Cosa succede se “io credo che Dio esiste”

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Chi ha esperienza d’insegnamento dell’italiano nella Scuola Secondaria Superiore sa quale complessità caratterizzi questa articolata disciplina. Da un lato essa è infatti veicolo dell’educazione artistico-letteraria, ma dall’altro si prefigge anche la finalità di guidare lo studente verso un uso consapevole della lingua, tanto nella ricezione di testi (non solo letterari) quanto nella scrittura.

 

Proprio quest’ultimo ambito presenta le criticità maggiori: una buona didattica della scrittura avrebbe infatti bisogno di tempo, ma il quadro orario è stato sensibilmente ridotto dall’ultima riforma, che richiede anche l’anticipazione della letteratura delle origini nel secondo anno del Biennio. Si rischia dunque di non raggiungere l’obiettivo, senza peraltro riuscire a contenere la marginalizzazione dell’esercizio interpretativo sul testo letterario, che pure dovrebbe alimentare la formazione antropologica dei nostri studenti.

D’altro canto è opinione diffusa tra i docenti che i ragazzi arrivino alla Scuola Superiore con un grado di competenza espressiva di gran lunga inferiore a quello dei loro coetanei delle generazioni precedenti: ciò rende ancora più difficile promuovere un cambiamento nei loro usi linguistici. Il problema principale – secondo gli specialisti – sarebbe la scarsa sensibilità alla variabile diamesica, ossia la ridotta coscienza della necessità di un registro specifico per lo scritto differente da quello dell’oralità. Lo studente medio ha infatti scarsa familiarità con le convenzione della lingua scritta, benché – a ben guardare – il suo percorso di scolarizzazione non sia radicalmente differente da quello dei suoi coetanei di qualche anno fa. Sorprende anzi che, non di rado, anche gli studenti più preparati (quelli che, forse con un po’ di ottimismo, definiamo pure “buoni lettori”) manifestino scarsa competenza circa il codice adeguato al registro delle comunicazione formali.

Di ciò si è parlato, mercoledì 12 marzo, con il professor Massimo Prada, docente di Linguistica italiana all’Università degli Studi di Milano, nella prima delle tre lezioni in presenza del “Progetto Strategis 2013-2014”1. Partendo dal tema dell’intervento, Scritto e parlato, il parlato nello scritto, proverò ad esporre qui alcune considerazioni personali sulla scrittura: l’intento sarà quello di mettere in relazione la realtà quotidiana dell’esperienza didattica mia e di molti colleghi con gli stimoli offerti dal prof. Prada e approfonditi mediante qualche lettura specialistica2.

Andiamo con ordine. Il titolo dell’incontro allude a un dato all’apparenza incontrovertibile, la pervasività del parlato nella scrittura scolastica e nella pratica didattica in genere. Oggi la maggior parte degli studenti italiani ha un pieno possesso della lingua parlata, l’impiego del dialetto è un fenomeno poco significativo (benché plurilinguismo e multiculturalità pongano nuovi e non trascurabili problemi) ed esiste per tutti una buona facilità di accesso ai testi scritti. Eppure ciò non si traduce in una maggiore competenza nella produzione di riassunti, relazioni, testi espositivi o argomentativi.

Una delle ragioni è che molti dei testi scritti a cui gli studenti accedono fuori dal contesto scolastico sono in realtà testi di tipo misto, con un carattere ibrido parlato/scritto che include anche elementi multimediali (foto, video, musica) e ammette una decisa apertura alla determinante giovanile dell’innovazione linguistica: blog e social network sono infatti luoghi in cui la tensione ludica e dissacrante della lingua, tipica dei giovani, diventa convenzione anche per chi non è più giovanissimo. Peraltro la tendenza a derogare alla norma linguistica dell’italiano standard segna oggi anche ambiti di media formalità, come la scrittura giornalistica, sempre più vicina al modello cosiddetto neo-standard e dunque più aperto a formulazioni tipiche del parlato. A ben riflettere, per tutti noi è oggi più labile quel confine tra il registro dell’oralità e quello della scrittura, che solo sessant’anni fa, almeno per una parte della popolazione, si configurava in termini molto vicini alla diglossia.

Proprio la contiguità tra scritto e parlato sarebbe – secondo Prada –  all’origine di alcuni dei limiti più comuni degli scritti dei nostri studenti. Si pensi, a titolo d’esempio, alla diffusa tendenza alla semplificazione in tutti gli ambiti (ortografico, morfologico) in cui il sistema linguistico è irrazionale, alla riduzione del paradigma dei pronomi (gli unificato per a lui, a lei, a loro; lui, lei, loro in funzione di soggetto), ai frequenti problemi nella gestione del riferimento, irrilevanti nell’oralità poiché il parlante può contare sulla cooperazione dell’ascoltatore e su elementi di comunicazione non verbale come la deissi. E ancora: l’uso esteso di pochi modi e tempi verbali, a coprire tutte le possibilità (presente pro futuro, scomparsa del futuro anteriore, imperfetto indicativo in luogo del condizionale e del congiuntivo …) , il ricorso a soluzioni enfatiche, frasi nominali, ellissi, strutture distattiche e, in generale, a una sintassi “lasca”.

Si tratta di fenomeni in gran parte accettabili nel parlare comune, sui social network e nei blog, le tracce dei quali si colgono però persino in ambiti meno informali.

L’italiano standard, modellato sulla lingua letteraria e della cultura, ha sempre avuto una tendenza conservativa; intere generazioni di studenti si sono formate secondo un paradigma normativo che sanzionava, nella scrittura, lo scarto rispetto alla norma linguistica del codice alto. Si dava persino un codice specifico, lo “scolastichese” nel quale anche il lessico era rigorosamente selezionato (secondo criteri non sempre razionali): quando alcuni di noi erano bambini, nei temi non si poteva andare al cinema, piuttosto ci si recava; e naturalmente arrabbiarsi non era consentito a nessuno, tutt’al più ci si poteva inquietare o irritare.

Attualmente l’impresa è più ardua: è difficile convincere gli studenti dell’inaccettabilità nello scritto di alcune loro formulazioni, quando esse sono in realtà convenzioni socialmente condivise anche dagli adulti in molti contesti comunicativi. Tuttavia, se pensiamo che educare alla lingua comporti la responsabilità di offrire dei modelli e con ciò promuovere in chi cresce la capacità di compiere scelte consapevoli ed efficaci, non possiamo rinunciare alla sfida che tale obiettivo comporta, anche se ciò significa affiancare all’azione “normativa” tradizionale un lavoro d’altro tipo. Proviamo dunque a immaginare come il quadro sin qui delineato possa orientare la pratica didattica.

Innanzitutto sarà utile allenare gli studenti alla percezione delle differenze di registro che caratterizzano le diverse tipologie testuali; occorrerà dunque ragionare sulla lingua in termini di coerenza del codice espressivo rispetto alle finalità proprie del testo. Senza ricorrere a tecnicismi fuorvianti, è possibile promuovere la consapevolezza sociolinguistica attraverso pratiche mirate. Penso all’analisi delle differenti tipologie testuali, ma anche all’osservazione delle incoerenze espressive negli elaborati domestici corretti pubblicamente o, ancora, alla proposta di esercizi di riformulazione del medesimo concetto secondo modalità differenti. L’obiettivo è far sì che alla casualità, sciatta e irriflessa, subentri la responsabilità di scelte espressive ponderate, anche quando eventualmente difformi dallo standard formale. Immaginiamo una serie del tipo:

Credo che Dio esista.
Dio esiste. Io lo credo.
Dio esiste, credo.
Che Dio esista, io lo credo.
Io credo che Dio esiste.

Possiamo partire dallo standard che impone il modo congiuntivo in ragione della portata semantica del verbo (il credere che non è certezza) e ragionare su ciascuna espressione in un’ottica di efficacia comunicativa e coerenza rispetto al grado di formalità richiesto dal canale (scritto/orale), dal destinatario e dalla tipologia testuale.
Ogni testo ha il suo registro: recentemente una collega mi ha parlato del suo corso di recupero incentrato sul resoconto di un fatto realmente accaduto a scuola da redigere in tre varianti in base al destinatario, nel caso specifico un amico, il genitore, il Dirigente Scolastico. Sappiamo bene come la condivisione di strategie di questo tipo possa rappresentare una pratica molto utile nel nostro lavoro.

Un altro importante obiettivo è incentivare la consapevolezza dello studente circa le caratteristiche specifiche del testo scritto. Come si è detto, le nuove generazioni sono poco allenate a cogliere la variazione diamesica, ma è fondamentale che capiscano che ciò che è destinato alla lettura deve avere una perfetta autonomia per essere compreso anche fuori dal contesto che l’ha prodotto, in assenza dello scrivente e da parte di un destinatario sconosciuto. Spesso gli studenti contano un po’ troppo sulla cooperazione del lettore, che nella loro percezione è solo l’insegnante, anche quando la tipologia di testo impone la scelta di una destinazione editoriale: in realtà chi legge non è tenuto a colmare i buchi informativi o le incoerenze. È ovvio che al docente sarà facile riconoscere anche ciò che chi scrive non dice o dice male, ma occorre che lo studente sappia che una prova scritta, anche quando incentrata su contenuti disciplinari, non ha mai il solo obiettivo di misurare la conoscenza dell’argomento proposto (ammesso che possa darsi una compiuta conoscenza in chi non ha parole per riferire ciò che sa). Un testo, per essere tale, è tenuto a rispettare i vincoli di coerenza e chiarezza comunicativa.

Ciò che come insegnanti fatichiamo a comunicare è che un testo scritto ha il suo specifico nella progettazione che guida la scrittura. L’oralità ha il suo cardine nell’immediatezza e si articola in presenza, mentre sappiamo bene che un testo deve essere pensato e pianificato perché possa parlare a chi è distante nello spazio e nel tempo.

Al contrario, spesso i nostri studenti non scrivono, per lo più “trasmettono” i propri pensieri, ossia li trascrivono, quasi in presa diretta. Sta a noi convincerli che solo una buona progettazione può arginare l’eccesso di oralità che domina le loro scritture, gittate e impulsive. Ho l’impressione che proprio qui si nasconda l’ostacolo maggiore, poiché oggi la scrittura manuale ha ceduto il posto a quella digitale e la pianificazione preventiva di un testo in tutti i suoi passaggi, è un esercizio innaturale persino per gli adulti. La videoscrittura consente di intervenire sulla dispositio anche in corso d’opera, tagliare porzioni di testo, sovrascrivere e infine affidare al correttore ortografico la segnalazione degli errori. L’incongruenza è che chiediamo ai nostri studenti di compiere, in un paio d’ore di verifica, con carta e penna e senza il supporto che li accompagna nella redazione della maggior parte dei loro elaborati domestici, operazioni che quasi nessuno compie più nell’ordine classico (inventio, dispositio, elocutio).

Infine, se, come pare, la questione della qualità espressiva è rilevante e merita la convergenza di tutti gli strumenti utili ad accrescere competenza e consapevolezza, sarà utile un cenno allo studio delle lingue classiche e del latino in particolare, che dell’italiano è l’origine. Con buona pace di chi vorrebbe il latino relegato a una nicchia, il suo essere lingua morta consente un approccio non pragmaticamente orientato e perciò incentrato su aspetti descrittivi che, nella comparazione con l’italiano, finiscono per colmare ciò che oggi si va perdendo: la strutturazione ipotattica, il rigore nell’impiego dei tempi e dei modi verbali, la consapevolezza della lingua e del lessico nei suoi sviluppi diacronici.
Proprio ciò che di recente sembra stimolare meno la creatività del legislatore, la salvaguardia delle lingue classiche, è un’eccellente strategia per promuovere le competenze proprie della scrittura.

Note al testo
1. Strategis nasce dalla collaborazione tra università degli Studi di Milano, MIUR, Accademia dei Lincei e Istituto Lombardo e si rivolge ad un gruppo di docenti di Scuola Superiore che sono alla ricerca di strumenti e strategie innovative da applicare nella didattica della scrittura.
2. Ringrazio Michele Comelli, coordinatore del Progetto Strategis, per la consulenza bibliografica, che condivido con chi fosse interessato ad esplorare l’argomento. Sul rapporto tra oralità e scrittura: Giovanni Nencioni, Parlato-parlato, parlato-scritto e parlato recitato, in “Strumenti critici”, X (1976), pp. 1-56; Francesco Sabatini, La comunicazione orale, scritta e trasmessa, in AA.VV., Educazione linguistica nella scuola superiore: sei argomenti per un curricolo, a cura di A.M. Boccafumi e S. Serromani, Provincia di Roma-CNR, Roma, 1982, pp. 105-27; Maurizio Dardano, Adriana Pelo, Antonella Stefinlongo (a cura di), Scritto e parlato: metodi, testi e contesti, Atti del Colloquio internazionale di Studi (Roma, 5-6 febbraio 1999), Aracne, Roma, 2001. Per chi desiderasse approfondire i fondamenti della sociolinguistica: Gaetano Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Carocci, Roma, 2012 (nuova edizione); Alberto A. Sobrero (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo, 2 voll., Laterza, Bari, 1995; Lorenzo Coveri, Antonella Benucci, Pierangela Diadori, Le varietà dell’italiano. Manuale di sociolinguistica italiana, Università per gli Stranieri di Siena, Bonacci, Roma, 1998; Matteo Santipolo, Dalla sociolinguistica alla glottodidattica, UTET Università, Torino, 2002; Massimo Prada, Scrittura e comunicazione, LED, Milano, 2003 (in particolare il vol. 1).

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Elena Rausa

Docente di Lettere nei Licei e Dottoressa di Ricerca in Italianistica. Ha pubblicato tre romanzi: “Le invisibili” (Neri Pozza, 2024), “Ognuno riconosce i suoi” (Neri Pozza, 2018), “Marta nella corrente” (Neri Pozza, 2014).

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