Sintesi tra passato e presente
Se allora l’idea-forza era quella di vedere nella serialità (e riproducibilità finanche miniaturistica) una delle caratteristiche dell’arte antica, ora Settis ha posto l’accento sul vero e proprio “riciclo” nel corso dei secoli dei capolavori del passato. Un “riciclo” che è stato per un verso omaggio e per altro verso oltraggio (più o meno consapevole) a quelle opere, che hanno nel tempo subito riusi, trasformazioni, rimaneggiamenti, in qualche circostanza pesanti danneggiamenti; ma che con la loro persistenza (ancorché frammentaria, talora) sono testimoni di un filo rosso (o piuttosto di un cordone ombelicale?) che ci lega al passato greco-romano. È come se questa operazione – diffusissima soprattutto nel Medioevo e nel Rinascimento, ma ben presente anche nella cultura sei-settecentesca – riducesse le distanze tra antico e moderno, producendo una sintesi originale, illustrata dallo stesso curatore con queste parole:
Il reimpiego comporta la convivenza di diverse temporalità, dove distanza storica e simultaneità narrativa ed emotiva s’intrecciano di continuo. I marmi antico-romani appartengono allo stesso orizzonte culturale di chi li riusa, e dunque appropriarsene è sentito come naturale. Ma la dimensione-tempo sfugge alla sequenza calendariale; è instabile, può essere manipolata e piegata […]. Perché prelevare dalle rovine un rilievo, un vaso, un capitello? Perché trasportarlo altrove per inserirlo entro un nuovo contesto? Le risposte esplorate negli ultimi decenni vanno in tre direzioni complementari: il reimpiego può avere valore memorativo (volto al passato), fondativo (diretto al presente), o predittivo (orientato al futuro). In mancanza di documenti è spesso difficile decidere quale di queste intenzioni prevalesse di caso in caso; ed è ben possibile che esse fossero simultaneamente presenti.
Una mostra troppo “intellettuale”, allora? Non direi proprio! Se infatti i suoi presupposti teorici possono sembrare (e sono) complessi, la straordinaria visibilità degli oggetti esposti rende la visita assai piacevole, direi emozionante anche (o soprattutto?) ai non addetti ai lavori. Infatti il percorso espositivo, che si sviluppa in due edifici della Fondazione, il Podium e la Cisterna, diventa una sorta di “pellegrinaggio laico” che porta i visitatori a potere contemplare da vicino (quasi toccare, se fosse possibile…) alcuni capolavori assoluti, difficilissimi da riunire in un solo evento, perché di solito ubicati in musei di mezzo mondo.
Qualche esempio significativo
Non è facile scegliere qualche esempio di “riciclo”, anche se è opportuno partire da due oggetti amatissimi dagli antichisti, e cioè i monumentali frammenti marmorei, la mano e il piede destro di Costantino, normalmente esposti nel cortile del Palazzo dei Conservatori a Roma. Qui in mostra sono accostati a una ricostruzione del Colosso dell’imperatore in scala 1:1, mai tentata prima, che evidenzia come l’opera sia il risultato della rielaborazione di una più antica statua di culto, probabilmente di Giove. A dimostrazione che il “riciclo” ha origini antichissime…
E che dire del gruppo scultoreo di età ellenistica del Leone che azzanna un cavallo (IV secolo a.C.) – amatissimo da Michelangelo – che nel Medioevo venne collocato sul Campidoglio quale allegoria del buon governo cittadino? O di oggetti pagani recuperati in contesti cristiani, come un sarcofago dionisiaco di Cortona (II sec. d.C.) reimpiegato nel 1247 come sepolcro del beato Guido, e un’urna etrusca (II secolo a.C.) “riciclata” nel XII secolo a Pistoia per custodire le reliquie di San Felice? O della preziosa coperta dell’Evangeliario di Ada, del 1499 (oggi a Trier) nella quale è incastonato un cammeo del IV secolo d.C.? O del trono di un sacerdote di Dioniso dall’Asia Minore (II secolo a. C.) divenuto seggio episcopale e poi, a Mantova, battezzato come Trono di Virgilio? Esempio, questo, di quel processo di santificazione cui il poeta dell’Eneide fu sottoposto nel Medioevo; processo che toccò anche alla povera Ifigenia, che da vittima sacrificale del padre Agamennone divenne martire cristiana, come dimostra una statua qui esposta. Senza dubbio si tratta di pezzi che si sono salvati in virtù della loro “bellezza”, che – come dicono i curatori della mostra – si è davvero ottimamente “riciclata”.
Meriti e colpe del collezionismo
L’idea di “bellezza” non può non rimandarci a quella di collezionismo, se è vero che nei secoli alcuni manufatti meravigliosi sono entrati a far parte di importanti collezioni che li hanno – ancora una volta – sia protetti sia modificati. È il caso della Stele funeraria del Palestrita (450-430 a.C.) che rappresenta la figura di un atleta: già proprietà di un cardinale, venne tagliata in due nel 1701 e solo successivamente ricomposta e conservata ai Musei Vaticani.
Ancora più bizzarra è la storia del Moro Borghese e della Zingarella, statue ricomposte a Roma dal francese Nicolas Cordier in età barocca mescolando frammenti antichi a parti di sua originale creazione: già appartenenti alla collezione del cardinale Scipione Borghese, esse sono oggi rispettivamente al Louvre e alla Galleria Borghese, e vederle vicine nei luminosi spazi della Fondazione è davvero una bella emozione.
Così come lo è vedere la protome bronzea di cavallo detta Testa Carafa (dal nome della nobile famiglia napoletana che a lungo la possedette): è opera nientemeno che di Donatello, della metà del Quattrocento, ma la suggestione per l’antico ha spinto per secoli gli studiosi (tra i quali anche il grande Winckelmann) a considerarla prodotto ellenistico.
Un discorso a sé merita la cosiddetta Tazza Farnese, il più grande cammeo in pietra dura dell’antichità arrivato fino a noi. Questo manufatto ellenistico (II-I secolo a.C.), straordinario per materiale (agata sardonica), tecnica e dimensioni, passò di corte in corte, attraversando grandi distanze geografiche, dall’Egitto a Roma e Bisanzio, poi in Persia e di nuovo in Occidente e spostandosi tra alcune delle più importanti collezioni di antichità del Medioevo e dell’età moderna, tra cui quelle di Federico II e Lorenzo il Magnifico. Qui alla Fondazione Prada la Tazza è esposta accanto a un disegno persiano del Quattrocento che ne riproduce con precisione le figurazioni allegoriche, a dimostrazione – ancora una volta – di quella circolarità spazio-temporale della cultura che un po’ alla base della mostra: credo anche che il cosmopolita Federico II (tra gli altri) avrebbe apprezzato!
Modesta appendice epigrafica
Dopo tanta “bellezza” una modestissima chiusa personale. Da epigrafista conosco bene il fenomeno del “riciclo”, se è vero che numerose antiche lapidi ci sono arrivate in seguito ai più vari reimpieghi, in primis quelli edilizi, ma non solo. Quanti sarcofagi o urne funerarie sono diventati – ad esempio – vasche per fontane o fioriere? Quante stele marmoree decorate sono divenute – oltre a soglie o gradini di scale – il piano di eleganti tavoli da salotto?
Mi sono così imbattuto, in tanti anni di “militanza” epigrafica, in tutte queste manifestazioni, che ho trovato particolarmente abbondanti e interessanti quando ho censito e studiato i reimpieghi epigrafici del monastero di Torba (VA), uno dei gioielli di proprietà del FAI. E anche nella mostra di cui parliamo non mancano oggetti iscritti latini “riciclati”, tutti connotati però da una certa qualità artistica: c’è, ad esempio, la celebre Urna di Walperto, milanese, divenuta vasca per l’acqua, o una superba iscrizione imperiale romana che è ora il rovescio di una lastra con decorazione cosmatesca.
Voglio allora “abbassare i toni”, ricordando il “riciclo” più improbabile che mi sia capitato di vedere, una ventina d’anni fa, nei pressi di un’importante abbazia del Nord Italia, dove mi recai per visionare un altare funerario estratto da una struttura muraria. Collocato temporaneamente vicino a un angusto parcheggio, l’altare fungeva – dicevano i monaci – da vero e proprio “sensore di parcheggio” ante litteram; candidamente (come si addice a chi indossa il saio…) uno di loro mi disse infatti: «Quando lo tocco con il paraurti, so che è ora di invertire la marcia!». Anche in questo caso vi è stato un riuso costante: l’altare è stato prima monumento funerario, poi si è riconvertito in pietra da costruzione per diventare da ultimo paracarro “abusivo”.
Nulla però, in quest’ultimo utilizzo, di «memorativo, fondativo o predittivo» (cito ancora Settis), a dimostrazione che stiamo parlando di un contesto ben lontano dalla magnificenza degli esempi in mostra alla Fondazione Prada: è pertanto qui che invito a recarsi i miei lettori, dato che dubito che a breve potremo rivedere così tanta “bellezza” riunita in un’unica esposizione.