
Almeno nella nostra tradizione letteraria, Pinocchio – il personaggio creato da Carlo Collodi nel 1881 – è uno dei simboli della bugia. Lo è al punto tale che in lui l’atto del mentire trova un’immediata corrispondenza morfologica: il naso si allunga. Da questo punto di vista Pinocchio potrebbe essere considerato il precursore dei moderni supereroi, mutante come gli X-Men, soggetto a una trasformazione incontrollabile come Hulk che diventa verde e gigantesco quando l’ira si impossessa di lui.
Commentando il noto finale in cui il burattino diventa bambino, lo scrittore Emanuele Trevi – nell’introduzione all’edizione integrale del romanzo[1] – ha scritto:
Come Ulisse che si strappa dall’abbraccio di Calipso, così Pinocchio ha scelto integralmente la sua condizione di mortale.
L’interpretazione di Trevi mi ha sorpreso. Non avevo mai pensato in questo modo al finale di Pinocchio. Avrei detto semmai che Pinocchio, passando dalla condizione di burattino a quella di bambino, inizia finalmente a vivere davvero. Mi è allora tornato in mente un libro che avevo letto alcuni anni prima.
Si tratta di un saggio scritto da Giacomo Biffi e intitolato Contro Maestro Ciliegia[2] che propone una lettura del personaggio collodiano alla luce della rivelazione cristiana. Se Trevi vede nel finale del romanzo la rinuncia all’immortalità (il burattino Pinocchio, in quanto personaggio fantastico, è immortale), Biffi vede nel passaggio dal fantoccio al bambino in carne ossa il passaggio dalla vita terrena a quella eterna.
Biffi e Manganelli: luce e ombra
Queste letture così diverse non devono sorprendere. Nel corso degli anni, Pinocchio e il suo autore sono stati oggetto delle più diverse appropriazioni interpretative, complice anche il fatto che il percorso umano di Collodi fu abbastanza discontinuo e difficilmente incasellabile: la nascita in una famiglia religiosa, la frequentazione del seminario, poi l’impegno volontario nella Prima e nella Seconda Guerra d’Indipendenza. E in tutto questo non fu mai né pienamente cattolico né pienamente risorgimentale. Così del suo capolavoro possono coesistere letture marxiste, religiose, liberali, borghesi o anarchiche.
Il commento teologico condotto scrupolosamente da Biffi risalta ancora di più se messo a confronto con un altro commento, curiosamente pubblicato nello stesso anno, ovvero il testo di Giorgio Manganelli Pinocchio: un libro parallelo[3] dove lo scrittore, seguendo il suo gusto per tutto ciò che è occulto, rielabora e commenta il racconto di Collodi mettendo in luce gli aspetti più inquietanti della favola.
Alcuni esempi possono chiarire la diversità di lettura dei due autori. Partiamo proprio dal celebre incipit del romanzo collodiano:
C’era una volta…
“Un re!”, diranno subito i miei piccoli lettori.
“No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno”.[4]
L’incipit è spiazzante, ma Biffi non si lascia spiazzare:
Da che cosa deve cominciare il discorso teologico? Lo si può cominciare da ciò che si vuole. […] Il mondo non è una congerie di realtà slegate tra loro: le verità – se sono tali – si implicano tutte vicendevolmente. Perciò da qualunque punto si parta, si arriva sempre ad attingere il progetto unico e onnicomprensivo di Dio. Purché si parta, però; non ci si impigli cioè nella prima realtà considerata e non la si assolutizzi. Si cominci pure da un pezzo di legno, purché lo si esamini senza alcun pregiudizio, e, se inaspettatamente si udrà uscirne una voce, non la si neghi – come maestro Ciliegia – in nome di qualche assioma prefissato.[5]
Manganelli, invece, coerente con il suo gnosticismo, con questa assenza del Re ci va a nozze:
È difficile sopravvalutare l’importanza di questa frode iniziale. […] In primo luogo, noi non sappiamo esattamente in che modo codesto Re “non c’era una volta”. Sappiamo, vagamente che non c’è: condizione terribile, direi onerosissima, in un universo che si preannuncia labile, minatorio e stupendo. […] Tuttavia, potremmo porre in altro modo il problema di codesta crucciosa e leggera inesistenza del Re: infatti, costui potrebbe non esserci in altre guise. Potrebbe aver scoperto che la “non esistenza” è la sua forma tipica e inattaccabile di esserci. Colpo di stato negativo: il Re ha scelto di non essere, farsi inattaccabile alle indagini filosofiche, alle pie aggressioni archeologiche, alle minute pedagogie della storia; […] a che fare domande a colui che non risponde?[6]
Da qui in poi le due strade sono tracciate. Il grillo parlante rappresenta per Biffi «il mistero della coscienza morale che ogni uomo esperimenta dentro di sé»[7], per Manganelli è un «pedagogo uggioso e banale»[8]; la fata dai capelli turchini è per Biffi «il principio femminile nella storia della Salvezza»[9], simbolo della Chiesa e della Vergine, che ammaestra e consola mentre per Manganelli è più una dea pagana, signora della notte e delle bestie selvagge, non estranea a un uso sapiente della menzogna per interagire con le vicende dell’irrequieto burattino; Lucignolo per Biffi non può essere che immagine del diavolo tentatore (anche se è un Lucifero in minore, appena un “lucignolo” appunto). Il Lucignolo di Manganelli, invece, è totalmente privo di qualunque sostrato diabolico. Per Manganelli Lucignolo è solo un bambino un po’ spaurito e dal nome delicato, che crede davvero di aver trovato il modo di passare il resto dei suoi giorni nel Paese dei Balocchi.
Inutile dire che anche l’interpretazione del finale è totalmente diversa. Ecco Manganelli, per il quale non si può certo parlare di lieto fine:
La forma della trasformazione per noi è la morte: e le ultime righe, che trattano della trasformazione di Pinocchio, raccontano la morte di Pinocchio. […] Egli ha usato tutta la sua leggenda, tutto il suo destino per uccidersi […] Nella casa del nuovo Pinocchio resta quella reliquia morta e prodigiosa, il nuovo e vivo dovrà coabitare col vecchio e morto. Quel metro di legno continuerà a sfidarlo.[10]
Ed ecco invece Biffi:
L’obbedienza effettiva e abituale – cioè l’adesione stabile di tutto l’essere alla volontà del Padre, che comporta il ripudio di ogni atto ribelle; in una parola la metànoia di cui parla il vangelo – colloca l’antico burattino nello stato di figlio, e quindi nel possesso di una vera e propria libertà di fronte al male, che così non è più fatale e soverchiante. […] Dove il testo collodiano si fa trasparente involucro di un mistero più grande di ogni indagine e di ogni comprensione, è là dove ci mostra Pinocchio che, dalla gloria della vita risorta, guarda l’antico suo io, ormai corpo inerte e senza parola.[11]
Il tema della menzogna in Pinocchio
Sarebbe però fin troppo facile chiedersi: tra le tante interpretazioni di Pinocchio, qual è quella vera? Avendo sotto mano due testi così ricchi di dettagli (sia il commento di Biffi sia quello di Manganelli sono più estesi del romanzo di Collodi che si propongono di commentare) ha più senso chiedersi: in che modo il tema della menzogna viene affrontato dai due autori? Sorprendentemente, né Biffi né Manganelli danno particolare importanza al prodigioso allungamento del naso. Eppure si tratta di un passaggio cruciale, sicuramente quello che più di altri ha acceso la fantasia dei tanti lettori di Pinocchio in tutto il mondo.
La mutazione morfologica fa la sua comparsa solo nel XVII capitolo del romanzo, dunque rientra nella seconda parte della storia, quella che Collodi è “costretto” a scrivere su insistenza dei lettori. Nelle sue originarie intenzioni, infatti, Pinocchio sarebbe morto impiccato all’albero per mano del gatto e della volpe. Questo dettaglio non è casuale: l’evidenza dell’errore è il segno che qualcosa sta cambiando. Per tutta la prima parte del romanzo Pinocchio può ancora sperare di farla franca, ma a partire da quel XVII capitolo in cui afferma il falso, incalzato dalle domande della Fata Turchina e il naso comincia ad allungarsi a dismisura, Pinocchio sa che l’agire male ha una conseguenza.
Almeno due considerazioni, dunque. Sebbene Biffi non ne faccia menzione, i goffi tentativi di Pinocchio di non assumersi la responsabilità delle sue malefatte ricordano un passo della Genesi:
“Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”. Rispose l’uomo: “La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”.[12]
Insomma, è sempre colpa di qualcun altro: il gatto e la volpe, Eva, la fame, lucignolo, il serpente tentatore, il teatro dei burattini… Mai colpa nostra.
La seconda considerazione riguarda le circostanze particolari in cui avviene il prodigio della crescita del naso: non quando Pinocchio commette il male, bensì quando nega di averlo commesso. Collodi sembra voler suggerire che la colpa non sta nell’essere stati così ingenui da farsi ingannare dal gatto e dalla volpe, né nell’essere stati vittima della cupidigia di possedere una quantità enorme di monete d’oro, nel desiderio di un arricchimento immediato e senza sacrificio. La vera colpa sta nel non voler ammettere tutto questo, perché senza ammissione non può esserci ravvedimento.
Dopo due considerazioni sulla menzogna, una sulla verità: non sono poche le volte in cui il burattino, nel corso delle sue avventure, dice la verità. Purtroppo senza essere creduto. Quando Pinocchio trova la determinazione per andare a denunciare il gatto e la volpe, il giudice-gorilla condanna lui a quattro mesi di prigione. Quando i compagni di scuola, durante una lite, feriscono alla tempia un ragazzo, Pinocchio, pur essendo innocente, non viene creduto e i gendarmi gli sguinzagliano dietro il cane Alidoro. Quando Pinocchio finisce nella rete del pescatore e per non finire in padella dichiara di non essere un pesce ma un burattino, il pescatore non si scompone e dice anzi che non vede l’ora di assaggiare questo rarissimo pesce-burattino.
È un mondo bizzarro quello in cui si muove Pinocchio, un mondo in cui la bugia è subito visibile, ma la verità rischia di passare inosservata e inascoltata.
Note
[1] C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, Roma, Newton Compton, 1992
[2] G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia. Commento teologico a «Le avventure di Pinocchio», Milano, Jaca Book, 1977
[3] G. Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Torino, Einaudi, 1977
[4] C. Collodi, op. cit.
[5] G. Biffi, op. cit.
[6] G. Manganelli, op. cit.
[7] G. Biffi. op. cit.
[8] G. Manganelli. op. cit.
[9] G. Biffi, op. cit.
[10] G. Manganelli, op. cit.
[11] G. Biffi, op. cit.
[12] Gn 3,11-12 in La Sacra Bibbia, Roma, C.E.I., 1974