Nella fustigante e operosa solitudine autoimposta di una schiera ormai troppo lunga di generazioni, la vita e l’opera di Piero Gobetti risultano essere ossigeno, via di fuga e uscita di emergenza da un dibattito pubblico avvitato su sé stesso e sulla “like democracy”.
Gobetti visse poco – dal 1901 al 1926 – e scrisse moltissimo; fu collettore di incontri, di iniziativa politica e culturale; aveva predetto col suo corpo e con la sua vita il ruolo di un nuovo intellettuale, che più che imboccare la china del rigido studioso avrebbe dovuto essere agitatore culturale, resistente alla dittatura, liberale e laico – nella sua accezione più alta, che comprende non una scissione spirituale ma un’integrazione morfologica tra la domanda e le risposte ai nuovi bisogni del tempo.
In Gobetti tutto è incredibile: la precocità, la capacità narrativa, quella di analisi e l’intraprendenza. E tutto è aumentato: anche la solitudine che lo investe, perché essere Piero Gobetti in un mondo di Giolitti e di Mussolini è difficile, arduo, asfissiante. Essere profeta in patria, la storia ci insegna, non raccoglie intorno a sé molti consensi, anzi, crea quella strana sensazione di estraniamento che finisce per essere depressione, volontà insita di scomparire al mondo.
Tutto questo Gobetti lo sa, e per questo si impegna totalmente in tutto quello che fa come antidoto allo scoramento e alle delusioni. Gli intellettuali, i politici, i coetanei lo criticano, e lui ama ancora di più quello che ha intorno, ama Ada che diventerà non solo sua compagna di vita e di lotta, ma organo complementare della sua esistenza stessa, amata di un amore completamente nuovo per il tempo, fatto di nodi problematici superati con decenni di anticipo rispetto alla società italiana, che rendono questo amore del secolo scorso un compendio di innovazione sentimentale.
Nella sua miriade di scritti, che nel corso di questi mesi avremo la fortuna di incontrare insieme, si scorge una battaglia costante alla “mediocrazia” che ieri come oggi attanaglia la società italiana, una mediocrazia che coniugata nelle sue varie forme ieri ha generato il consenso sociale e culturale del fascismo, il culto dell’uomo forte e in tempi più recenti ha destrutturato le istituzioni liberali col populismo, la democrazia diretta e il sovranismo, riconsegnando le aule parlamentari prima a una dittatura dei mediocri e poi a governi di salvezza nazionale di natura tecnica raccontati, da un dibattito pubblico svilente, come tendenti alla precoce santità.
Rileggere e scoprire Gobetti in questi tempi fatti di pandemia, di crisi, di isolamento e solitudine è un’esperienza ancora più forte, farlo insieme è ancora più importante. Per questo, da oggi, anniversario della sua morte, e fino al 19 giugno, cifra tonda della sua nascita, su «La ricerca» troverete un pensatoio libero, una stanza aperta in cui ognuna e ognuno dei partecipanti potrà far emergere il Piero Gobetti presente nella propria formazione, così da costruire un ritratto a più voci intorno a questo ragazzo di 120 anni: non solo per raccontarlo in modo nuovo, ma per colmare le nostre vicendevoli solitudini, in cui ci appare spesso inutile lottare, soffrire e finanche scrivere. Lo facciamo anche per continuare a domandarci, come faceva Gobetti, «che cosa ho a che fare con gli schiavi?», cercando di liberarci dal complesso di inferiorità che essere diversi sia un problema.
Iniziamo questo “Progetto Gobetti” nella data in cui morì solo e lontano da Torino per tutte le botte che il regime fascista gli aveva inferto nel corso degli anni: scriviamo per riportarlo a casa, quasi a volergli carezzare i capelli arruffati e dirgli che aveva ragione lui, e che di lottare ne vale sempre la pena.