Lo studio della cultura classica, e in particolare, quello del mondo romano e della lingua latina, è talora visto come qualcosa di “reazionario”: magari si può tollerare che si parli dei Greci, che hanno avuto una «lingua geniale»1 e hanno comunque inventato il libero pensiero e la democrazia; ma perché dovremmo riempire la testa dei nostri giovani con le gesta di un popolo imperialista e bellicista e con una lingua piena di regole, complicata e, in fin dei conti, inutile?
In fondo anche Antonio Banfi, che pure era filosofo raffinato, si opponeva nel secondo dopoguerra all’insegnamento del Latino nelle Scuole medie, facendo letteralmente imbufalire il latinista Concetto Marchesi, che come lui militava nel PCI2. Il marxista Banfi lo faceva anzitutto nel nome di un’idea di scuola «concreta e pratica», ma non è difficile credere che la sua posizione esprimesse anche una reazione liberatoria alla retorica fascista, al “mito” della continuità tra la Roma imperiale e l’Italia del Duce: una retorica che aveva avuto il suo naturale palcoscenico nelle scuole e nelle università, così come nelle pubbliche piazze.
Fascismo e Romanità
Sì, tra le colpe (non certo la peggiore, si potrebbe obiettare…) del fascismo c’è stata anche l’indebita e abusiva appropriazione di storia, lingua, letteratura dell’antica Roma. Questa operazione, consapevole, sistematica e carica di simbolismi (si pensi ai fasci littori, al saluto romano ecc.) ha dunque spinto a covare sospetto, diffidenza, perfino avversione, per quella Latinità che era stata manipolata nel Ventennio a scopi propagandistici.
Avversione motivata anche nel nome dell’antifascismo: ma i fascisti non erano davvero Romani, e soprattutto i Romani d’antan (e tantomeno la loro cultura) non erano fascisti! E questo lo sapeva bene anche un grande antifascista come Antonio Gramsci che nei Quaderni dal carcere esaltava lo studio del Latino come strumento di disciplina intellettuale ed etica3.
Il presente contributo vuole da un lato mostrare qualcuna delle “usurpazioni” fasciste della Romanità; ciò solo a livello di esempio, nella consapevolezza che si tratta di argomenti ben noti e autorevolmente studiati4. Dall’altro provare a dimostrare come, invece, dal mondo romano – se correttamente interpretato – ci arrivino messaggi di tutt’altro tenore.
Mussolini, novello Augusto
Come si sa, Mussolini nel corso degli anni provò a costruire un processo di identificazione della propria persona e del proprio operato politico con quelli di Ottaviano Augusto.
In realtà all’inizio del Ventennio il suo modello romano era stato soprattutto lo spregiudicato Giulio Cesare: al suo attraversamento del Rubicone si attribuiva infatti la stessa forza eversiva della Marcia su Roma.
Ma, col tempo, il Duce gli preferì Augusto, il vero fondatore dell’impero e – soprattutto – colui che aveva creato un’ideologia che vedeva nell’Italia (con le sue genti laboriose e i suoi valori militari e agricoli, tanto bene cantati da Virgilio) il fulcro del mondo romano5.
Il vertice di tale “usurpazione” della storia antica avvenne nel 1937, in occasione delle solenni celebrazioni del Bimillenario della nascita di Augusto, che cadeva giusto un anno dopo la proclamazione dell’impero fascista, avvenuta il 6 maggio 1936. In tale circostanza, non solo venne aperta al Palazzo delle Esposizioni l’importante Mostra augustea della romanità (1937-1938), visitata per ben due volte anche da Hitler, ma fu avviato un processo di riqualificazione urbanistico-monumentale dell’area vicina al Mausoleo di Augusto. Qui fu così creata l’attuale piazza Augusto imperatore, anche con il contributo simbolico delle picconate mussoliniane, per le quali il Duce già da anni era noto al grande pubblico, complice la stampa compiacente.
E in questa stessa zona – proprio sul Lungotevere – fu rimontata l’Ara Pacis Augustae, protetta dalla teca dell’architetto Vittorio Morpurgo, la cui inaugurazione avvenne il 23 settembre 19386; in tale giorno, compleanno di Augusto e termine delle celebrazioni del Bimillenario la folla plaudente dovette davvero dare al Duce l’impressione che la sua imitatio Augusti fosse pienamente riuscita. Ciò anche con la complicità dei classicisti di regime che enfatizzarono oltre il lecito una frase dell’autobiografia augustea (le Res Gestae Divi Augusti) che dice: Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me belli quo vici ad Actium ducem depoposcit (RGDA, 25,2: «L’Italia intera di suo proprio volere mi giurò fedeltà e volle me come ‘duce’ nella guerra che vinsi ad Azio», trad. L. Braccesi). Non fu pertanto difficile trovare un che di profetico nell’immagine dell’Italia intera – sede di civiltà superiore e pertanto legittima signora dell’ecumene romano – che si consegna con fiducia al dux di ieri e al Duce di oggi.
Latinità e italianità, un binomio fascista
Questa insistenza sull’Italia, come anticipavo, non è casuale. Il fascismo, infatti, volle suggerire anche una sorta di appropriazione “autarchica” della lingua e della letteratura latine, sottraendole all’universalità che è stata loro attribuita nei secoli. Un esempio concreto di quanto sto dicendo ci viene dalla prefazione a ciascuno dei tomi della Collezione romana, collana di classici latini con traduzione italiana diretta dal valido latinista Ettore Romagnoli ed edita da S.A. Notari, Istituto Editoriale Italiano: tra il 1927 e il 1934 ne furono pubblicati ben cento volumi, che ebbero un’importante funzione di circolazione di questi testi, anche nelle scuole e nelle università. Ma torniamo alla prefazione di cui dicevo, che così comincia:
La letteratura latina ha carattere universale: essa ha offerto modelli ed impulsi spirituali a tutto il mondo civile. Di qui la sensazione che sia come un possesso di tutte le genti: sensazione diffusa e falsa. La terra diviene di pubblico dominio solo quando mancano eredi: ma gli eredi legittimi dei Latini sono ben vivi: siamo noi Italiani: la letteratura latina è patrimonio nostro.
Il discorso continua poi con il medesimo tono enfatico e patriottico, affermando che la letteratura latina sarebbe da intendere come la prima luminosa giornata della letteratura italiana e la lingua, di conseguenza, la prima fase della lingua italiana. Peccato – ci vien da dire – che molti autori della Latinità compresi in collana (ad esempio Fedro, Seneca, Tacito…) italiani di nascita non erano proprio; e che il latino sia stato la prima fase anche del francese, del castigliano, del portoghese etc. Ma quando c’era Lui tutto questo era meglio non ricordarlo, nel nome di quel primato “retroattivo” dell’italianità che anche molti articoli di antichisti pubblicati in quegli anni sul «Corriere della Sera» ripetevano instancabilmente7.
La necessaria emancipazione degli studi classici
Lui però – grazie al cielo – non c’è più alla guida dell’Italia, e nel corso del tempo gli studi antichistici e la loro pratica nelle scuole e nelle università si sono emancipati dagli utilizzi strumentali dei quali ho parlato, e che dobbiamo a nostra volta evitare. No, gli antichi (e in primis i Romani) così come non erano italiani e fascisti, non possono essere anacronisticamente collocati nel pantheon dell’antifascismo, che è valore troppo serio per essere contraffatto. Credo però che la loro frequentazione suggerisca comunque idee e valori che possono fungere da antidoto alle idee e ai valori che sono serviti da humus al fascismo. Ciò perché Roma antica – che certo “democratica” non fu mai… – ci ha insegnato a rifuggire la chiusura nel guscio della latinità (identificata poi con l’italianità), poiché seppe aprirsi alla cultura dei popoli sottomessi, concedere a chi se lo meritava il diritto d’asilo (asylum) e/o la cittadinanza (civitas), praticare come valore sacro l’accoglienza ospitale (hospitium) e come prospettiva filosofica – mutuata dai Greci – il rispetto dell’umanità in quanto tale (humanitas).
Trascizione delle Res Gestae Divi Augusti sul lato del Museo dell’Ara Pacis, Roma.Il melting-pot di Roma antica
Esiste infatti un filo rosso che lega la mentalità aperturista del fondatore Romolo, che accolse nella neonata città anche profughi e fuorusciti da villaggi vicini (Livio, Ab Urbe condita, 1, 9), al filellenismo degli Scipioni (cui si opponeva l’austero Catone) o dell’imperatore Adriano (spagnolo di nascita, ateniese di spirito, romano di cittadinanza…), alla concessione della civitas romana a tutti i provinciali da parte del princeps africano Caracalla (212 d.C.)8. E c’è pure un filo rosso che lega il sincretismo religioso tra Greci e Latini, avvenuto in parte con la mediazione etrusca, all’inserimento nella religione romana di divinità celtiche o galliche (come le Matrone), egizie (come Serapide o Iside) o iraniche (come Mitra). Insomma: il mondo romano ci insegna che il melting-pot ha consentito a un’entità politica come lo Stato romano di durare oltre un millennio, ben più di un autarchico Ventennio!
I Romani e i costumi degli altri
Intendiamoci, non voglio negare che i Romani avessero una ben radicata idea di patria, né che abbiano talora praticato un imperialismo aggressivo. Ma non hanno mai avuto troppa paura di confrontare (e mescolare) i loro mores con quelli altrui, lodando spesso questi ultimi anche quando appartenevano a popoli rivali. Così Virgilio nell’Eneide esalta l’ospitalità che Didone offre al profugo Enea, nonostante la regina sia progenitrice del perfido Annibale, e l’eroe troiano progenitore del divino Romolo. Così Tacito nella Germania loda la fedeltà coniugale delle “barbariche” donne germaniche, certamente preferibile alla dissolutezza delle matrone romane.
Lo Stato e l’umanità, due realtà complementari
Credo però che il “capolavoro” della Romanità sia stato il lasciarsi permeare – senza fare eccessiva resistenza – dalla filosofia greca, e in particolare dalle istanze filantropiche e umanitaristiche dello stoicismo di mezzo. Esiste dunque un altro filo rosso, quello che lega tra loro l’ideologia del Circolo scipionico, il celeberrimo Homo sum, humani nihil a me alienum puto di Terenzio (Heautontimorúmenos, 77: «sono un uomo: niente di ciò che è umano considero a me estraneo», trad. G. Gazzola), l’humanitas esaltata da Cicerone e Quintiliano, e le famose parole di Seneca relative ai due Stati cui apparteniamo, uno dei quali si identifica con l’umanità9. Scrive infatti Seneca (De otio, 4):>
Duas res publicas animo complectamur, alteram magnam et vere publicam qua di atque homines continentur, in qua non ad hunc angulum respicimus aut ad illum sed terminos civitatis nostrae cum sole metimur, alteram cui nos adscripsit condicio nascendi.
«Rappresentiamoci con la mente due repubbliche, una grande e veramente pubblica che comprende dèi e uomini, nella quale non fissiamo lo sguardo a questo o a quel cantuccio ma misuriamo i confini del nostro stato con quelli del sole, l’altra cui ci ha assegnato la sorte della nascita» (trad. I. Dionigi).
Seneca procede poi chiamando uno dei due Stati – quello giuridicamente costituito – minor, e l’altro – quello astratto, spirituale – maior, dimostrando come l’appartenenza al genere umano ci accomuni tutti prima ancora (e in forme più vincolanti) del pur nobile legame con la nazione alla cui anagrafe siamo iscritti: non si tratta pertanto di due realtà incompatibili, ma necessariamente complementari.
È questa una lezione importante, di altissimo valore etico-politico, destinata non solo a quegli Italiani che il fascismo voleva legittimi eredi dei Latini, ma a tutti gli abitanti della res publica maior di ieri e di oggi, senza discriminazione alcuna. Ciò ovviamente non serve – e già l’ho scritto – ad affibbiare ai Romani una paradossale etichetta di “antifascisti”; serve però a dimostrare come lo studio della loro cultura e della loro lingua non sia né reazionario né inutile, se mai – almeno a detta di chi scrive – formativo e necessario10. Tanto più in tempi, come i nostri, nei quali c’è chi ripropone una contrapposizione tra Italiani e non, e invoca a più riprese il primato della ragion di Stato (res publica minor) sui doveri di accoglienza e solidarietà verso chi – come l’Enea virgiliano – scappa profugo dalla guerra e dalla persecuzione; doveri, questi, senza tempo e senza spazio, imposti proprio dalla comune appartenenza alla res publica maior.
NOTE
1. Il riferimento è a A. Marcolongo, La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco, Laterza, Roma-Bari 2016. Esalta con passione il valore della Grecità anche il recente G. Zanetto, Siamo tutti Greci, Feltrinelli, Milano 2018.
2. Su questa polemica, tra gli altri, si vedano: E. M. Bruni, Le lingue classiche nella scuola italiana (1860-2005), Armando Editore, Roma 2005, pp. 104 ss; P. Maltese, Gli intellettuali e la riforma della scuola: un dibattito sulle pagine di «Rinascita», “Studi sulla Formazione” (2009), pp. 235-253.
3. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, III, Einaudi, Torino 1975, pp. 1544-1548; analizza queste pagine L. Canfora, Gli antichi ci riguardano, il Mulino, Bologna 2014, pp. 117-123, in una prospettiva di più ampio respiro.
4. La bibliografia in merito è sterminata, ampiamente compresa nel recente e documentato A. Giardina, A. Vauchez, Il mito di Roma da Carlo Magno a Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2008; numerosi anche gli studi di Luciano Canfora, bene analizzati in C. Grasso, Luciano Canfora: le “ideologie del classicismo” e l’uso del paradigma classico, in “Polosud. Semestrale di studi storici”, 3 (2013), pp. 147-173.
5. Sulla imitazione mussoliniana di Cesare e Augusto, oltre Giardina-Vauchez, Il mito, cit., si vedano: L. Braccesi, Roma bimillenaria. Pietro e Cesare, L’erma di Bretschneider, Roma 1999 e A. Giardina, Augusto tra due bimillenari, in AAVV, Augusto, Electa, Milano 2013, pp. 57-72.
6. Sulle vicende del noto monumento si veda O. Rossini (ed), Ara Pacis, Electa, Milano 2006.
7. Articoli da poco riediti in M. Marvulli (ed.), L’antichità classica e il Corriere della Sera, Fondazione Corriere della Sera, Milano 2017.
8. Su questi temi si vedano: A. Giardina, F. Pesando (edd.) Roma caput mundi, Electa, Milano 2012 e R. Rea, C. Panella, A. D’Alessio (edd.), Roma universalis. L’impero e la dinastia venuta dall’Africa, Electa, Milano 2018.
9. Sul “senso di umanità” nel mondo antico, e in particolare sul concetto di humanitas, da ultimo si veda M. Bettini, Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Einaudi, Torino 2019.
10. Pur con posizioni non sempre concordi e muovendo da punti di vista diversi, accenti appassionati a difesa degli studi classici (e anche del Latino) in: N. Gardini, Viva il Latino. Storia e bellezza di una lingua inutile, Mondadori, Milano 2016; M. Bettini, A che servono i Greci e i Romani?, Einaudi, Torino 2017; F. Condello, La scuola giusta. In difesa del Liceo Classico, Mondadori, Milano 2018.