Nell’ultima edizione di Bookcity Milano, ho partecipato a un incontro che proponeva di riflettere su scrittrici e “personagge” in un’ottica di Controcanone, secondo la meritoria proposta di Johnny Bertolio, che mi ha coinvolta insieme a Rossella Kohler e Valeria Palumbo. Tra tanti spunti, mi ha colpito un’intuizione di Valeria Palumbo, che provo a parafrasare così: sul «Corriere della Sera» Lorenzo Cremonesi, reporter di guerra, ci porta sul fronte ucraino e il suo racconto coinvolge, ma poi a toccarci profondamente sono le parole della giornalista Marta Serafini, che, dalla medesima linea del fronte, si volta e sposta l’attenzione su ciò che sta alle sue spalle, dietro lo spazio dello scontro, ossia le persone. L’intuizione sullo sguardo chiama in causa lo spazio, la dialettica tra centro e periferia, ma anche quella tra vedere ed essere viste, che palesa appunto il carattere anche “geografico” del discorso di genere (la geografa e scrittrice Rossella Köhler si definisce “geofemminista”).
Le donne non sono mai state una minoranza numerica, ma millenni di riduzione degli spazi a ciò che è fuori dalla scena nobile della letteratura le (ci) hanno rese esperte delle zone di confine, luoghi da cui si ha una visione di necessità diversa da quella di chi sta al centro, tuttavia poco presente in una tradizione letteraria a lungo quasi esclusivamente maschile; d’altro canto, a fronte di una ridotta presenza autoriale, le donne hanno goduto di una larga rappresentazione scenica in qualità di “personagge”, e questo le/ci ha rese altrettanto esperte dello sguardo altrui.
Si potrebbe dire che nel “mondo scritto” sia accaduto alle donne (più descritte che scrittrici) ciò che Jean Paul Sartre riassume così bene in L’essere e il nulla (Est, Milano 1997, trad. G. del Bo, p. 414): «Lo sguardo d’altri forma il mio corpo nella sua nudità, lo fa nascere, lo scolpisce, lo produce così com’è, lo vede come io non lo vedrò mai. L’altro possiede un segreto: il segreto di ciò che io sono. Mi fa essere e con questo mi possiede, e questo possesso non è altro che la coscienza di possedermi».
Da qui vorrei partire per una riflessione che si collega al più tecnico e, in genere, meno appassionante tema di didattica della letteratura: narratore e punto di vista.
Transitività dello sguardo: ut pictura poesis
C’è una fotografia molto famosa che Henri Cartier-Bresson scatta nel 1948, e che mostra la preghiera silenziosa di quattro donne dal capo coperto a Srinagar, Kashmir (una riproduzione è visibile sul sito dell’International Center of Photography di New York ed è visibile qui). Le donne sono colte di spalle, in un contegno e un abbigliamento che rende impossibile riconoscerne l’individualità: anonime, sono chiamate a rappresentare con il proprio corpo l’atto stesso del guardare, vero soggetto dell’immagine. Abbiamo dunque un fotografo che contempla quattro donne che a loro volta contemplano il paesaggio (la natura). Di più: ci siamo noi, che contempliamo un fotografo che contempla quattro donne il cui sguardo si perde lontano – non importa che il fotografo non sia più presente al momento della nostra visione, la sua assenza è la stessa di Manzoni, di Verga, di Morante, ma il fantasma risorge ogni volta che leggiamo o guardiamo.
Nella foto, il paesaggio-oggetto originario dell’azione di guardare è lo sfondo, ma lo sfondo si dissolve fin quasi a scomparire. Perciò, se volessimo riprendere quel che dice Roland Barthes ne La camera chiara e giocare con le sue parole, potremmo dire che le donne della foto sono lo spectrum, ossia il “morto che ritorna”, poiché, grazie allo scatto, le persone ritratte sono riprodotte all’infinito, benché l’istante in cui sono state ritratte, perduto per sempre, non possa ripetersi esistenzialmente; ma il paesaggio è qualcosa di ancora più lontano, al punto che non possiamo non chiederci cosa guardano le donne rappresentate. E quindi: cosa pensano? cosa provano? cosa le ha portate fin lì? Non vale lo stesso per tutte le donne raccontate a parole? Non sono in fondo Beatrice e Laura i fantasmi silenziosi dei loro poeti?
Se dalle immagini passiamo alle parole, dobbiamo riconoscere che gli esseri umani sono immersi nelle storie e che l’arte del narrare è infinitamente più vasta di ciò che approda alla forma scritta, perché fin dalla preistoria raccontare è il modo umano di entrare in relazione: l’animale “politico” è un affabulatore, un flusso narrativo precede, accompagna e anche ripercorre l’agire, nell’immaginazione prima e nel racconto poi. Nella vita reale, quando qualcuno o qualcuna racconta una storia che non parla di sé, usa la terza persona per raccontare ciò che ha visto, ascoltato, ricevuto oppure che si è inventato. La terza persona è la via attraverso cui si instaura una triplice relazione che mette in comunicazione chi narra, chi è narrato e chi ascolta o legge.
Se dal piano dell’esperienza passiamo a quello letterario, osserviamo che la narrazione occidentale nasce in terza persona con Omero (pur inglobando diverse prime persone), e che da sempre la terza persona regala alla pagina una forte autorevolezza. Se Manzoni si avventura nei pensieri dei personaggi, gli si presta molta più fiducia di quanta se ne presta al personaggio stesso narratore che dice io e a sua volta racconta di sé e degli altri: è l’ipse dixit, il principio di autorità che associa il narratore all’autore e assegna a entrambi lo stesso prestigio. Ed è un fatto che tale prestigio sia stato, con poche eccezioni, maschile. Dunque, di nuovo, cosa pensano davvero le donne ritratte?
La Lupa, una strana terza persona
Per capire l’autorevolezza della terza persona, e per constatare come essa resista anche ai cambiamenti stilistici del modernismo, provo a riferirmi alla rivoluzione del romanzo che in Italia arriva da un autore siciliano, dunque periferico, ma molto ben nutrito all’avanguardia narrativa dei naturalisti francesi: Giovanni Verga.
Il padre del Verismo morì senza il meritorio tributo che a lui e al sodale Luigi Capuana è dovuto per la sprovincializzazione culturale operata anzitutto sul piano della tecnica narrativa, eppure la scelta di raccontare una realtà regionale, periferica appunto, si univa a linguaggio e strutture per l’epoca davvero rivoluzionarie: impiego non più saltuario del discorso indiretto libero, eclissi del narratore, regressione dell’autore, tutti strumenti “finzionali” al servizio della grande illusione, vale a dire l’opera come se si fosse fatta da sé.
La mimesi del reale che non mostri il suo artificio suona quasi come un atto di hybris, ed è evidentemente illusoria. Verga, a sua volta fotografo, doveva sentire forte la spinta di adeguamento del linguaggio narrativo alla nuova temperie culturale. Dall’invenzione della fotografia, ci si misurava con effetti estetici e psicologici inediti, poi amplificati dall’illusione cinematografica. L’arte, tuttavia, non è priva di implicazioni etiche per chi ne fruisce: se si afferma l’impersonalità e se, per conoscere la realtà concreta di un villaggio della Sicilia rurale del XIX secolo, chi legge non ha altra voce che quella del narratore popolare, se non trova una guida, come don Lisander, che aiuti a comprendere il mondo in tutte le sue pieghe morali, allora la responsabilità del giudizio è tutta sua – vale a dire che chi legge deve chiedersi a cosa sta prestando fiducia, non meno di quanto dovrebbe fare nella vita reale, di fronte a ciò che direttamente vede o sente.
Arrivo così al punto che fa anche della questione di genere una questione di punti di vista (focalizzazioni, in senso tecnico). Leggendo Rosso Malpelo si dubita della voce narrante e ci si commuove perché Malpelo incarna l’orfano, l’escluso, il bambino ribelle perché privato dell’essenziale: la critica ha abbondantemente illustrato il concetto di straniamento e la categoria accompagna di certo qualsiasi lezione sul piccolo caruso siciliano.
Al contrario, nel caso de La Lupa (novella che compare nella stessa raccolta, Vita dei campi, 1880), è facile che chi legge tenda a fidarsi del narratore e che la terza persona conservi intatta la sua autorevolezza, perché la protagonista è figura scandalosa e respingente. La sua stessa esistenza mette in crisi un ordine che, al grado zero nella sua semplicità, si manifesta nella realtà rurale e analfabeta del villaggio siciliano, ma che non è assente nel mondo evoluto e moderno in cui viviamo anche oggi. L’empatia, gran dote degli esseri umani, non scatta perché è una dote subdola, sono altri i personaggi con cui il narratore ci invita a empatizzare. Perché questa volta lo seguiamo?
Nel caso de La Lupa, la voce del narratore popolare non produce un significativo straniamento: la terza persona resta autorevole anche se costruita attraverso una somma di pregiudizi e stereotipi, perché pregiudizi e stereotipi sono la traduzione meschina di archetipi ancora fertili che sarebbe opportuno illuminare. Possiamo riconoscere e mostrare nel personaggio di gnà Pina, così stretto nel soprannome selvatico di Lupa, l’archetipo sempre vivo della Circe che minaccia il maschile e trasforma gli uomini in porci, della strega che con i suoi occhi neri e il pallore morboso richiama la morte, della creatura diabolica che rompe l’ordine e l’unità della famiglia e della comunità, da ultimo il peggiore: la madre-matrigna, povera d’amore, predatrice nei riguardi dei figli delle altre, danno per quelli suoi che non ama e distrugge (come Medea o Lilit). Ma gli archetipi possiedono la polisemia tipica del mito, e andrebbero evocati per intero.
Dalla parte della Lupa nella Giornata contro la violenza sulle donne
Lavorare in classe sul racconto di Verga significa confrontarsi con la vitalità di un’interpretazione negativa che copre e nasconde altri elementi dell’opera, che è il racconto di un’ossessione erotica, certo, ma di un’ossessione quanto meno condivisa dal genero e amante Nanni. La forza distruttrice e autodistruttiva del personaggio esprime la deriva di un sentimento (verso di sé prima che verso l’altro) deriso e umiliato: la donna si offre all’amante assassino al culmine di una serie di rifiuti, esclusioni, gabbie, ma ciò che la rendeva dal principio estranea al suo mondo è l’irriducibile ribellione alla privazione della libertà. Per il mondo che la circonda, gnà Pina non dovrebbe poter disporre di sé, perciò l’ostinata libertà fa di lei l’origine di tutti i mali.
Il narratore popolare non si pone il problema della responsabilità del sacerdote che, si dice, perde l’anima per effetto della molesta tentazione, non si chiede neppure se sia sensata la riduzione della libertà di movimento che riguarda ogni buona donna nell’ora tra vespero e nona, non manifesta alcuna simpatia per colei che è respinta anche attraverso una gestualità terribile (il segno della croce compiuto dalle altre donne), non mette a confronto l’innamoramento e il desiderio di gnà Pina, con il matrimonio, scelto per mero calcolo, tra sua figlia Maricchia e il giovane Nanni, oggetto della folle passione.
Di più: il narratore afferma, di fatto, l’idea che la natura selvatica e anarchica del personaggio sia per definizione mortifera e rischia di convincere anche noi moderni che vi sia, nel carattere del personaggio, la ragione della sua stessa morte e che la rovina della povera Maricchia si debba solo alla scellerata madre e non (quanto meno anche) al mondo in cui entrambe vivono reiette.
Ma non succede così ancora oggi? Mentre leggevo in classe la novella le forze dell’ordine arrestavano a Roma il responsabile di un triplice omicidio, e la categoria femminicidio non veniva scomodata quasi da nessun giornale, perché le donne, prima che donne (meglio: anziché donne), erano prostitute, e due di esse, avendo perso nell’anonimato il diritto sancito dall’articolo 6 del Codice Civile, erano semplicemente due cinesi, con tutto il coté elusivo che la scelta di evidenziarne l’etnia comporta.
Ho chiesto a studenti e studentesse di raccontare i personaggi della novella tre volte: innanzitutto in terza persona con le parole esatte del narratore, quindi con parole proprie, in una sintesi fedele a quel punto di vista esterno (ancora in terza persona), infine impiegando la prima persona. La scoperta, interessante per me, è che le prime persone più generose nei confronti di gnà Pina siano uscite dall’immaginazione di pochi ragazzi, agili nel comprendere la potenza del pregiudizio e della coercizione, e che a frenare gli altri e le altre sia stato invece un certo ossequio nei riguardi dell’analisi del libro di testo, che sciattamente (ma non innocentemente) scomoda il termine ninfomania – circostanza che ha almeno avuto il merito di aprire un supplemento di indagine lessicale sui termini che riducono le persone a una parte del corpo.
La discussione in classe ha anche messo in evidenza come, forse a dispetto della volontà del suo autore, questo racconto di grande successo, portato sulle scene dall’autore stesso e poi accolto dal cinema, abbia contribuito, fra altri, a consolidare l’immaginario di un sud primitivo e tribale, che all’epoca giustificava anche l’enormità del fatto di cronaca, il femminicidio cui allude il finale. Per bilanciare, abbiamo provato a “smentire” (o integrare) il Verga siciliano con un Verga lombardo: Tentazione! (dalla raccolta Drammi intimi, del 1884), è una novella il cui titolo richiama un termine che troviamo anche nel racconto La Lupa, dove Nanni spiega la sua ossessione al brigadiere che lo ha convocato a seguito delle pressioni di Maricchia, moglie e figlia tradita e umiliata.
Nel racconto lombardo tre giovani lasciano Milano in tramvai per una giornata fuori porta; pur nella distanza cronologica, sono simili ai giovani di tutti i tempi: incoscienza, vitalità, allegria, goliardia, qualche bicchiere di troppo… camminano scanzonati sull’orlo di un baratro, tentati dal baratro pur di quanto saranno poi disposti ad ammettere con sé stessi.
La tragedia è già nelle prime righe, e il narratore (impersonale anche qui) la denuncia en passant con i termini pregiudizio e rovina, che offrono l’unica chiave di lettura dei protagonisti: ossia, che lo stupro di una giovane contadina, il suo assassinio e da ultimo il macabro occultamento del corpo sono, l’effetto di una concatenazione di necessità fatali, perché fatale è l’incontro con la donna, fatale la sua bellezza (come per la Lupa, gli occhi, la bocca), fatale il suo rivendicare un diritto al movimento nonostante l’ora tarda, alla solitudine, alla indisponibilità.
Questa seconda lettura è stata particolarmente disturbante, non solo per il tema e per il carattere della vittima, non connotata dallo stigma della femme fatale, ma anche perché l’assenza di un Sud tutto natura e passione produce un orizzonte d’attesa meno inficiato dal pregiudizio negativo. Ci si chiede: sono loro, ma potremmo essere noi?
Mi pare che oggi il ripensamento del canone debba passare anche da una riflessione su ciò che favorisce o impedisce la transitività e rappresentatività della prospettiva femminile, così che quegli stessi testi che altre generazioni hanno accolto in modo acritico incontrino una nuova possibilità comunicativa.
A differenza di Zola, Verga non credeva nel progresso umano e sociale. Il suo pessimismo è persino superiore a quello di Leopardi, che da ultimo riconosceva almeno una possibilità d’amore fraterno. Però il riscatto che la storia nega ai personaggi verghiani (alle “personagge” particolarmente) può venire dalla potenza dell’immaginario attivato dalla scrittura poetica.
Si è detto che la terza persona mette in scena di un flusso di relazioni (tra chi racconta/descrive, chi è descritto e chi riceve racconto/descrizione): ebbene, anche quando non si palesa, il narratore è un personaggio e, una volta che si sia pronunciato, nessuno può cambiarne il pensiero, però ci sono lettori e lettrici che possono imparare a farsi domande. Spesso, proprio in quelle domande arriva la voce negata a tante potenziali prime persone che (come gnà Pina, detta la Lupa, e come l’anonima contadina di Vaprio) meritano d’essere ascoltate.