L’autenticità del più antico documento latino è un “giallo” che dura da oltre un secolo
La Fibula Praenestina perséguita da anni me e molti altri professori di Latino, perché questa fibbia d’oro di poco più di 10 cm. – così detta perché proverrebbe dall’antica città laziale di Praeneste (oggi Palestrina) – è da sempre oggetto di un vivace dibattito tra gli studiosi circa la sua autenticità. E i colleghi che mi leggono sanno bene che non è un problema da poco. Infatti la nostra fibbia va bene al di là della sua originaria funzione pratica o estetica (serviva a chiudereuna veste maschile), poiché reca incisa una breve scritta che – qualora fosse autentica – rappresenterebbe il più antico documento noto della lingua latina (VII a.C.).
Dunque tutti gli anni scolastici, iniziando un nuovo ciclo di Latino al Triennio, ci troviamo nell’imbarazzante situazione di proporre ai nostri studenti questo documento, premettendo loro che potrebbe essere una “patacca”; ciò col rischio di dare da subito l’idea che noi antichisti trattiamo per lo più “roba” opinabile, sulla quale ognuno può dire ciò che vuole, al contrario dei docenti delle discipline scientifico-matematiche, detentori di quella serena certezza che deriva loro dai numeri.
Potete inoltre immaginare cosa capita a chi, come il sottoscritto, è anche coautore di testi manualistici di letteratura latina, dove ogni tanto è necessario aggiornare lo stato della questione, senza però sapere troppo che pesci pigliare: nell’ultima edizione di Nuovo Genius loci, 1 volume (2011), me l’ero cavata con la solita frase “acrobatica” definendola un oggetto di dubbia e contestata autenticità.
Nessun timore: non ho intenzione di fare la cronistoria completa delle vicende della fibula e del dibattito critico che da decenni la investe: non ne avrei né il tempo né lo spazio necessari. Voglio solo fare qualche modesta considerazione che aiuti i docenti di Latino a presentare l’oggetto con l’attenzione che merita, senza però perderci il sonno: anticipo infatti ai lettori che al termine di questo breve articolo non proporrò nessuna opinione risolutiva, non dico mia – che non ne avrei titolo… – ma neppure di studiosi assai più illustri. Lascerò dunque la questione aperta.
Ma anzitutto ecco la trascrizione del testo iscritto, corredata da un breve commento; e poi solo qualche nota sull’origine e le fasi più recenti della lunga querelle.
Si legge infatti, scritta con un alfabeto affine a quello greco e con una grafia sinistrorsa, la frase manios med fhefhaked numasioi, che equivarrebbe al latino classico Manius me fecit Numerio, e cioè “Manio mi ha fatto per Numerio”. Siamo dunque davanti a un “oggetto parlante”, che si rivolge direttamente all’ipotetico lettore per rivelargli il nome dell’artefice (Manio) e quello del destinatario (Numerio) della fibbia stessa.
La sua scrittura – come accennavo – è sinistrorsa, e le lettere sono davvero molto arcaiche: ad esempio la F è il digamma greco, mentre la H è chiusa. Altrettanto arcaiche sono alcune peculiarità linguistiche, come la desinenza –os per –us nel nominativo singolare, la –d finale consonantica nell’accusativo singolare del pronome personale med (che diverrà me), l’assenza di rotacismo e la desinenza –oi del dativo singolare (in numasioi); e – tra tutte le peculiarità – spicca il perfetto con raddoppiamento fhefhaked, che ha dato luogo a recenti e contrastanti interpretazioni.
Ma da dove è “saltato fuori” questo oggetto conservato ora al Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini di Roma? Fu l’archeologo tedesco Wolfgang Helbig a presentare la fibula nel 1887 sul periodico dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica di Roma, aggiungendo però solo in epoca successiva il suo reperimento in una tomba dell’antica Praeneste, dalla quale sarebbe stata rubata. Anche l’inizio della vita “scientifica” della fibula fu dunque tormentato e “reticente”; e non mancò già ai primi del Novecento qualche voce scettica in proposito all’autenticità dell’oggetto.
Date queste brevi premesse, veniamo ora a tempi molto più recenti, e in particolare al 1980, quando la studiosa Margherita Guarducci, grande archeologa ed epigrafista, sferrò il colpo più duro al nostro gioiello iscritto: infatti, lo ritenne falso, dopo averlo fatto sottoporre ad analisi di laboratorio, che giudicarono il materiale di cui è fatto – una lega l’oro – incompatibile con l’antichità, per la sua composizione, l’artificiosità della patina, l’utilizzo di acidi corrosivi di produzione moderna. Ma la Guarducci non si fermò qui, poiché arrivò a ipotizzare che il monile sarebbe stata fabbricato per un amico antiquario (Francesco Martinetti) dallo stesso Helbig, che ne concepì e incise anche l’iscrizione, con finalità evidentemente “truffaldine”.
L’affermazione colpì la comunità scientifica, che in larga parte accolse le tesi della Guarducci, tanto che il famoso linguista Aldo Prosdocimi diede a un suo articolo lo splendido titolo Helbig med fefaked?, tanto interrogativo quanto provocatorio. Inoltre l’accusa irritò parecchio gli eredi di Helbig, del quale la Guarducci diede un ritratto moralmente del tutto negativo: e la vicenda – come non dovrebbe mai succedere in ambito culturale – finì addirittura in tribunale, con la studiosa italiana accusata di diffamazione.
L’opinione della Guarducci senza dubbio è stata per alcuni anni prevalente, soprattutto in virtù delle analisi microscopiche cui l’oggetto era stato sottoposto, considerate rigorose e all’avanguardia per i tempi. Come un fiume “carsico” sono però nel tempo avanzati alcuni tentativi di riproporre l’autenticità dell’oggetto, ragionando da un lato sulla dimensione linguistica del testo, dall’altro sulla natura del suo supporto metallico.
Comincerò dal versante linguistico, ricordando come circa di una decina di anni fa i glottologi abbiano prepotentemente riaperto la questione, alla luce di nuovi ritrovamenti epigrafici in lingua falisca, documentata in alcuni centri del Lazio antico: vi leggiamo infatti voci come faced, affini al fefaked della fibula. Dunque – pur se con diverse sfumature – linguisti come Paolo Pocetti, Carlo De Simone o Annalisa Franchi De Bellis, si sono schierati a favore dell’autenticità dell’iscrizione (con studi pubblicati tra 2005 e 2006), avversati però – tra gli altri – da un glottologo come Marco Mancini, il quale scrive nel 2009 che nonostante le nuove risultanze epigrafiche provenienti dalle aree latino-falisca e italica, sembrano sussistere, anzi si rafforzano ulteriormente tutti i dubbi espressi fino ad oggi in merito alla genuinità e all’affidabilità linguistica del testo della fibula Praenestina.
Sono però le analisi di laboratorio che, di recente, sembrano avere fatto virare la “bussola” più decisamente verso l’accettazione dell’autenticità: sia dell’oggetto, che sarebbe un prodotto dell’oreficeria etrusca del VII sec. a.C., sia dell’iscrizione che esso supporta. Ciò soprattutto grazie agli studi condotti da Daniela Ferro (Istituto per lo studio dei materiali nano strutturati, CNR) e da Edilberto Formigli (Dipartimento di Fisica, Università La Sapienza di Roma), che hanno visto una pubblica divulgazione nel giugno del 2011. Tralascio – data la mia incompetenza – di commentare i sofisticatissimi strumenti usati dai due scienziati nella loro ricerca, tra i quali un microscopio elettronico a scansione. Cito però quanto dichiarato nel 2011 da Daniela Ferro in un intervento sul sito del CNR, e cioè:
La spilla è un manufatto di alta oreficeria, realizzato utilizzando leghe d’oro di diversa composizione secondo la funzione d’uso delle varie componenti. È stata anche individuata una riparazione originale che conferma l’uso prolungato dell’oggetto in età antica. È improbabile che un falsario ricostruisse tali dettagli senza una conoscenza delle procedure dell’oreficeria antica che, tra l’altro, non avrebbero potuto essere rilevate se non con sofisticate strumentazioni tecnologiche disponibili solo ai nostri giorni.
Una rapida ricerca su Google della fibula dà grande risalto a queste ultime teorie, e quasi tutta la stampa – nel 2011 – affermava come il rebus fosse ormai risolto definitivamente… Io preferisco maggiore prudenza perché l’uso e l’abuso dell’aggettivo definitivo e dell’avverbio definitivamente – che ho sentito in bocca anche a studiosi di fama dopo il 2011 – non si presta al nostro oggetto: è la storia ad avercelo insegnato. Certo, oggi questo è un po’ più “autentico” di trent’anni fa, ma non escludo che il fiume “carsico” di cui ho detto prima non stia già erodendo queste recenti certezze.
Come la mettiamo, allora, con i nostri studenti liceali? Senza farli morire di noia, può essere utile proporre loro la questione della fibula nella sua problematicità, senza nascondere la dimensione più “gialla” della vicenda, accennando anche al possibile reato commesso da Helbig e agli strascichi giudiziari delle teorie della Guarducci, cose trattate diffusamente negli Atti di un convegno del 2009 recentemente editi (Wolfgang Helbig e la scienza dell’antichità del suo tempo). Insomma, non dobbiamo avere paura di mostrare ai nostri allievi i dubbi e le incertezze della comunità scientifica su un oggetto di quasi tremila anni fa, perché sono indizio di vitalità e di costante, talora frenetica, ricerca della verità; e se, come scrivevo prima, la querelle può a prima vista dare l’impressione che gli antichisti siano (anche) dei “pataccari”, allontana però l’idea che siano una “casta” impolverata ed ammuffita. Anzi, la dico tutta: un reperto così, se non ci fosse bisognerebbe inventarlo. Ma che sto dicendo? Forse (e ribadisco forse: non voglio finire in tribunale…) ci ha già pensato Helbig oltre un secolo fa!