Competenze, educazione, cittadinanza

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«Ricordo il corpo insegnante della mia scuola pubblica. Sapete, avevamo un detto: chi non sa far niente insegna e chi non sa insegnare insegna ginnastica. Quelli che neanche la ginnastica, credo li destinassero alla nostra scuola». Con la sua battuta di spirito Woody Allen, oltre a farci sorridere, richiama una riflessione sull’importanza del ruolo dell’insegnante e sulla difficoltà e responsabilità che risiede nello svolgimento di questo ruolo.

CLASSE

Gli insegnanti, incarnazione vivente della scuola pubblica, hanno infatti il compito di educare le future generazioni, facendosi portatori di quello che può essere definito un vero progetto sociale. Lo sapeva già Aristotele, che affermava che: «Il destino degli Stati dipende dall’educazione della gioventù». L’educazione è infatti un obiettivo di un percorso lungo e complesso di acquisizione della consapevolezza di sé nel mondo da parte del cittadino. Ed è alla scuola che viene affidato questo compito politico fondamentale.
Nel concetto contemporaneo di «competenze» si trova sintetizzato un progetto sociale in cui l’Europa crede sin dai tempi di Aristotele. Perché esprime quel potenziale individuale e collettivo che può scaturire solo da una interiorizzazione profonda di contenuti, abilità e capacità che diventano poi gli strumenti a disposizione della persona per affrontare la vita, i mutamenti storici, economici e sociali che questa comporta, e dunque avere un ruolo attivo nella storia.

Potrebbe sembrare vuota retorica, ma non lo è affatto. E bisogna anzi contrastare quel pensiero qualunquistico che colpisce la scuola italiana da troppo tempo, un atteggiamento «di comodo» che autorizza a sbarazzarsi di una questione, quella di una riforma «vera» della scuola, che forse non si vuole affrontare. Abbandonando a se stessi gli insegnanti, che si ritrovano, oltre che con stipendi del tutto inadeguati, anche a dover affidare l’innovazione del loro metodo scolastico alla propria iniziativa personale.
Bisogna cominciare a considerare molto seriamente che l’istruzione è una delle soluzioni praticabili per uscire dalla crisi economica. Lo abbiamo affermato sul Sole 24 Ore Domenica con il Manifesto per la cultura («Niente cultura, niente sviluppo», 19 febbraio 2012). Sono in tanti a pensarla così – come Aristotele – in particolare alcuni premi Nobel, come Krugman, che da anni contestano la cattiva politica economica fondata sull’indebitamento e invitano i capi di Stato a investire sull’istruzione primaria e secondaria: perché dall’istruzione nasce la cultura, e dalla cultura la fiducia nel futuro, nonché la consapevolezza e la libertà di scegliere responsabilmente, anche a livello politico, da parte degli individui.

Lasciare, invece, che la scuola resti il fanalino di coda della spesa pubblica  – come è stato rilevato da un’indagine OCSE sulla scuola italiana nel 2010, allo scadere del termine entro il quale si sarebbero dovuti raggiungere gli obiettivi europei per la scuola delineati nella cosiddetta Strategia di Lisbona – significa lasciare che i cittadini restino inconsapevoli, non riescano a trovare la fiducia nelle proprie capacità, e si affidino sempre più a strategie politiche provenienti dall’alto. Nel 2010, allo scadere della tremenda verifica che ha bocciato la scuola italiana, l’allora segretario generale dell’OCSE fece notare che «con la crisi economica molti paesi dell’OCSE fronteggiano la doppia sfida di mantenere le finanze pubbliche sostenibili sostenendo nello stesso tempo anche la crescita economica. L’istruzione rappresenta un grosso capitolo della spesa pubblica e un investimento essenziale per sviluppare il potenziale di crescita a lungo termine dei paesi e rispondere ai cambiamenti tecnologici e demografici che stanno rimodellando i mercati del lavoro».

Ma tornando ai professori di ginnastica dell’istituto frequentato da Woody Allen, costoro si sarebbero comunque trovati molto bene al Liceo di Aristotele. Perché, come attestato da ritrovamenti archeologici, l’istituzione scolastica ateniese era dotata di una immensa palestra di 50 x 48 m., perché all’attività fisica, così come alle passeggiate nella natura era destinata buona parte del tempo speso dagli studenti a scuola. Questo perché la formazione di una persona non si limitava solo alla proposta di informazioni, ma anche all’esperienza. Inoltre era riservato grandissimo spazio alle scienze naturali. Ma la cosa più sorprendente, sul piano pedagogico, è che l’insegnamento si fondava innanzitutto sullo studio della logica (analitica) e della dialettica, ovvero di quegli strumenti cognitivi necessari al pensiero, e applicabili a qualsiasi tipo di disciplina. Se invece guardiamo ai programmi della scuola odierna, soprattutto di quella italiana, la logica è una voce assolutamente inesistente. Quella aristotelica era il contrario di una scuola nozionistica. Si può dire lo stesso di quella italiana di oggi?
Insomma, Aristotele credeva che si dovesse insegnare agli studenti a padroneggiare con libertà le informazioni e gli strumenti metodologici, per acquisire pensiero critico. Non si tratta, in fondo, di competenze?

Ed è proprio per questo che la scuola italiana non dovrebbe vedere nell’introduzione delle competenze un semplice adeguarsi alle richieste di aggiornamento e di coordinamento delle scuola da parte dell’Unione Europea, ma vedervi l’espressione di una vera esigenza insita nell’educazione.
E sembra proprio che ciò stia avvenendo. Non a caso le riflessioni scaturite dal lavoro didattico per competenze hanno spostato sempre più l’attenzione dall’insegnamento all’apprendimento. La figura dell’alunno-cittadino ha cominciato a delinearsi in maniera sempre più netta agli occhi del docente, sebbene questi resti sempre vincolato a un sistema scolastico troppo antico e da svecchiare.
Fatto sta che negli ultimi dieci anni si è iniziato a riflettere seriamente sul fatto che la didattica non può e non deve limitarsi a un mero «svolgimento di programma». Che le varie discipline devono sganciarsi dal mero nozionismo mnemonico imposto agli alunni, ma devono diventare strumenti cognitivi, ciascuno con le sue caratteristiche, capaci di strutturare il pensiero dell’allievo, e a dare un significato soggettivo e unico ai contenuti appresi, in altri termini, farne esperienza.
«Nella linguistica generativa trasformazionale, – così l’enciclopedia Treccani – “competence” è l’insieme delle conoscenze linguistiche, e più particolarmente grammaticali, che un soggetto parlante possiede, più o meno inconsciamente, della propria lingua, e che gli permette di comprendere e formare un numero indefinito di nuove frasi». La definizione linguistica di «competenza» ci aiuta a comprendere ancora meglio che questa parola esprime qualcosa che è di più della conoscenza assunta, della abilità appresa, della capacità acquisita. È lo strumento interiore che permette alla persona di coordinare conoscenze, abilità e capacità in vari contesti, di essere profondamente creativa, riuscendo ad adattarsi a tutte le circostanze mutevoli della storia.

Certo, a questo progetto devono collaborare fortemente i docenti, che devono diventare «figure vive» per usare un’espressione tratta dalla Lettera a un insegnante dello psichiatra Vittorino Andreoli. I docenti sono gli autori di questa svolta cognitiva e culturale degli studenti. Sono i responsabili, infatti, di quel raro miracolo che spesso si realizza nelle aule italiane che si chiama: motivazione. Che significa dare valore non solo agli aspetti informativi dell’insegnamento-apprendimento, ma anche  – e soprattutto  – agli aspetti emotivi, che sono importanti, in quanto le emozioni hanno un significativo ruolo cognitivo. Aiutare l’allievo ad articolare le proprie emozioni relative al suo oggetto di studio, renderlo consapevole di esse, vuol dire aiutarlo a imparare a vivere mentre apprende. Significa aiutarlo a essere motivato, cioè aiutare l’allievo ad avere la percezione di poter raggiungere determinati obiettivi, a conoscere le emozioni che accompagnano il suo percorso ed essere in grado di gestirle e, infine, aiutarlo anche a essere consapevole del significato che quegli obiettivi rappresentano per sé stesso, nella sua vita. Un’operazione psicologicamente pregnante, di interiorizzazione sulla quale peraltro si è fondata, per secoli, la strategia vincente della pedagogia dei collegi della Compagnia di Gesù, responsabile di avere formato generazioni di classi dirigenti europee. Non multa, sed multum affermava Ignazio di Loyola molto saggiamente: che significa, bandire il nozionismo caotico e abbracciare invece quei contenuti che possono essere davvero significativi per gli studenti, che possono cioè trasformarsi, mediante un processo di interiorizzazione, da informazioni a cultura.

In questo, la motivazione è essenziale, e la cura personalis è uno strumento pedagogico che permette al docente di essere vicino al singolo studente, lasciando che questi raggiunga gli obiettivi che si confanno alle proprie possibilità personali e non gli obiettivi stabiliti secondo tabelle astratte e prive di significato.
Ora, estrapolando il significato anche religioso della pedagogia ignaziana, ritengo che vi siano molti aspetti che andrebbero presi seriamente in considerazione nella scuola di oggi, perché potrebbero portare a buoni profitti.

Sia nella scuola di Aristotele, sia in quella dei Gesuiti si trova quel «primato del pragmatismo» che dovrebbe essere il vero obiettivo di ogni scuola di stato che intenda formare persone libere e menti critiche. Il pragmatismo rievoca anche l’insegnamento del più grande educatore del Novecento John Dewey. Le sue idee di una scuola che educhi alla creatività, all’«arte come esperienza», alla partecipazione attiva, alla cooperazione tra individui non atomizzati, e dunque alla democrazia come «medium cognitivo» per la soluzione dei problemi che si hanno in comune, potevano sembrare difficili, se non impossibili da realizzare ai suoi tempi. Pura utopia, avrebbero detto i conservatori.

Ma non è che invece, oggi, grazie alle nuove tecnologie, si stanno rivelando del tutto a portata di mano? E che proprio osservando queste specie di alieni che sono i nativi digitali – alieni per noi, figli di Gutenberg – la scuola immaginata da Dewey diventa non un sogno ma la naturale conseguenza di un sano realismo, basato sulla semplice descrizione e constatazione delle capacità cognitive che già albergano nelle menti dei nostri pargoli? L’approccio al sapere dei nativi digitali si basa sull’esperienza, è meno dogmatico del nostro, è attivo e non sopporta che i contenuti vengano semplicemente trasmessi dall’alto, in un rapporto uno-molti, com’è tipicamente quello tra l’insegnante e la classe. Il learning by doing, la capacità di risolvere problemi, l’interattività, la socialità, la creatività, oltre che essere tutti concetti profondamente deweyani, sono abilità che i nativi digitali cominciano ad apprendere a partire persino dai loro primi videogiochi. «I giochi – ha scritto Paolo Ferri in Nativi digitali – non si limitano a fornire un fondamento logico per l’apprendimento: ciò che i giocatori imparano è immediatamente utilizzato per risolvere problemi avvincenti che hanno delle conseguenze reali nel mondo del gioco». E ancora: «Un videogioco può essere considerato come un ambiente immersivo digitale che è costituito da un insieme di problemi da risolvere». «I giochi più efficaci dal punto di vista dell’apprendimento sono i giochi che ammettono una gamma molto vasta di soluzioni» e «il gioco diviene un ambiente esterno digitale che permette di mettere alla prova le differenti rappresentazioni interne delle possibili soluzioni a quel problema». Più in generale, l’uso di internet e degli altri strumenti digitali sta modificando la configurazione neurale delle nostre menti, che, come ha dimostrato Giacomo Rizzolatti, presenta un elevato tasso di plasticità anche in età adulta. Lo dice anche Nicholas Carr in Internet ci rende stupidi? (Raffaello Cortina, 2011), traendone però conseguenze catastrofiche. Illegittime secondo Ferri, il quale osserva che «una trasformazione e un cambiamento delle attivazioni neuronali sono ormai una prova scientifica ma certamente, come rilevano anche gli studi di Battro, Koizumi e altri neuro scienziati, non siamo ancora in grado di verificare sperimentalmente gli effetti positivi o negativi di questa trasformazione».

Anche in questo dobbiamo seguire Dewey e adottare l’approccio sperimentale dell’imparare facendo, così come gli stessi programmatori di oggi tendono ad assomigliare più a dei bricoleurs che a degli ingegneri. Significativamente Ferri accosta a Dewey un’altra grande educatrice, Maria Montessori, mostrando che «gli studenti stessi sembrano suggerire attraverso il loro “stile di apprendimento partecipativo/digitale” nuove modalità didattiche e nuovi stili didattici ai loro insegnanti. Richiedono, cioè, sempre di più, nuove opportunità di “imparare a fare da soli” (Montessori), di essere indipendenti e individualizzare e socializzare il loro stile di apprendimento». I nativi digitali paiono richiedere un più intenso dialogo e una maggiore interazione con i docenti da realizzarsi anche attraverso i media digitali, magari all’interno, di ambienti virtuali per l’apprendimento. Non c’è bisogno di dotazioni particolarmente sofisticate. Non è questione di elettrificazione delle aule, ma di capacità di adattare ai nuovi stili cognitivi dei nativi il setting della scuola. È un’operazione metodologica prima che tecnologica.
Essenziale per un ambiente formativo digitale è ad esempio avere banchi mobili e combinabili che facilitino l’apprendimento e l’interazione di gruppo.

Dewey una volta scrisse che «Non è la perfezione la meta ultima della vita, ma il processo incessante di perfezionare, maturare e raffinare». Se il carattere aperto dei nuovi media interattivi può integrarsi con tale processo di continuo affinamento e perfezionamento, culturale e sociale, possiamo dire che il gioco è fatto: avremo prodotto esattamente quegli spiriti critici attivi, capaci di continuare ad apprendere in tutto l’arco della loro esistenza ciò di cui hanno bisogno oggi le società post-industrali basate sull’economia della conoscenza.

Ma prima di volgersi agli altri, il pragmatismo deve essere una dimensione interiore. E infatti lo stesso Aristotele, che nell’Etica distingueva un pragmatismo produttivo (produzione per mezzo di tecniche) da un pragmatismo etico-sociale (volto al raggiungimento di quello che è il bene per il soggetto agente, secondo la propria virtù coltivata nel tempo), affermava nella Politica che «la vita pratica non è necessariamente volta agli altri, come pensano alcuni, e non sono soltanto quei pensieri che mirano a un risultato, prodotto dell’agire, a essere “pratici”; infatti sono molto più “pratiche” le attività dello spirito e le riflessioni che trovano il loro fine in se stesse e vengono sviluppate in funzione di se stesse». Vale a dire che non basta insegnare a un ragazzo a leggere e scrivere con competenza, a usare gli strumenti di comunicazione, a parlare l’inglese e a praticare un mestiere, perché tutti questi insegnamenti di «superficie» sono soggetti a modifiche dettate dal tempo  – la tecnologia muta continuamente, il mercato di lavoro anche  – e allora solo una attitudine alla prassi coltivata come capacità interiore potrà aiutare quella persona a reinventarsi sempre in modo creativo nella sua vita futura e ad affrontare positivamente le crisi.

In quest’ottica, una scuola che voglia veramente essere all’altezza delle competenze prefissatesi, nei vari settori del sapere (linguaggi, matematico, scientifico-tecnologico, storico-sociale), deve trasformarsi. Deve aprirsi all’esperienza laboratoriale, per consentire di rendere i contenuti proposti agli alunni vita vera. Deve prendere molto sul serio la filosofia, deve fare della filosofia una metodologia interdisciplinare d’insegnamento. Deve abbandonare l’abitudine, più italiana che europea, di basare i piani di studio più sulla storiografia che non sui contenuti veri e propri. Che si insegni matematica, a scrivere un testo letterario di proprio pungo, a dipingere un quadro – perché si deve denunciare la drammatica assenza dell’arte come pratica dalla scuola italiana, con tutto il suo portato cognitivo di grande importanza – e, soprattutto, a fare filosofia con la propria testa, ad affrontare i problemi, non limitandosi a leggere come i filosofi del passato hanno affrontato i loro. Imparare a pensare per imparare a vivere.
Non solo. Se si prende sul serio il grande insegnamento di James R. Flynn, bisognerà insegnare a superare quelle trappole che ci impediscono di essere veramente intelligenti e di cogliere l’essenza del metodo conoscitivo per eccellenza, vale a dire il metodo scientifico. Nel suo ultimo libro How to improve your mind Flynn fornisce una guida perfetta ai concetti chiave della modernità, che la scuola dovrebbe fornire agli studenti per renderli padroni del proprio tempo. Sono strumenti per capire l’impostazione degli studi sperimentali e per non cadere vittime di ragionamenti fallaci. Flynn ritiene che sia indispensabile uscire dall’università sapendo usare la logica insieme al criterio di falsificabilità, sapendo come si costruisce un campione, che cosa è un gruppo di controllo, una percentuale, che cosa è l’effetto del carisma e che cos’è il quoziente di intelligenza, oltre che come funziona il mercato e come si la fallacia naturalistica e le diverse forme di relativismo. Ma questo pensiero critico così elaborato e consapevole, che potrà formarsi compiutamente solo con gli studi universitari, deve essere costruito fin dai primissimi anni dell’intero sistema educativo. Perché la scuola, come afferma il filosofo scettico Sesto Empirico (I-III sec. d.C.), è un modo di affrontare la vita: «Se si dice che una scuola è l’adesione a una serie di dogmi coerenti gli uni con gli altri, allora noi diremo che non c’è una scuola.(…) Invece, se si dice che a essere scuola è un modo di vita che segue un certo principio razionale, (…) allora diciamo che una scuola c’è».

Le competenze sono il giusto punto di partenza per cominciare a costruire questa nuova vita.

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Armando Massarenti

Filosofo ed epistemologo italiano. Dal 12 giugno 2011 è responsabile del supplemento culturale Il Sole-24 Ore-Domenica, dove si occupa, dal 1986, di storia e filosofia della scienza, filosofia morale e politica, etica applicata, e dove tiene la rubrica Filosofia minima. È autore del manuale per le scuole Filosofia. Sapere di non sapere (D’Anna, 2011-2012, insieme a Emiliano Di Marco). Twitter @Massarenti24

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