Questione di punti di vista #3

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Ancora sulla scrittura in prima persona: “L’anniversario” di Andrea Bajani

Un mio studente scrisse una volta, in un tema che esplorava la follia di Orlando e le reiterate fughe di Angelica, che la violenza del patriarcato colpisce le donne ma fa moltissimo male agli uomini. Lo spiegava ragionando della disperazione con cui Orlando si scaglia sul cavallo di Angelica. Ricordo di aver colto un coinvolgimento appassionato e una competenza autentica, forse il tema era per lui la Lettera al padre che non aveva (ancora) avuto il coraggio di scrivere. Riconosceva in un personaggio inventato qualcosa che lo riguardava, e commentando il testo proponeva anche sé stesso in forma di metafora. Mi sarebbe piaciuto disporre in quel momento di un romanzo contemporaneo capace di sostenere lo sforzo di un adolescente che cerca nella letteratura sé stesso e la sua storia particolare.

L’ultimo romanzo di Andrea Bajani, L’anniversario, ha un titolo carrèriano e una fascetta su cui campeggia la benedizione dello scrittore francese, maestro di autofinzioni. Il romanzo è, in effetti, un esempio di autofiction: narratore e autore coincidono (così anche l’osservatore che, raccontando, ricostruisce il passato e l’osservato attore sulla scena). Il finale è già nell’incipit, in cui il protagonista si rivede sul pianerottolo dell’appartamento dei genitori, mentre la madre lo accompagna per un ultimo saluto, del tutto inconsueto, «Tornerai a trovarci?». Fin lì è sempre stata una donna immobile, assente, e «poco incline ai gesti di commiato, principalmente perché sopraffatta da una forma di timidezza molto prossima alla negazione di sé» (p. 11). La scena sembra una danza, sarà pure avvenuta ma nel racconto appare onirica ed enigmatica, come fosse il distillato di ripetuti assalti della memoria, un gesto di esorcismo non diverso dall’intento con cui alcuni antenati di epoca preistorica rappresentavano sé stessi e il bisonte su cui speravano di avere la meglio.

In realtà l’immagine delle pitture rupestri mi raggiunge a sorpresa, mentre rileggo alcuni passaggi, ma non mi pare incongrua perché ciò di cui il romanzo parla, la violenza che può annidarsi all’interno delle mura domestiche, e che porta il protagonista alla decisione inedita di divorziare da chi lo ha messo al mondo, ha un precedente in un altro romanzo di Bajani, intitolato Un bene al mondo. Era una storia di uomini e animali, una specie di una fiaba moderna, sorprendentemente capace di verità poetica. Il protagonista è un bambino che porta a spasso e accudisce con amore il suo cane, e questo cane è il suo dolore, lo ha ricevuto appena nato dalle mani di sua madre. La metafora procede sorprendentemente e senza noia per oltre cento pagine. Grazie al cane, il bambino incontra altri esseri umani, ciascuno col proprio dolore, e una bambina in particolare, con cui instaura una delicata amicizia. La sensibilità al dolore degli altri allarga il mondo del bambino, altrimenti stretto entro confini spaziali (la casa, la camera, il paese, la ferrovia, il cimitero, il bosco) che potrebbero soffocarlo, ma è nell’accudire il suo cane-dolore che il bambino trova una compagnia che gli permette di sopravvivere e, a tratti, persino di raggiungere una specie di felicità, anche se non è la felicità che si dovrebbe augurare a un bambino. La legge naturale vuole che anche i cuccioli d’uomo siano oggetto di accudimento, ma qui non succede, e il bambino viene educato a badare da solo a sé stesso e a fare fronte al dolore degli adulti. Chi legge scopre pian piano che il dolore più grande è proprio il loro; sono gli adulti i “cattivi” della storia, imprigionati dalla propria pena e così lontani dall’occuparsene da lasciarla ai piccoli: infatti il bambino si sente investito dal compito incongruo di gestire il dolore del padre, un mastino rabbioso e imprevedibile, che gli somiglia come ogni dolore somiglia al suo padrone.

Quella del bambino è appunto una fiaba moderna: siamo nel mondo della fantasia, la geografia non ha nome, neppure i personaggi hanno un nome e il tempo è vago. Come tutte le fiabe è scritta in terza persona, però chi legge sente che la voce narrante è credibile, che parla di cose che sa. In fondo, non importa nemmeno che l’autore abbia vissuto in prima persona la violenza che racconta, neppure chi legge, per comprendere, ha bisogno di averne fatto esperienza. Abbiamo tutti e tutte una sostanza emotiva che contiene ogni possibilità, come fossimo dotati sin dalla nascita di una forma di sapere che include tutti gli affetti, le forme, gli archetipi possibili, e che ci permetterà poi di riconoscere l’amore e il dolore, la tristezza e la gioia, il coraggio e la paura. E anche la nostalgia.

Tutte le volte tornavano a casa [il bambino e il suo cane, N.d.A.] il bambino si chiudeva nell’unico posto in cui si sentiva al sicuro, che non era un luogo, ma un sentimento, ovvero la nostalgia. Di quel sentimento il bambino aveva tutte le chiavi. La sua porta era l’unica che il padre e la madre non potevano aprire. Era lì dentro che il passato, con tutta la sua amplificata bellezza, accoglieva il bambino. Dentro quel sentimento il bambino passava la maggior parte del tempo. (pos. 125 ed. dig.)

Per Bajani la nostalgia è innanzitutto un posto sicuro, ma forse è anche il posto da cui vengono le storie da raccontare. Me ne accorgo soltanto ora, scrivendone. C’è una telefonata, nell’Anniversario: il padre cerca il figlio perché non accetta la separazione, non la capisce, lo rimprovera di non essersi presentato neppure a Natale. La tensione sale, urlano entrambi, ma la sua furia verbale prende un’espressione bestiale: «Stai a cuccia! Stai zitto! Stai a cuccia, cane! […] Bau Bau! Stai zitto, cane! Bau Bau! […] Come ti ho costruito ti distruggerò!». Ecco la rabbia, ecco il mastino: la fiaba non mentiva.

Tutto sulle madri

Nell’ultimo romanzo di Bajani il bambino è cresciuto, vive lontano dal borgo e dall’Italia, si è chiuso alle spalle un portone, ha messo un oceano fra sé e la rabbia del padre. Può darsi che siano la distanza e l’età ad autorizzare la prima persona con cui racconta. Possiamo certamente definire L’anniversario un romanzo esplicitamente autobiografico, anche se al centro della storia, o dell’inchiesta, starebbe soprattutto la figura della madre, come già nel recente Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini, anch’esso scritto in prima persona. Sono ovviamente lingue diverse, le loro, e non troveremmo in Bajani quella particolare forma di ironia un po’ ruvida che, per paradosso, genera poi in chi legge una speciale affezione per il personaggio detestabile (oltre al sospetto che il ritratto crudele sia in fondo una forma di riconoscimento e di amore); tuttavia mi pare che i due romanzi condividano almeno la destrutturazione dell’idealtipo materno accudente e una scrittura mai banale, che trasforma il ricordo (quel risuonare degli affetti tipico del memoir) in un’operazione di analisi spietata e poco incline al patetico. Accomuna entrambi i romanzi anche il rapporto con il tempo, dato che eventuali traumi o microtraumi sono proposti con una distanza temporale che il titolo di Bajani rimarca: la scrittura inizia infatti a dieci anni dalla decisione di separarsi una volta per tutte da una coppia di genitori disfunzionali, il cui carico di nevrosi e incompetenze affettive ha prolungato la sua ombra sul protagonista e io narrante anche in età adulta.

Anche il romanzo di Franchini è un romanzo dell’età matura: ma nel momento della scrittura Angela, la madre, era morta da diversi anni, e lo scrittore lavorava su qualcosa che in quel momento apparteneva esclusivamente alla coscienza di coloro che l’avevano conosciuta, amata o detestata, subendone le turbolenze. In questo, forse, sta la maggior differenza di Bajani: dei suoi genitori conosciamo solo ciò che riguarda il passato, non sappiamo se oggi sono vivi o morti, e confesso di aver oscillato tra finzione e realtà, immaginando la possibile reazione alla scoperta di essere diventati i personaggi di un romanzo, e quei personaggi, all’interno di quel dramma.

In recente contributo pubblicato sulla rivista culturale “Limina”, Paolo Di Paolo ha proposto una critica piuttosto dura al proliferare di narrazioni esplicitamente autobiografiche che sembra dominare il mercato editoriale. L’argomento principale di Di Paolo è che l’autofiction rincorra la tendenza voyeuristica che riconosciamo nei social e nel gossip; ma quando poi, legittimamente, avanza l’ipotesi che dire “io” comporti il rischio di una rappresentazione tirannica, che non domanda consenso a parenti e amici per la scelta di fornire solo la propria versione dei fatti («di stampare e promulgare quella, senza troppa preoccupazione per le ferite che può aprire o riaprire in altri»), il suo pensiero va a due  romanzi vecchi di parecchi decenni: «Il figlio di Lalla Romano chiuse i rapporti con sua madre dopo il libro che lo coinvolgeva, Le parole tra noi leggere. Il cugino di Karl Ove Knausgård protestò con lo scrittore, gli spedì le sue contumelie irridendo anche il titolo dell’imponente romanzo autobiografico, La mia battaglia, e mise per oggetto dell’email il seguente: “La tua battaglia del cazzo”».

La tirannia della prima persona mi pare comunque un tema interessante. In effetti, leggendo L’anniversario, mi sono chiesta se la scrittura di Bajani, che porta a compimento una lunga separazione, non trattenga ancora qualcosa di quel legame: una spinta a cercare coram populo giustizia, forse anche vendetta, certamente liberazione. Mi domando però se non varrebbe lo stesso per la terza persona, che pure colloca la storia in un luogo o in un tempo altro, oppure in nessun luogo e nessun tempo. Non si saranno riconosciuti i personaggi di Un bene al mondo? E non ci capita di leggere anche le Operette morali alla luce dell’anaffettività materna, dell’invadenza di Monaldo, della salute cagionevole o degli impossibili amori?

Il bisturi grammaticale, l’altra via del romanzo

Le scritture in prima persona sono da sempre nella nostra tradizione letteraria. In prima persona si esprime Petrarca, cui dobbiamo l’imprinting fondamentale della soggettività fatta poesia, l’invenzione dell’io lirico, la rappresentazione in soggettiva di luoghi e persone: il fantasma di Laura, quel venerdì santo del primo incontro, che in realtà cadeva di lunedì, il locus amoenus a Valchiusa, tutto parla del segreto spazio della coscienza del poeta. Se ne potrebbe dedurre che dire io implichi uno sguardo lirico – e Bajani è effettivamente anche poeta – ma sappiamo che anche Primo Levi impiegò la prima persona per raccontare l’inferno suo e di tutti, in Se questo è un uomo. Lo fece rappresentando la sua unica persona in due personaggi e due voci: l’osservatore scientifico che guarda al lager come a un esperimento laboratoriale (inseguendo la particella elementare del male, come altri cercano l’origine della vita) e la vittima, il testimone più prossimo di quel male. A me pare che sia questa anche la via dell’ultimo Bajani, che ne L’anniversario riflette sul suo privatissimo inferno. Perciò chi legge non troverà un’esposizione viscerale del trauma: a tenere la narrazione lontana dal pathos cui una storia di violenza familiare può condurre è una tensione conoscitiva, che raffredda la materia incandescente (già placata dalla distanza temporale) e permette il tentativo di una riappropriazione oggettiva.

Il che comporta un’operazione delicata, richiede un’attitudine chirurgica specifica, una freddezza della mano. Richiede lentezza e precisione, un bisturi grammaticale. Cioè puntare le parole nelle porzioni non ancora compromesse. Individuarle, isolarle dal resto, e poi incidere, fare male con nettezza. Scorporare mia madre da mio padre significa, letteralmente, sottrarla all’invasione con cui la figura di mio padre si è imposta sistematicamente nel nostro immaginario, bruciandoci la retina con la fiamma ossidrica dell’affermazione vittimaria di sé, e compromettendo senza rimedio la visione. Lasciando cioè al buio la visione. Prima fra tutti lei, già predisposta a scomparire. Se c’è pietà filiale, in me, è la spietatezza di questo tentativo di sottrazione al buio, l’atto crudele di portarla in piena luce. (p. 22)

Questa particolare declinazione del racconto autobiografico permette un’altra obiezione alle pur sensate riflessioni di Paolo Di Paolo: non necessariamente “dire io” implica una rinuncia al romanzo, e al romanzo deduttivo in particolare. Scrive infatti Bajani:

potrei anche dire che non ho mai scritto un romanzo prima d’ora. Un dispositivo, cioè, che dia corpo a un universo di cui non sono stato testimone diretto se non parzialmente. Un dispositivo che produca fatti, pensieri e persino una memoria del tutto differente, alternativi, generati nell’atto dello scrivere. Conseguenza dunque più dell’invenzione che del ricordare. In cui mia madre esiste indipendentemente persino da sé stessa (pp. 22-23).

La madre di Bajani è a tutti gli effetti un personaggio e, in quanto personaggio, la sua consistenza si direbbe persino maggiore di quanto non sia stata la sua esistenza reale.

I danni del patriarcato, secondo lui

Che scrittori maschi pratichino la prima persona, al modo di Bajani o di Franchini, mi pare interessante; mi colpisce che attraverso la scrittura provino anche a comprendere meglio (a includere) le loro madri, e di rintracciare il punto della storia familiare in cui qualcosa ha interrotto il flusso naturale dell’amore e della cura. È una ricerca che coinvolge profondamente la facoltà immaginativa. Non si può proprio dire che non serva immaginazione nell’esplorazione di una figura di donna tanto poco propensa a esistere, come la madre ritratta ne L’anniversario. La si scopre, se non complice, quantomeno invischiata nelle dinamiche di una relazione cupa, violenta, improntata su un’ossessione del controllo prossima al totalitarismo. Il marito-padre non si accontentava di sorvegliarne i comportamenti, pretendeva un dominio sulle intenzioni e sui pensieri. Sta qui la maggior violenza, quella che appunto chiede una rinuncia alla propria interiorità e la scelta, in certo modo complice, di assecondare il marito anche in sua assenza e di percepire come un tradimento persino le conversazioni telefoniche con la madre o con il figlio lontano.

Allora ci si chiede: un regime familiare totalitario nasce dall’incastro di due nevrosi, è espressione di un sacro legame tra vittima e carnefice, che sfuma i confini dell’uno e dell’altra? In che misura la violenza che si consuma tra le mura di un appartamento viene dal modo in cui l’inconscio collettivo entra nello spazio privato; e in che misura è invece una questione privata (intrapsichica e relazionale) con addentellati nella storia e nella cultura di tutti? Soprattutto: esiste un modo non violento per interrompere la violenza? Un romanzo, però, non è un saggio di sociologia, non offre risposte, il suo merito è che muove domande; se funziona, chi legge lascia fuori dal romanzo ciò che non è del romanzo e si lascia condurre dall’immaginazione nello spazio in cui logos, pathos ed ethos consistono.

C’è una scena di violenza concreta, fisica, a cui il figlio non assiste ma che riconosce nella stanza sottosopra, negli occhiali rotti della madre. «Ricordo che aprii la finestra della cucina,» scrive, «che fu un sollievo, perché vederci, me e mia madre, specchiati dentro il vetro, era troppo. Aprii, di fatto, per lasciarci andare» (p. 68). Sarà valso a qualcosa quel gesto di aprire la finestra per scacciare l’immagine, e poi l’atto apotropaico di raccontarlo scrivendone, nero su bianco? Sarebbe bello pensare che la scrittura abbia anche il potere di ammansire il dolore.

Le osservazioni di Di Paolo non sono mai fuori luogo, in generale è vero che i social minacciano (o hanno soppiantato) altre forme di lettura ed esiste il pericolo concreto che una pratica narcisistica della prima persona divori lo spazio dell’immaginazione trasformando anche la letteratura e i romanzi; senza immaginazione, anche la narrazione corre il rischio di un punto di vista tirannicamente ombelicale, chiuso all’incontro con le vite immaginarie che non sono la nostra. Ma non sarà tanto una questione di pronomi, perché quel che cerchiamo leggendo, io credo, è che il racconto produca in chi legge una piccola crepa, e che da questa trapeli una verità altra, mai pensata prima, tangenziale alle nostre certezze, persino opposta, oppure già intuita, sì, ma senza parole, dunque senza una forma che la possa fissare nel tempo. E questo capita ancora, per fortuna.


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Elena Rausa

Docente di Lettere nei Licei e Dottoressa di Ricerca in Italianistica. Ha pubblicato tre romanzi: “Le invisibili” (Neri Pozza, 2024), “Ognuno riconosce i suoi” (Neri Pozza, 2018), “Marta nella corrente” (Neri Pozza, 2014).

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