Ripensare la tradizione #3. I miti della modernità

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Ci sono nella storia della letteratura personaggi che, per qualche misterioso gioco del destino, hanno avuto innumerevoli riletture, riscritture e amplificazioni, e altri che, pur essendo meravigliosamente sviluppati e imprimendosi in maniera indelebile nella memoria di chi legge, sembrano “bloccati” nell’opera che li ha visti nascere. Proviamo a osservare più da vicino tre esempi.

 

Orlando muore intorno alla metà della chanson che l’ha reso famoso, ma questo non gli ha impedito di avere una lunghissima vita successiva, con avventure, amori, viaggi e follie in decine e decine di poemi. A P.D. James, nota giallista inglese, è venuto in mente di raccontare la maturità di Elizabeth Bennet, ma senza grande successo, in Morte a Pemberley: l’eroina di Orgoglio e pregiudizio termina in realtà la sua vita letteraria a ventun anni, nel momento in cui sposa mister Darcy.

Tutti i miti (al contrario delle vicende che restano “romanzesche” e non chiamano in causa situazioni archetipiche) sono aperti a infinite reinterpretazioni, e lo sappiamo bene: è accaduto e continua ad accadere, nella nostra tradizione occidentale, con le grandi figure dell’Antico Testamento, con i cicli mitologici greci, e naturalmente con i miti nati in età medievale e moderna, come Tristano e Isotta, Don Chisciotte, don Giovanni, Carmen (di cui parlavo in un intervento qualche settimana fa), Faust e così via. Ma cos’è che permette a un personaggio di diventare un mito? Quali sono le caratteristiche che gli garantiscono vitalità culturale in epoche lontane e in contesti culturali diversi? Proviamo a osservare più da vicino tre esempi.

Il patto col diavolo

Il personaggio letterario di Faust, come spiegano tutte le enciclopedie, nasce grazie alla penna di un mediocre pamphlettista tedesco, Johann Spies. Nel 1587 costui pubblica la Storia del dottor Faust, ben noto mago e negromante, ispirata a un ciarlatano, vissuto tra il 1480 e il 1540 nel Württemberg, che millantava di saper evocare gli spiriti e operare magie. Attorno a questo personaggio circolavano voci di un patto segreto con le forze infernali, che inevitabilmente facevano presa sulla fantasia popolare. Spies ha buon gioco nel raccontare il destino di dannazione eterna a cui il suo malvagio protagonista appare inevitabilmente condannato, dando spazio a episodi fantasiosi e grotteschi, che garantiscono il successo della sua opera, prima in Germania e poi all’estero.

Pochi anni dopo, nel 1601, il grande drammaturgo inglese Christopher Marlowe pubblica La tragica storia del Dottor Faust. Il personaggio di Marlowe conserva alcune caratteristiche del Faust “popolare” di Spies, che stringe un patto col diavolo per avere Mefistofele al suo servizio e danna la sua anima per uno sregolato desiderio di ricchezze, di potere, di piaceri sensuali. Marlowe è ancora legato a un immaginario medievale, con angeli e diavoli che si contendono l’anima del peccatore, sfilate allegoriche di vizi e virtù, scene buffonesche in cui Faust prende volgarmente in giro il papa e si esibisce compiendo magie davanti all’imperatore. Ma introduce due elementi nuovi, di importanza decisiva: il primo, che Faust non è solo un geniale ciarlatano, ma una figura iperbolica, eccessiva, larger than life, come si dice in inglese, intollerante di regole e limitazioni, e quindi è dotato, anche nel male, di una fascinosa grandezza; il secondo, che Faust è un uomo sensuale, ma non volgare (come invece il personaggio di Spies), e lo dimostra la sua reazione di fronte alla bellezza: quando sente che la fine si avvicina chiede a Mefistofele di poter vedere Elena di Troia, di fronte alla quale pronuncia, rapito, i versi più famosi dell’opera: “È questo il volto per cui salparono mille navi / e bruciarono le altissime torri di Ilio? / Dolce Elena, rendimi immortale con un bacio…”

La vicenda di Faust, naturalmente, è oggi legata soprattutto al nome di Goethe, che vi si impegnò per tutta la vita: dal 1774, all’epoca della sua adesione allo Sturm und Drang, fino alla morte. In Goethe la sete di conoscenza diventa la principale ragione che spinge Faust a stipulare un patto con Mefistofele: Faust infatti è un intellettuale, uno studioso, che vuole arrivare a scoprire il principio primo delle cose, cioè a comprendere l’universo come potrebbe comprenderlo Dio stesso; e per raggiungere questo fine, dopo aver passato la vita a studiare invano, tenta la strada della magia e dell’occultismo, accettando il rischio di essere travolto dal Male pur di progredire nella sua ricerca oltre i limiti normalmente concessi agli uomini. Lo streben (questo il verbo con cui Goethe indica la tremenda tensione intellettuale ed emotiva del suo eroe) fa di questo Faust un emblema della modernità borghese, della sua aspirazione a una espansione infinita, alla conquista di sempre nuovi campi, allo svelamento di sempre nuovi enigmi e misteri. Aspirazione diabolica, Goethe lo intuisce perfettamente, ma non priva di una sua nobiltà: e infatti ad essa Faust sacrifica ogni più sacro valore e ogni più puro sentimento, ma alla fine del poema la sua anima viene salvata. “Chi sempre faticò a cercare, noi possiamo redimerlo”, dicono gli angeli nel momento in cui il protagonista muore, riconoscendo la lodevolezza della sua esigenza spirituale (che è in ultima analisi quella dell’Ulisse dantesco: “Fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”).

Lo scienziato pazzo

Si capisce bene perché Faust abbia continuato, dopo Marlowe e Goethe, ad affascinare gli scrittori, fino a Thomas Mann (Doktor Faustus,1943-1947) e a Michail Bulgakov (Il maestro e Margherita,1928-1940), nonché i musicisti e gli artisti figurativi, e soprattutto i registi cinematografici (da Friedrich Murnau a René Clair ad Alec Baldwin, che ha firmato Il patto con il diavolo nel 2003). L’idea di una vita scandita da esperienze sempre più estreme, alla ricerca dell’attimo perfettamente bello in cui il tempo potrebbe fermarsi, e l’idea di un accrescimento infinito delle conoscenze, slegato da qualunque considerazione di tipo etico – sono alla base della mentalità che ha dominato l’Occidente dal momento in cui, tra XVII e XVIII secolo, si è affermata la concezione moderna di progresso.

Come in tutti i grandi miti, accanto alle versioni artisticamente più pregevoli, la messe di problemi legati alla figura di Faust ha trovato un’ampia eco nella cultura popolare. Frankenstein di Mary Shelley (1818) non è certo un capolavoro paragonabile al Faust di Goethe, ma che vi sia una parentela tra i due protagonisti è indiscutibile. Il dottor Frankenstein è un piccolo Faust che gioca a essere Dio (un “apprendista stregone”, se vogliamo restare nell’ambito delle metafore goethiane). Come è noto, il risultato dei suoi sforzi non è la creatura ideale da lui sognata, ma un mostro condannato all’infelicità (e quindi, con un automatismo psicologico non proprio raffinatissimo, alla malvagità). E siccome il medico (più di ogni altro scienziato) diventa nel corso dell’Ottocento una figura emblematica della modernità, ecco la numerosissima schiera dei nipotini di Frankenstein, dal dottor Jekyll di Stevenson al dottor Moreau di Wells agli scienziati pazzi di P.K. Dick e di altri autori di fantascienza, ai film e ai fumetti sempre più corrivi che tentano con vario successo di variare lo stereotipo.

Si capisce bene anche perché Faust si affermi come figura archetipica all’epoca in cui si afferma la visione del mondo borghese ancora dominante nel nostro tempo, e in particolare l’idea di un progresso (scientifico e tecnologico, oltre che economico e sociale) potenzialmente infinito.

Il naufrago

Facciamo un passo indietro. Nel 1719 un giornalista inglese quasi sessantenne, Daniel Defoe, decide di tentare la strada del romanzo e scrive La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di York, marinaio – dando vita a un’altra figura destinata a immensa fortuna.

Unico superstite del naufragio della sua nave, Robinson ha a disposizione pochi strumenti essenziali, ma è animato da una fanatica fede in sé stesso (solo nel corso del romanzo sviluppa anche la fede in Dio) e da una straordinaria intelligenza pratica, e grazie a ciò riesce a trasformare la “sua” isola in un piccolo paradiso, praticando la caccia, la raccolta, l’agricoltura, l’allevamento e l’artigianato, insomma a riportare la wilderness (la natura selvaggia) sotto il dominio della civiltà – che per lui coincide ovviamente con la civiltà europea del suo tempo, i suoi principi etici, le sue leggi, la sua tecnologia (non escluse le armi da fuoco…).

Il romanzo di Defoe, in verità, non si basa tanto sulla notizia di cronaca riportata dalle enciclopedie (la storia dello scozzese Alexander Selkirk, che visse per quattro anni su un’isola dell’Oceano Pacifico), quanto su due filoni letterari e filosofici, quello del “buon selvaggio” (che entra in gioco nel momento in cui Robinson incontra il mite e ubbidiente Venerdì e lo salva dai cannibali, cioè dai selvaggi “cattivi”) e quello dell’“utopia” (la comunità ideale, perfettamente organizzata, di cui Robinson diventerà il governatore, accogliendo altri naufraghi e coloni). È inevitabile intravedere in questa vicenda i tratti fondamentali dell’utilitarismo filosofico da un lato e del colonialismo dall’altro (la sottomissione spietata, per quanto ben intenzionata, della natura e degli indigeni, ottenuta grazie alla superiore tecnologia europea). Due riscritture recenti giocano la loro originalità proprio sull’incontro fra Robinson e Venerdì: ne La parete (1963) della scrittrice austriaca Marlen Haushofer, la protagonista si trova isolata dal resto del mondo, in alta montagna, da una misteriosa parete trasparente, e riesce a organizzare la propria sopravvivenza finché non incontra un uomo (che è costretta a uccidere); in Foe (1986) del premio Nobel sudafricano J.M. Coetzee, la protagonista, abbandonata su una zattera dopo un ammutinamento, giunge su un’isola dove trova un naufrago, Cruso, e un indigeno senza lingua, Venerdì (il fatto che Venerdì sia privo della lingua, e quindi incapace di parlare, assume un valore simbolico molto forte – il colonialismo ha privato le popolazioni sottomesse della possibilità di esprimersi e di raccontare la propria storia).

Robinson ha ispirato un vero e proprio genere letterario, quello che gli inglesi chiamano “robinsonade”: il racconto di uno o più naufraghi su un’isola deserta. Rientrano in questo genere decine di opere, tra cui ricordiamo Il Robinson svizzero di J.R. Wyss (1812), L’isola misteriosa di J. Verne (1874), La laguna azzurra (1908) di Henry De Vere Stacpoole, numerosi racconti e romanzi di fantascienza (in cui l’isola è in genere sostituita da un pianeta sconosciuto e i “selvaggi” sono creature aliene). Ma Robinson ha ispirato anche testi di spessore ben diverso, dall’Emilio di J.-J. Rousseau (per l’educazione del bambino equiparato a un buon selvaggio) a Walden di H.D. Thoreau (per l’ideale della self-reliance, la capacità di contare su sé stessi, rifiutando tutti i condizionamenti sociali).

Di particolare interesse il rovesciamento del mito operato dal romanzo Il signore delle mosche (1954) del premio Nobel William Golding, in cui un gruppo di ragazzini inglesi su un’isola deserta si trasforma in una tribù di feroci selvaggi; dal film Cast Away (2000) di Robert Zemeckis, in cui il protagonista, quando finalmente torna alla civiltà, si scopre escluso da un mondo che ha continuato a vivere mentre lui sopravviveva nel più completo isolamento; e da un altro film, Into the Wild (2007) di Sean Penn, che narra la vicenda di un giovane idealista che, sulla scorta proprio di Walden, tenta di sopravvivere a contatto con la natura selvaggia, fuggendo la civiltà, e soccombe miseramente. L’ottimismo di Robinson, portavoce della civiltà borghese nel suo momento espansivo, lascia spazio in queste opere a un realismo amaro, indizio di una diversa consapevolezza del rapporto tra natura e cultura, wilderness e società.

Conclusioni provvisorie

Gli esempi potrebbero continuare. Ma cosa ricaviamo da queste informazioni – perché dovremmo addentrarci in questi che a molti sembreranno percorsi eruditi, specialistici? Rispondo proponendovi due riflessioni, ricavate dalla mia esperienza personale di lettore, che le storie qui sintetizzate mi sembrano confermare.

La prima riflessione è che nessun mito, ma in generale nessun personaggio letterario e nessuna vicenda romanzesca, si possono ridurre alla lettera del testo, a una mera successione di parole. Il testo infatti, per “funzionare” in quanto narrazione, ha bisogno della cooperazione di chi legge, e questo significa mettere in gioco la propria fantasia, la propria esperienza del mondo, in una parola la propria umanità. Nella nostra mente, il personaggio e la sua vicenda acquistano una vita che va al di là delle parole usate dallo scrittore: pur essendo privo di concretezza fisica, il personaggio vive nella realtà interiore di chi legge – ed è per questo che può arricchirsi nel tempo, vivere nuove avventure, assumere significati impensati da colui o colei che l’ha inventato. Faust, Frankenstein e Robinson hanno avuto la ventura di interpretare temi e problemi decisivi dell’età moderna e contemporanea, diventando miti universali a dispetto degli evidenti limiti artistici di J. Spies, di D. Defoe e di M. Shelley che li hanno creati, perché le loro vicende offrivano una ricchezza di possibilità interpretative a prescindere dalla qualità della scrittura. Sono stati i lettori, in altri termini, a trasformare questi personaggi e le loro vicende in grandi miti universali – lettori eccezionali come Marlowe o Goethe, certo, ma non solo: chiunque di noi, in misura diversa, contribuisce a creare la tradizione e ha la responsabilità di tenerla viva.

La seconda riflessione riguarda ancora il concetto di tradizione, il suo farsi e il suo senso. Confondere tradizione e tradizionalismo è uno degli errori a cui ho assistito negli anni più importanti della mia formazione, gli ormai lontani anni Settanta, e di cui vedo con dispiacere le conseguenze. Il tradizionalismo, cioè la museificazione della cultura, non ha niente a che vedere con la capacità di cogliere in un libro o in un film gli echi e i rimandi che gli danno spessore e valore. In un’epoca che tende a svalorizzare la profondità e a bollare come “pedantesca” erudizione (o “sterile”, a piacere…) il fatto di non confondere Manzoni con Verga, o Don Giovanni con Don Chisciotte, trasmettere alle nuove generazioni i punti di riferimento fondamentali, e spiegare perché lo sono, e perché ignorarlo costituisce un impoverimento, un’ingiustizia, un furto, a me continua a sembrare importante.

(continua)

Leggi il primo e il secondo articolo.

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe Edizioni).

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