Romolo ha appena fondato Roma sul Palatino, e lo ha fatto dopo avere commesso un fratricidio. Fratricidio forse necessario a salvaguardare il suo neonato potere (Machiavelli lo “assolse” nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, 9), ma pur sempre atto scabroso con cui un popolo intero dovrà convivere: lo dimostrano le angosce postume di Orazio (Epodi, 7). Per il fondatore è il momento – e Tito Livio lo racconta nel dettaglio – di istituire forme primitive di diritto (leges et iura), di consolidare l’aspetto esteriore e cerimoniale del suo potere (imperium), di pensare di affiancarsi nel governo un consiglio di anziani (senatores).
Ma Romolo ci appare anche come un re lungimirante, e sembra che il suo “pallino” sia quello di dare alla neonata Roma una certa solidità demografica: da questa sarebbero derivati sicurezza militare, autosufficienza economica, ma anche stimolo espansionistico. Sappiamo pertanto (Livio, Ab Urbe Condita, 1, 9) che procurò “con le cattive maniere” le mogli ai suoi, rapendo le donne Sabine e fondendo – de facto e de iure – due popoli, ma sappiamo anche di che “pasta” fossero i suoi uomini: in parte giovani membri della sua gang, con la quale scorazzava da ragazzo per il Lazio dopo essere stato svezzato dalla Lupa e allevato da pastori, in parte gente forestiera aggregatasi al nucleo originario dei fondatori. Ed è su questo punto che è particolarmente utile leggere, ancora una volta, il testo liviano (Ab Urbe condita, 1, 8, 4-6), qui proposto nella traduzione di Luciano Perelli:
Frattanto l’Urbe si ampliava, incorporando entro la cerchia delle mura sempre nuovi territori, poiché le mura venivano costruite in vista della popolazione futura, più che in rapporto a quella che v’era allora. In seguito, perché non fosse inutile tale ampiezza dell’Urbe, allo scopo di accrescere la popolazione secondo l’antico accorgimento dei fondatori di città, i quali attiravano a sé gente oscura e umile facendola passare per autoctona, offrì come asilo il luogo che ora, a chi vi sale [verso il Campidoglio], appare circondato da una siepe tra due boschi. Ivi si rifugiò dai popoli vicini, avida di novità, una folla di gente d’ogni sorta, senza distinzione alcuna tra liberi e servi, e quello fu il primo nerbo dell’incipiente grandezza.
Il termine asylum è un po’ la chiave interpretativa di questa situazione: si tratta di una traslitterazione dell’aggettivo greco ásylos,-on, che significa “inviolabile”: indica pertanto un luogo in cui un supplice poteva rifugiarsi senza alcun timore di essere allontanato a forza. La sacralità del luogo (identificabile più o meno con l’attuale Piazza del Campidoglio) è evocata dal contesto naturale e dall’ubicazione alle falde del Campidoglio, il sancta sanctorum della Roma storica poiché sarà sede del tempio di Giove Capitolino; ma la sua funzione è prettamente civile, poiché qui possono radunarsi gli “aspiranti Romani” dei villaggi vicini, e tra loro liberi, schiavi, e magari qualcuno che si era macchiato di qualche delitto e voleva “cambiare aria” e cambiare vita. Insomma, fin dalla sua origine Roma si propose come comunità aperta, pronta a recepire il contributo di uomini di diverse origini, condizioni giuridiche e sociali, e perfino morali. Intendiamoci, Livio è uno dei portavoce dell’ideologia augustea e mai si sarebbe sognato di suggerire l’idea antenati profughi, “straccioni” e raccogliticci senza un motivo ben preciso; tra l’altro dopo avere raccontato il fratricidio compiuto dall’eroe fondatore (di cui già si è detto), e perfino dopo avere supposto che la Lupa romulea fosse una prostituta. E allora, perché tutto questo?
Perché dominio e integrazione, come ci spiega anche una bella mostra visitabile a Roma di questi tempi e curata da Andrea Giardina e Fabrizio Pesando (Roma caput mundi. Una città tra dominio e integrazione, Roma, Colosseo-Foro Romano, fino al 10 marzo 2013. Catalogo Electa. Info: www.coopculture.it), sono la miscela mediante la quale il modesto villaggio di pastori sul Palatino è diventato, appunto, caput mundi: un caput ai tempi di Livio governato da quell’Ottaviano Augusto che – in quanto figlio adottivo del Divo Cesare – era lontano discendente di Venere, Enea, Iulo-Ascanio e Romolo. Un re (Romolo) e poi un popolo (quello Romano) e poi un princeps (Augusto) sicuri del loro potere, dello Stato che incarnano, delle leggi che ne regolano la vita, non possono che auspicare che a quel potere, a quello Stato, a quelle leggi si affidino anche singoli uomini o interi popoli di culture, tradizioni, lingue, religioni diverse. Attenzione, però, non siamo davanti a un melting pot confuso e indiscriminato, e neppure a un’accoglienza pietistica nel seno della grande Roma (come suggerirebbe il parcere subiectis et debellare superbos di virgiliana memoria), ma a una sorta di “patto”, i cui perni sono l’accettazione del diritto di Roma e della lingua latina; un patto che – a seconda del potere contrattuale dei contraenti – ha assunto sfumature anche molto diverse, più o meno vantaggiose per coloro che volessero aggregarsi al corpo civico.
L’asylum romuleo è chiaramente pensabile solo in un “tempo senza tempo” come quello del mito; ma il mito è – secondo la formidabile definizione di Marcel Detienne – la “scatola nera dell’umanità”, ed assume pertanto funzione archetipale. Certamente i Sabini, gli Etruschi, i Volsci, i Sanniti, e poi i Greci, i Celti etc… non migrarono spontaneamente verso l’Urbe e furono invece sconfitti dalle spietate legioni Romane; furono però – nei secoli – progressivamente assorbiti e integrati, anche se la cittadinanza optimo iure (cioè quella con tutti i diritti) venne dispensata col contagocce e toccò all’Italia centro-meridionale nell’89 a.C. (dopo il Bellum Sociale), alla Cisalpina una quarantina d’anni dopo, e al resto dell’impero solo con l’editto di Caracalla (212 d.C.). Il tutto in un processo di osmosi tramite il quale i popoli vinti si “romanizzarono” (su questo argomento intendo proporre a breve un nuovo contributo), ma tramite il quale – nel contempo – Roma si aprì alla religione etrusca (e poi a quella celtica, greca, egiziana, etc…), alla filosofia e alla letteratura greca, alle mode e culture orientali, al confronto con tecniche e saperi provenienti da ogni parte dell’ecumene. Parziali eccezioni furono la grande distanza sentita dal mondo latino verso i Cartaginesi (troppo sangue era stato versato tra i due popoli…) e verso gli Ebrei, dei quali i “laici” Romani non capivano il fervore religioso e il ruolo eccessivo dato ai sacerdoti nella vita pubblica: tutto ciò per loro era fanatismo e superstizione.
Forte del suo Stato e della sua lingua (come pure del suo esercito e della sua richiestissima moneta) il caput mundi non si vergognava – nonostante alcune, ovvie, resistenze culturali – di adattare così i suoi plurisecolari mores ai tempi ed alle circostanze, di farsi governare da imperatori iberici o africani, e – sul finire della sua storia – perfino di relegare se stessa (intendo dire l’Urbe) al ruolo di “vecchia gloria” a discapito di nuove e fiorenti capitali e accettare – ai tempi di Costantino – il monoteismo cristiano.
Penso che la lezione di Roma possa essere proposta ai nostri studenti come interessante modello di Stato muti-etnico e multi-culturale: ciò con tutte le cautele e distinzioni possibili di quando si paragona (sempre con qualche forzatura) l’antico con il moderno. Ma un’identità “nostra” forte (fatta soprattutto di leggi e lingua, lo ripeto ancora), non potrebbe essere anche oggi il punto di partenza per un assorbimento progressivo e ragionato dei flussi migratori da parte di Stati come l’Italia? Ci possono spaventare i kebab, le moschee, le chiassose comunità sudamericane o i sovraffollati quartieri cinesi, se chi li frequenta o vi appartiene conosce e rispetta leggi condivise e parla la nostra lingua perché l’ha appresa a scuola? Direi di no. Ci deve invece spaventare chi – italiano o straniero – non conosce e non rispetta le leggi che dovrebbe condividere; o chi irride la nostra lingua unitaria, proponendo – da seggi istituzionali – ridicoli cartelli toponomastici e cerimonie farsesche in dialetto; o chi sottrae i figli alla scuola per lasciare che si disperdano (in tutti i sensi) sui marciapiedi di qualche banlieu controllata dalla malavita.
Uno Stato (serbatoio di “buone” leggi) e una scuola (serbatoio di “buona” lingua e “buona” cultura) funzionanti ed efficienti consentirebbero dunque di trasformare l’asylum che ora diamo ai moderni migranti in una loro reale “conversione” in Italiani; e così la cittadinanza che l’Italia concederà loro non sarà solo una strumento di tutela giuridica, ma l’esito di un vero processo di integrazione. Lo Stato smorzerà inoltre, laddove necessario, i fanatismi d’ogni genere, combatterà le usanze che contrastano con le norme del vivere civile e sociale (lo so, non sempre è facile, ma uno Stato deve avere la forza di farlo), ma accetterà il contributo degli ex stranieri in ogni ambito, e non solo in quello… sportivo!
Per finire. Sogno un Paese dove il giovane Mohamed cresca con il “mito” di Garibaldi e Mazzini (quello che i nostri giovani non hanno più, purtroppo…), così come i legionari celtici, iberici, od orientali combattevano per Roma emulando “miti” latini (ma soprattutto Romani) quali Scipione Africano o Quinzio Flaminino. E dove il giovane Francesco andrà a mangiare il cus cus fatto dalla mamma di Mohamed, dopo avere studiato insieme con lui la consecutio temporum… E se in Italia aumenteranno ancora i “kebab” (che peraltro molti Italiani adorano, così come Francesco e Mohamed), non sarà un dramma: noi non abbiamo forse riempito il mondo di pizzerie? L’importante sarà che i loro gestori – al pari dei negozianti nostrani… – non infrangano la legge, paghino le tasse e sappiano parlare italiano.