do Things with Words, Oxford University Press, New York 1988.
[6] Austin li definisce “atti linguistici”. Il termine performatività è introdotto da Derrida in J. Derrida, Limited Inc., Northwestern University Press, Evanston, 1988.
[7] Il percorso normativo del patto di corresponsabilità inizia già con il DPR 416/74. Il riferimento normativo più recente è il DPR n. 235 del 21 novembre 2007-art. 5-bis, che rinnova sia il Patto di Corresponsabilità Educativa sia lo Statuto delle studentesse e degli studenti. Si veda: https: https://tinyurl.com/yzj2mfm7
[8] Si veda a proposito la nota MIUR del 09/01/2018 che accompagnava il D.Lgs 64/18 (sulla valutazione).
[9] Per chi non fosse avvezzo alle dinamiche dell’Esame di Stato della secondaria di secondo grado, la commissione è composta da sei membri, tre interni (di cui uno ero io) e tre esterni, più il presidente di commissione.
[10] La prima voce, ad esempio, valuta il possesso delle conoscenze.
[11] Derrida utilizza il termine iterazione proprio a volerne sottolineare il carattere ripetitivo e citazionale.
[12] Derrida introduce il concetto di futuro anteriore (futur antérieur) intendendo con ciò un tipo di atto linguistico che agisce tanto sul presente che sul futuro di chi lo pronuncia. Un’esempio chiaro che fornisce Derrida è quello dell’espressione “ti amo”: la persona che sente dirsi ti amo non ha la certezza che le parole pronunciate siano effettivamente intenzionali. Il supporto felice o meno al dire ti amo è offerto solamente dall’agire conseguente a quel pronunciamento. Si veda J.H. Miller, Performativity as Performance/Performativity as Speech Act: Derrida’s Special Theory of Performativity, in «South Atlantic Quarterly», 2007.
[13] G. Agamben, Karman: breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, Temi (Bollati Boringhieri), Bollati Boringhieri, Torino 2017.
[14] ibid. p. 77
[15] ibid. p. 78-79.
[16] Per una disanima della performatvità in chiave di coercizione si veda il lavoro svolto dalla filosofa Judith Butler. In particolare si veda J. Butler, A. Athanasiou. Dispossession: The Performative in the Political, John Wiley & Sons, New Jersey 2013.
[17] Deleuze sviluppa il concetto di evento proprio a partire da una ricerca sulla predeterminazione della vita umana e sulle possibilità di libertà. Si legga la prefazione a cura di Davide Tarizzo de La piega. Leibniz e Il Barocco.
[18] Si veda G. Deleuze, e G. Agamben, Bartleby. La dormula Della creazione, Quodlibet, Macerata 2012.
[19] Il riferimento qui è all’idea di performatività di Derrida contenuta in J. Derrida, Limited Inc., Northwestern University Press, Evanston 1988.
[20] Anche e soprattutto attraverso un costante processo di auto-valutazione. Si veda in particolare quanto contenuto nella Nota MIUR del 09/01/2018 che accompagnava il D.Lgs 64/18 (sulla valutazione).
[21] Si veda a proposito la “teoria del quasi-oggetto” elaborata da Michel Serres e contenuta in M. Serres, The Parasite, trad. eng L. R. Schehr, Johns Hopkins University Press, Londra, 1982.