La Britannia romana: qualche data
È probabilmente utile, per iniziare, una breve sintesi dell’occupazione romana della Britannia, cominciata nel 43 d.C. sotto l’imperatore Claudio, quasi un secolo dopo il fallimentare sbarco di Cesare in queste terre. L’isola non fu mai, però, del tutto domata anche se il generale Giulio Agricola (il suocero di Tacito), governatore della provincia dal 77 d.C., sferrò un duro attacco alle tribù settentrionali dei Caledoni, culminato con la sconfitta del loro valoroso leader Calgaco; proprio quel Calgaco che Tacito ci presenta come un oppositore – per così dire – “ideologico” dell’imperialismo romano, in virtù della sua celebre frase ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, cioè “dove [i Romani] creano un deserto, dicono che c’è la pace” (Agricola, 30, 4).
- Aureo di Claudio, che commemora la conquista della Britannia
- Denario di Adriano, con la Britannia sul verso
Ma l’attuale Scozia – pur se occupata ai tempi di Agricola – fu in breve tempo quasi tutta persa, vuoi per le oggettive difficoltà di gestione del territorio, vuoi perché l’imperatore Domiziano, geloso della gloria e della popolarità del suo generale, lo richiamò frettolosamente a Roma, facendo scrivere così al genero Tacito: perdomita Britannia et statim missa, cioè “la Britannia fu domata, e subito perduta” (Historiae, 1, 2).
Il Vallo di Adriano, il Vallo di Antonino
Proprio la difesa della provincia romana dagli assalti delle tribù barbariche dei Caledoni fu ciò che spinse, qualche decennio dopo, l’imperatore Adriano a far erigere il famoso Vallo. Si tratta di una fortificazione in pietra (affiancata da palizzata lignea, fossato, terrapieno e strada militare) lunga circa 117 km, la cui costruzione, iniziata tra il 122 e il 125 d.C., fu affidata ai soldati qui stanziati e durò una decina d’anni: si configurava pertanto come una vera e propria barriera erta tra gli estuari dei fiumi Tyne e Forth (fascia oggi interamente in territorio inglese), sulla scia di un precedente limes (“confine”) difeso dalle truppe romane.
- Mappa dettagliata del Vallo di Adriano
- I due valli, adrianeo e antonino
- I due Valli in una mappa del XIII secolo, British Library, London
Lungo le mura vennero dislocati alcuni forti, fortini e torri di guardia, presidiati da legionari o da milizie ausiliarie; questi dovettero avere però vita tutt’altro che tranquilla, se è vero che Antonino Pio, qualche anno dopo (tra il 142 e il 144 d.C.), costruì come ulteriore barriera il cosiddetto Vallo di Antonino, posto circa a 160 km a nord di quello adrianeo, quindi nell’attuale territorio scozzese.
La storia di queste muraglie si svolse sempre parallela a quella dell’impero di Roma, che – anche nella successiva età severiana, come pure in quella tetrarchica – si mostrò molto attivo a difesa dei propri domini sull’isola: i Romani, infatti, lasciarono la Britannia solo nel 410 d.C. È però vero che la bella fiction romanzesca di Valerio Massimo Manfredi, intitolata L’ultima legione, immagina la persistenza qui di un’estrema, segreta, guarnigione romana – la leggendaria legio IX Draco – anche nei decenni seguenti.
Il Vallo di Adriano oggi
Ma torniamo ora alla realtà dei fatti, ricordando come lo scorrere dei secoli e la complicatissima – e spesso sanguinosa – storia della Scozia e dell’Inghilterra, abbiano, per così dire, “demolito” i due Valli, divenuti nel tempo un quasi inesauribile serbatoio di pietre da costruzione. Nonostante ciò ampi settori di queste fortificazioni sono ancora oggi ben visibili e fanno parte del Patrimonio dell’umanità dell’Unesco.
- Un tratto in salita del Vallo di Adriano.
- L’abbazia di Jedburgh
Come ho anticipato, ho visitato qualche settore del Vallo di Adriano muovendo verso Sud da Edimburgo, dopo una sosta nei Borders scozzesi per ammirare la meravigliosa abbazia agostiniana di Jedburgh, costruita tra il XII e il XIII secolo. Giunti in prossimità del Vallo, il nostro viaggio è proseguito lungo la A69, strada che corre parallela alla fortificazione da Newcastle-upon-Tyne fino a Carlisle: ma è inutile che mi profonda in troppi dettagli logistici e descrittivi, poiché chi vuole sapere di più sulla logistica di quest’area può (anzi deve) consultare l’ottimo sito web istituzionale.
Visto il poco tempo a disposizione (complice un certo timore per la guida a destra e tutto ciò che ne consegue…) mi sono affidato a un mini-tour con guida, dopo essermi assicurato che avremmo fatto sosta nel sito archeologico di Vindolanda, per vedere i resti del forte romano e il modernissimo museo. Ci siamo dunque fermati in alcuni punti dove i resti sono particolarmente suggestivi, diventando davvero parte di un altrettanto suggestivo paesaggio, per lo più costituito da prati verdissimi popolati di pecore; tale suggestione si accresce quando la muraglia asseconda con rude dolcezza le alture collinose della regione, tanto che presso un colle poco sopra Vindolanda ho avuto una sorta di déjà-vu, ricordando – si parva licet – una visita alla Muraglia cinese a Badaling di oltre vent’anni fa. Sempre di muri si tratta, in fondo; e sempre di baluardi a difesa di un gigantesco impero!
Vindolanda: il sito e il Museo
Vindolanda, forte militare fatto già costruire da Agricola nel 79 d.C., divenne nei secoli uno dei maggiori stanziamenti nei pressi del Vallo adrianeo, dal quale dista circa un miglio. Più volte ampliato e ricostruito, il campo venne affiancato da un villaggio (vicus), che ben documenta la simbiosi che gli stanziamenti militari romani dovettero avere con il territorio circostante. Il visitatore odierno fatica pertanto a distinguere le sezioni “civili” da quelle “militari” del sito archeologico, che nel corso del tempo andarono un po’ a confondersi e sovrapporsi.
- Vindolanda, il campo militare e il vicus in una foto aerea
- Una pianta di Vindolanda (di A. Birley)
Certamente, vedere le mura, i torrioni di guardia, il quartiere generale delle truppe, a poca distanza da templi, terme, latrine, cisterne, granai ci offre l’immagine di una realtà composita e vivace; una realtà dove convivevano soldati di diversa origine, che praticavano culti diversi (e perfino “esotici”, come quello di Iuppiter Dolichenus, di derivazione orientale), che spesso “mettevano su famiglia” con donne locali; una realtà dove le spade, le lance, le armature avevano la stessa dignità delle suppellettili domestiche di vetro e terracotta o dei gioielli indossati dalle signore. Tutto ciò, ovviamente, è documentato dal materiale conservato nel bellissimo museo: per informazioni su di esso, così come sugli scavi in costante evoluzione, è bene consultare il sito web istituzionale.
- Vindolanda, interno del Museo
- Vindolanda, ara dedicata da un militare a Iuppiter Dolichenus
- Vindolanda, armi romane conservate nel Museo
- Vindolanda, calzature conservate nel Museo
- Vindolanda, vetri romani conservati nel Museo
- Vindolanda, prezioso bracciale vitreo conservato nel museo
Nessuna informazione virtuale, però, è comparabile all’emozione che ho provato nel salire sulle ricostruzioni vindolandesi – filologicamente corrette – delle torri di guardia del Vallo, sia in legno sia in pietra, a documentare fasi diverse dell’architettura militare romana. Da lassù infatti il verde dei prati sembra più intenso e l’orizzonte più lontano; e, soprattutto, si capisce come in queste plaghe anche in un inverno mite come quello in corso il vento possa essere gelido e violento. Non ho visto barbari in arrivo, ma ho comunque provato ad avvicinarmi all’inquieto stato d’animo delle vigiliae di allora; uno stato d’animo di certo meno sereno del mio quando, oltre trent’anni fa, guardavo assonnato e impaziente l’orologio nella garitta di una tranquilla caserma ligure durante il turno di guardia.
- Vindolanda, ricostruzione di una torre di guardia in legno
- Vindolanda, ricostruzione di una torre di guardia in pietra
- Vindolanda, vista dalla torre di guardia
Le tavolette di Vindolanda
Visita perfetta, allora? Purtroppo no, perché – da epigrafista qual sono – ho dovuto subire una cocente delusione. Infatti non mi è stato possibile accedere, causa manutenzione, alla sala del museo ove sono gelosamente conservate alcune delle cosiddette “tavolette di Vindolanda”, che dal 2011 sono tornate qui da un deposito temporaneo al British Museum di Londra. E con il termine “tavolette” alludo alle centinaia di sottilissime lamine di legno (betulla, ontano, quercia) usate come pagine di scrittura a inchiostro dai soldati di Vindolanda e dagli abitanti del vicino villaggio; sono databili per lo più tra la fine del I e il II secolo d.C. circa, e il loro ritrovamento in loco è iniziato nel 1973 e tutt’ora continua, per l’instancabile opera prima di Robin Birley e poi del figlio Andrew, che ne ha raccolto l’eredità scientifica. Per saperne di più è assai utile, a mio avviso, la lettura di un recente lavoro di Matteo Lombardi, che può fungere anche da ricco repertorio bibliografico.
Dobbiamo comunque affermare come i testi delle Vindolanda tablets, vergati in grafia corsiva, siano di un’importanza documentaria eccezionale: vi troviamo infatti liste della spesa, cataloghi di oggetti, richieste di forniture militari, come pure inviti a cena o lettere dei soldati alle famiglie lontane. Il tutto attesta un buon livello di alfabetizzazione anche in persone di livello socio-culturale non troppo elevato; e, soprattutto, ci ricorda come la lingua latina sia stata per secoli – insieme con la fedeltà (spontaneo o coatta) allo Stato romano – il fattore coesivo di tutte quelle pluralità etniche, religiose, culturali cui ho fatto cenno prima. Non è allora un caso che una vetrina del museo si intitoli The importance of writing.
Tra queste laminette lignee vi è una lettera con la quale Claudia Severa invita a un ricevimento Sulpicia Lepidina, moglie di Flavius Cerialis, prefetto del campo di Vindolanda: è forse il più antico esempio di scrittura corsiva femminile latina. In un’altra, invece, un furiere ordina contemporaneamente pullos viginti (“venti polli”), mala formosa (“belle mele”) e centum ova aut ducenta (“cento o duecento uova”), per sfamare i numerosi soldati lì stanziati.
Un altro straordinario documento è un non troppo corretto esercizio di trascrizione dell’Eneide virgiliana (IX, 473); infatti il verso interea pavidam volitans pinnata per urbem vi è storpiato in —— / interea pavidam volitans pinna/ta ubem seg / ——, a indicare forse come anche in questa remota area dell’impero qualcuno, magari un soldato di origini barbariche, stesse imparando a scrivere e leggere il latino ricopiando versi virgiliani, che aveva in precedenza letto. Sì, avrei voluto vedere testi come questi, ma dovrò continuare a pensarli come li ho sempre consultati sui libri o sul sito http://vindolanda.csad.ox.ac.uk/, ove sono ottimamente proposti con tanto di immagine e trascrizione; oppure come li ho frettolosamente e parzialmente intravisti anni fa al British.
Un buon motivo, allora, per tornare da queste parti (magari informandomi meglio prima su eventuali chiusure!); oppure un buon pretesto per convincere gli amici britannici (anche se ormai siamo fuori tempo massimo…) a ripensare alla Brexit, perché probabilmente sono molto più simili a noi di quanto pensino: la sala chiusa per manutenzione o restauro è infatti un “classico” dei nostri musei italiani! In fondo, da quattro secoli di dominazione romana, qualcosa avranno pure imparato, no?