Quel che gli studenti fanno veramente. Osservazioni di un insegnante

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Che cos’è il “lavoro degli studenti” o “travail scolaire”, se non strategie per conformarsi a istanze eterodirette prescritte dagli insegnanti? Riceviamo e pubblichiamo alcune osservazioni di un docente di liceo, nate dall’osservazione delle sue classi negli ultimi due anni.

La sociologia dell’educazione francese ha coniato i due concetti di “travail scolaire” (Nicolas Sembel), e di “malentendu scolaire” (équipe ESCOL, Stéphane Bonnery). Il presupposto metodologico che ha condotto alla nascita di entrambi i concetti è l’osservazione diretta del lavoro effettivamente compiuto dagli studenti in classe; il risultato che accomuna i due diversi filoni di ricerche è che ciò che gli studenti fanno veramente è ciò che risponde alle richieste dell’istituzione scolastica e si discosta abbastanza dagli obiettivi attesi nelle programmazioni didattiche. In sostanza, il “lavoro degli studenti” o “travail scolaire” consiste nell’adozione di strategie per conformarsi a istanze eterodirette prescritte dagli insegnanti.

Questo articolo è stato elaborato sulla base di osservazioni degli ultimi due anni fatte nelle mie classi (insegno in un liceo classico e linguistico). L’impressione è quella di aver navigato in superficie, e di aver ottenuto dei riscontri che richiederebbero ricerche più approfondite (che un insegnante ha difficoltà a fare, soprattutto nelle sue stesse classi), con l’utilizzo, ad esempio, della tecnica dell’intervista in profondità.

Ripetere

Il travail scolaire – da quel che vedo io – è completamente dominato, nel quotidiano, dalle interrogazioni e dai voti. Si formano dei gruppi, per affinità e amicizie, rivolti a confrontarsi sull’entità del lavoro da svolgere, su ciò che è effettivamente richiesto dall’insegnante, al di là della lettera delle pagine assegnate, e a svolgere il lavoro di “ripetere”. Questo “ripetere” l’un l’altro i contenuti di studio occupa tutti gli interstizi del tempo scolastico d’aula, nel momento in cui gli studenti si trovano sotto pressione. A volte si fa capire all’insegnante che c’è urgenza di ripetere per una scadenza che giunge all’ora successiva. In alcuni casi, tale attività tracima fuori dagli argini, e si afferma di fatto come la norma.

In una mia classe di linguistico, ho un gruppo formato da quattro ragazze e un ragazzo che si distingue per l’atteggiamento educato e rispettoso verso gli insegnanti, modi privi di ogni ostentazione e turbolenza, una certa timidezza tipica di ragazze e ragazzi “perbene”, un accento italiano del tutto privo di sfumature dialettali – caratteristica che li distingue dalla maggioranza dei compagni e delle compagne, più organica alla “romanità” e alle subculture giovanili, e che questi cinque li apostrofa con “loro”. Il gruppo ha conquistato una completa autonomia organizzativa costituendo un gruppo di studio indipendente che svolge con continuità il proprio lavoro di “ripetere” durante l’orario delle lezioni. Si ripetono reciprocamente gli argomenti oggetto di interrogazione, condividono ciò che è più chiaro e ciò che è più difficile ecc. A volte, autorizzati dalle insegnanti, li si vede nell’atrio della scuola, altre volte lavorano nel corso delle lezioni, nel ripetere gli argomenti di studio. Richiami e discussioni anche nel consiglio di classe sono stati inutili.

Il gruppetto dei “loro” costituisce la forma compiuta di una modalità di organizzazione dello studio che in altri casi si manifesta in modo meno visibile. Ho pensato che sembra quasi essere una forma di critica tacita nei confronti della “lezione frontale”, una sanzione della sua inutilità rispetto a ciò che è veramente richiesto dalla scuola, cioè essere preparati e ottenere il voto.

Io ho sempre registrato un effetto di “scrematura” scaturire dalle lezioni frontali. Rimane un gruppo minoritario della classe che prende sempre appunti, li utilizza come materiale di studio, e sono solitamente le studentesse e gli studenti che prendono i voti più alti. Questo può comportare sia situazioni in cui tenere una lezione è difficile, sia situazioni in cui, invece, nell’aula regnano tranquillità e calma. Ma il fatto che gli studenti siano tranquilli non vuol dire necessariamente che seguano effettivamente le lezioni frontali.

Interrogazioni

Come si diceva, le interrogazioni focalizzano su di sé l’attenzione durante le giornate scolastiche. Gli studenti chiedono che domande hanno fatto gli insegnanti, si confrontano ed esprimono critiche nei confronti di presunti arbìtri e trattamenti di favore: «Ha fatto una sola domanda e gli ha messo 5». Emergono anche repertori di tecniche per fare bella figura: «Sulle cose che non ho studiato mi preparo delle frasi minime… almeno se me lo chiede qualcosa gli dico» (studentessa di quinto anno, molto studiosa).

Il fatto che la cosa più importante sia non rimanere “scoperti” su nulla, non fare “scena muta”, è confermato dalla letteratura sociologica. Nelle “classes préparatoires” descritte da Bourdieu, in cui non si chiede solamente di sapere gli argomenti, ma si richiede anche di saper improvvisare dei discorsi in stile retorico, emergono, dalle testimonianze degli studenti, delle formule e dei canovacci (simili a quelli della “commedia dell’arte”) per riuscire a parlare di qualsiasi argomento non sapendone in realtà nulla. La differenza, nelle mie classi, riguarda soltanto il livello di “virtuosismo” richiesto dall’istituzione, non l’arte di ben figurare in sé stessa.

La postura mentale dell’interrogazione si riflette anche su attività che non hanno nulla a che fare con essa. Organizzo un lavoro “a coppie” nel quale gli studenti devono, attraverso la lettura del loro testo di studio, individuare le ricadute economiche dello scisma anglicano. Faccio rispondere alla fine del lavoro tutti, per verificare la comprensione e su quello articolare una spiegazione, ma senza emettere alcun giudizio. Bene, una ragazza, per mostrarsi preparata, anche se non aveva svolto il lavoro, comincia a raccontare nei minimi particolari la storia di Anna Bolena, Enrico VIII e Caterina d’Aragona.

In un’altra classe, chiedo agli studenti di rispondere brevemente per iscritto alla domanda «Che cos’è la Restaurazione?» (un tema a caso). Sanno benissimo che non è per dare voti ma per verificare come sanno riassumere l’essenziale della lezione precedente. Quando chiedo di leggere le risposte, scopro che sono andati, col cellulare, su un sito (probabilmente Wikipedia o Studenti.it) e hanno copiato la definizione là riportata. Due giorni fa è successa la stessa cosa.

Il sistema è tale da incitare a seguire sempre la via più breve che consenta l’adempimento della consegna. In una classe di liceo classico, in cui si percepisce la presenza nutrita di ragazze e ragazzi che provano interesse per lo studio e hanno interessi culturali personali, chiedo in un compito scritto (con voto) di fare un confronto tra Platone e Aristotele, individuando punti comuni e differenze. Mi ritrovo a leggere – in modo insolitamente diffuso – risposte che seguono la stessa struttura come a ricalco. Alla mia sorpresa, rispondono che sul manuale di studio – cosa di cui non mi ero accorto – c’è uno “specchietto” delle differenze e dei punti comuni tra Platone e Aristotele. Siccome sono studiosi, lo avevano imparato, e hanno risposto dicendo quello che c’era scritto sullo “specchietto”.

I ragazzi e le ragazze non è che siano insensibili all’ingiunzione del docente di rielaborare “con parole proprie” quanto hanno studiato. Ma, a parte pochi casi in cui si avverte una ricerca della “sintesi” personale, si hanno riproposizioni quasi letterali della pagina studiata, o sintesi che a volte sistemano frasi selezionate dai testi letti, o “scorciatoie” attraverso il ricorso a siti internet che producono riassunti.

Aggiustamenti e disfunzioni

La mia esperienza di ciò che effettivamente fanno gli studenti a scuola smentisce senza dubbio il pregiudizio che nella scuola di oggi si lavori poco. Il lavorio ansioso attorno alle interrogazioni costituisce la norma, non l’eccezione, del tempo scolastico. Il “bachotage” (ovvero lo studio frenetico e intensivo) sembra essere, se non totalizzante come succede sovente agli studenti asiatici e delle citate classes préparatoires, un fenomeno piuttosto centrale della vita della scuola. Il risultato sono le ricorrenti lamentele degli studenti, che avrebbero troppo da studiare e troppo poco tempo per farlo.

È vero che si determinano – attraverso relazioni informali e micro conflitti d’aula – delle soluzioni di compromesso. Gli studenti, nella maggioranza dei casi (anche se non in tutti i casi), ottengono le “interrogazioni programmate”.

A volte, il sistema collassa: o perché la turnazione delle interrogazioni programmate non funziona (nel senso che chi è di turno si tira fuori), il che si aggrava nel momento in cui l’insegnante dichiara che se manca chi è di turno deciderà a suo piacimento chi interrogare (ottimo per scatenare accuse fra studenti, uno dei fattori di liti più frequente nelle classi), o perché, in determinate situazioni (può succedere due o tre volte l’anno), la classe si assenta nella quasi totalità. Queste assenze collettive sono, in alcuni casi, dei veri e propri “scioperi” nei confronti dell’insegnante, soprattutto quando la prova potrebbe abbassare la “media” dei voti.

Ovviamente, nel sistema i voti giocano una parte decisiva. Per gli studenti, ciò che conta più di tutto è ottenere quella media aritmetica che consenta di avere garantita la promozione senza debiti. Ma il voto, al di là della sua dimensione utilitaristica, sembra assumere anche una valenza morale, che ha a che vedere con l’immagine di sé: «Di scienze o di storia non mi importa, ma un 9 in filosofia per me conta» (studentessa di terzo anno, con “motivazione intrinseca” allo studio della filosofia). Accade anche che, se il voto alla prova precedente era 8, e alla prova successiva è 7 e mezzo, la cosa appaia come una tragedia: ci si lamenta ad alta voce con i compagni di classe che il compito è «andato male», si guarda storto il docente come se avesse fatto un torto personale.

Vi sono ricadute negative sull’organizzazione del lavoro d’insegnamento-apprendimento. Tendenzialmente, gli studenti, proprio laddove la valutazione assume un andamento “tranquillo” (ovvero, nessuno deve “recuperare”, anzi la media generale è abbastanza elevata), non vogliono mai fare verifiche ulteriori rispetto alle due a quadrimestre per ciascuna materia che, nella testa di tutti gli attori scolastici, hanno finito per costituire il “congruo numero” previsto dalla legge. La ragione è che una prova di verifica ulteriore possa abbassare la media aritmetica dei loro voti, che l’8.6 possa diventare 8.4.

L’imperio dei voti, e l’atteggiamento utilitaristico che ne deriva, va considerato come una ragione – se non l’unica, la principale – dei fenomeni fraudolenti a scuola. Una controprova di ciò sta nel fatto che può accadere che studenti e studentesse che vengono elogiati, nel corso dei consigli di classe, per la loro partecipazione e per il loro spirito collaborativo, poi vengano sorpresi a copiare. Mi è capitato di avere una classe che all’esame di Stato ha preso voti, in media, piuttosto alti, e che risultava essere, al giudizio unanime del consiglio, senza dubbio una “buona classe”. Metà di loro, nel corso dei miei tre anni d’insegnamento in quella classe, li ho sorpresi almeno una volta a copiare. Se ne deve concludere che si trattava di studenti maestri dell’inganno? La realtà mi sembra essere più ambivalente: si trattava senza dubbio di “buoni studenti”, ma indotti dal sistema a considerare dei trucchi per ottenere i voti come una soluzione accettabile.

Conclusione

Senza dubbio, da quel che ho potuto vedere, nel “travail scolaire” dei miei studenti i due aspetti, della metodologia basata sulla “lezione frontale” e della valutazione basata sull’assegnazione di un voto numerico, vanno considerati come due facce della stessa medaglia, come due pilastri di un sistema, ed è impossibile dire quale dei due sia più essenziale nel definire le caratteristiche salienti del sistema stesso.

È stato pubblicamente contestato da organizzazioni studentesche, con riscontri anche sulla stampa nazionale, il carattere “ansiogeno” del sistema: se la nevrosi (randomica, occasionale) è la norma, può diventare in alcuni casi psicosi. Tuttavia, l’elemento più importante mi sembra un altro: è conseguenza fatale del sistema di insegnamento-apprendimento qui descritto che l’elaborazione di “strategie” per far fronte al lavoro scolastico non divenga essa stessa oggetto di insegnamento-apprendimento. Esse sono piuttosto diversificate: dalla decisione di seguire le lezioni facendo domande, interventi personali e prendendo appunti alla pianificazione metodica dello studio in vista delle scadenze, fino a giungere nella “strategia della disperazione” del rinvio o addirittura del “trucco”. Tali strategie sembrano derivare direttamente dal “capitale culturale” e dal “capitale scolastico” accumulati in precedenza, con tutto il corredo di attese verso la scuola che si genera nel quadro dell’ambiente socioculturale di provenienza. Nelle programmazioni didattiche si fa sempre riferimento all’obiettivo dell’acquisizione di un “metodo di studio”, ma questo è lasciato all’improvvisazione personale dello studente una volta fuori dell’aula.

Particolarmente interessante mi sembra, a questo proposito, il rilievo di Stéphane Bonnéry in Comprendre l’échec scolaire (2007), sul fatto che la scuola richiede agli studenti il prerequisito di un atteggiamento volto all’”appropriazione del sapere” (ossia un atteggiamento “attivo”, “curioso”, “motivato”), che si genera solitamente nell’educazione familiare delle classi medie e con un livello elevato di possesso di titoli di studio. Lo richiede come prerequisito del successo scolastico, ma non lo insegna.

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Marco Magni

insegna al liceo “Orazio” di Roma.

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