Se si volesse riandare ai classici della filosofia per riflettere sulla carne, in prima battuta, con ogni probabilità, Platone non verrebbe in mente. Ciò dipende dal modo in cui il pensiero del filosofo greco è solitamente insegnato. La normale associazione, infatti, è di Platone col mondo delle idee, con quell’iperuranio perfetto col quale la corruzione della carne non ha nulla da spartire. Egli è colui che, nel celebre affresco di Raffaello, è raffigurato col dito che punta verso l’alto, a indicare il cielo, o meglio la realtà oltre tutti i cieli di cui la materia è pallido riflesso, imbarazzante approssimazione, copia sbiadita.
Anche a guardare la storia degli effetti, Platone è colui che ha ispirato sia il neoplatonismo, il quale condanna senza appello la materialità, sia un certo ascetismo cristiano, che pensa al corpo come al carcere dell’anima. A guardare poi i suoi scritti, il grande ateniese sembra proporre un itinerario spirituale di distacco dal corporeo, da quella caverna in cui le ombre e gli echi, che stanno per gli stimoli dei sensi, ingannano e nascondono il vero e giustificano il vano opinare.
Ciò non avviene solo nel celebre mito della caverna, esposto nella Repubblica, ma si trova magistralmente espresso anche nel Simposio, ove la sacerdotessa Diotima insegna al Socrate inesperto che l’amore è una via di progressivo distacco dall’effimera bellezza dei corpi, così da spingere lo spirito verso il bello in sé. Si tratta di un percorso di ascesi, di oblio del corpo, si direbbe.
Che questa lettura tradizionale, peraltro fondata sul testo platonico e sui suoi echi, abbia però qualcosa che non quadra, lo si capisce studiando il filosofo un po’ più da vicino, cercando di conoscere Platone e il suo quotidiano. Simone Regazzoni lo descrive così: «Platone è alto, prestante, fronte ampia, capelli mossi tagliati corti. Ha poco più di quarant’anni. Una folta barba nera ricopre guance e mento. Un nastro rosso da lottatore gli cinge il capo e ricade sulle spalle. Platone è un athletes, un lottatore. Ha un orecchio rotto, a cavolfiore, come gli Spartani, segno degli anni passati ad allenarsi e combattere» (S. Regazzoni, La palestra di Platone. Filosofia come allenamento, Ponte alle Grazie, Firenze 2020, p. 10).
Il suo fisico è prestante, tanto da ispirare il modo in cui veniva chiamato dagli altri, a cominciare da Aristone, il suo maestro di ginnastica: Platone, spalle larghe. I suoi genitori, invece, lo avevano chiamato Aristocle, ma non è questo il nome con cui la storia lo ricorda.
Nella Grecia del tempo, non solo nella marziale Sparta ma anche nell’Atene intenta ai commerci, fare ginnastica significava prima di tutto prepararsi al combattimento. In effetti Platone praticava il pancrazio, un misto di arti marziali che mette insieme la lotta e il pugilato. Ciò significa l’esperienza del massaggio con l’olio con cui ci si prepara al combattimento, dello sforzo per controllare il corpo dell’altro, della sensazione del colpo dato e di quello subito, del dolore, della stanchezza, della sensazione del sudore che brucia gli occhi e sala la bocca, dell’odore del sangue, della paura di non farcela, finanche dello sconforto per la sconfitta o del trionfo per la vittoria. Sensazioni, emozioni carnali.
Se poi si guarda al luogo in cui Platone insegna, ancora Regazzoni scrive: «Ha scelto di fondare la sua scuola, l’Accademia, nella vecchia palestra ai margini della città dove si allenava da ragazzo: una grande costruzione rettangolare in pietra formata da un colonnato con un portico coperto che corre sui tre lati e con un quadrato di terra battuta al centro per lottare» (Regazzoni, La palestra di Platone cit., p. 11). L’Accademia non è un mero luogo per ricerche speculative, pur essendo anche questo. Essa è prima di tutto una palestra dove fare ginnastica.
Insomma, che senso avrebbe tanto disprezzo per la corporeità da parte di un lottatore, da parte di una persona che aveva passato la vita ad allenare il corpo e che ha scelto una palestra come luogo per insegnare? Com’è possibile che un uomo, abituato da una pratica di decenni a gareggiare e a sfidare muscolarmente gli altri, facesse del disprezzo della carne la cifra del proprio pensiero? Che abbia cambiato idea? Che tanti anni di cura del corpo lo abbiano spinto a prenderne le distanze? Non è un’ipotesi verosimile, perché nelle Leggi, il testo che costituisce il punto più maturo della sua speculazione ed è la sua ultima opera, scritta in tarda età, Platone ammette l’importanza di rendere i corpi il più possibile belli (cfr. Leggi, 788c) e prevede un’educazione in cui la fisicità giochi un ruolo centrale (per esempio; cfr. Leggi, 794c-d).
Per uscire dal dubbio circa il valore che Platone attribuisce alla carnalità è utile andare, ancora una volta, alle parole di Regazzoni: «Occorre abbandonare la semplificazione secondo cui Platone avrebbe odiato il corpo. Platone è il filosofo che quando parla di vivente (zoon) parla di «plesso (sunamphoteron) formato dai due elementi, anima e corpo» (Timeo, 87,e) e della necessità di una «simmetria» tra di essi, che si ottiene con un allenamento equilibrato di entrambi» (La palestra di Platone cit., p. 30).
La filosofia, per Platone, non è la mera formazione dell’anima. In questo senso, sarebbe fuorviante ridurre Platone a un filosofo da “esercizi spirituali”, secondo un’interpretazione superficiale della celebre chiave di lettura della filosofia antica offerta da Pierre Hadot (Esercizi spirituali e filosofia antica, trad. it. di A.M. Marietti, Einaudi, Torino 2005). La filosofia è, piuttosto, una formazione dell’uomo nella sua complessità, in quanto corpo pensante, in quanto spirito incarnato.
Proprio il suo radicamento nella carnalità consente di comprendere il valore dello slancio platonico, come altrimenti non si riuscirebbe. Esso ci guida a vedere quel qualcosa di più che la carne mostra e nasconde.