Rileggendo “Il silenzio” di Francesco Biamonti

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Ci sono libri non finiti che hanno in sé la forza evocativa del capolavoro e la misteriosa ambiguità dell’incompletezza. Tra questi c’è sicuramente il breve testo che Francesco Biamonti (1928-2001) ci ha lasciato prima di andarsene prematuramente nel 2001, e che Einaudi ha poi pubblicato nel 2003 con il titolo Il silenzio.

Davvero poche sono le cartelle che lo scrittore, già minato dalla malattia, ha prodotto; eppure sufficienti a incantare il lettore, a fargli rimpiangere il fatto che non sia stato concluso, ma anche a spingerlo sull’inebriante precipizio di un’improbabile continuazione “fai da te”. E proprio queste erano le mie sensazioni quando, appena stampate, avevo letto d’un fiato queste pagine. Ripreso il libro oltre dieci anni dopo, non solo ho scoperto con mia sorpresa di ricordarne anche dettagli minuti, apparentemente insignificanti; ma ho anche abbandonato ogni rimpianto e ogni fantasiosa continuazione della storia, che mi è parsa – a modo suo – completa.
Una storia di solitudini che si incontrano pudicamente (ma non sempre…) in un entroterra ligure che è sì “verticale” (come si dice spesso dei paesaggi di Biamonti) ma è anche – pur nella sua asperità – popolato di fiori. Fiori che il taciturno ex marinaio Edoardo, che ha viaggiato anche troppo (“…si rimane sempre con una fame di terra. S’invecchia male…”), ben conosce e che la misteriosa Lisa (con “la fronte senza tempo”), vedova di un terrorista, sembra apprezzare.

Leggendolo, non mi è più venuta voglia di sapere “come va a finire”, perché – in realtà – nulla tra i due è veramente cominciato. Certo, i loro corpi si uniscono, le loro ore ogni tanto si mescolano, le loro esperienze esistenziali a poco a poco riemergono dal passato: ma in modo tanto reticente che ciò sembra fatto apposta perché non possano diventare oggetto di condivisione.
Non mi è venuta voglia di sapere “come va a finire” perché Biamonti ci ha dato qualche prezioso indizio per comprendere da soli il senso della vicenda, che è tutto nella melanconica sfuggevolezza del personaggio femminile, soluzione narrativa tipicamente “biamontiana” (comune a Ester de L’angelo di Avrigue, 1983, Vari di Vento largo, 1991, Clara di Attesa sul mare, 1994). Figura sfuggevole, Lisa, eppure presentata con la frase “sedeva tra le angeliche”, i fiori che “che amano avere le radici nell’acqua e la testa nel sole”; e che – come si diceva – ha “la fronte senza tempo”, ma anche gli occhi blu, e una ciocca di capelli che biancheggia. È infatti una sorta di versione novecentesca della donna angelicata (“sedeva tra le angeliche”) che si rivolge pure ad Edoardo dicendogli “Lei è gentile”: che vogliamo, più di così? Ma, come e più delle donne “pseudo-angelicate” del suo quasi conterraneo Eugenio Montale (che però frequentava il Levante ligure, Biamonti era invece del Ponente) Lisa può solo offrire qualche barbaglio: le due solitudini sono fatte per essere gelosamente coltivate, non per stemperarsi a vicenda, e ciò Edoardo e Lisa lo sanno, nonostante l’attrazione fisica e l’umana simpatia che provano reciprocamente. D’altronde – riflettevo – anche la Beatrice dantesca (modello di tutte le donne angelicate), morta in giovane età e già troppo metafisica quando era viva, sembra fatta apposta per condannare alla solitudine chi la ama…

Solitudini e fiori, dunque; e a chi – come chi scrive – ha i capelli grigi, non poteva non venire alla mente un verso di una straordinaria canzone di Sergio Endrigo del 1968, Io che amo solo te, e cioè: “la solitudine che mi hai regalato io la coltivo come un fiore”. Mi pare la colonna sonora perfetta di questo piccolo grande libro.
E, a proposito di “coltivazione”, credo che tutti dovremmo maggiormente coltivare la memoria di quell’intenso scrittore che è stato Francesco Biamonti, molto apprezzato da personaggi del calibro di Italo Calvino ed Ennio Morlotti. Tra l’altro è appena stato pubblicato (Il Canneto editore, 2015), col titolo Il romanzo di Gregorio, il materiale finora inedito propedeutico alla stesura de L’Angelo di Avrigue. Una bella sorpresa, davvero: ne riparleremo senz’altro su queste colonne.

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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