Come lavora uno scrittore, e soprattutto uno scrittore convinto che la scrittura non si possa insegnare? Sembrerebbe paradossale, ma una delle risposte più franche e cordiali all’annosa domanda “Come si diventa uno scrittore?” ci viene, attraverso questo fulmineo prontuario pubblicato da minimum fax (2020), proprio da Vanni Santoni: l’autore, pur facendo parte del corpo docente di ben due scuole di scrittura creativa, si schiera in modo estremamente netto: la scrittura non si insegna.
«Non si può insegnare a scrivere, ma forse si può insegnare a pensare come uno scrittore», spiega quasi subito. Spostando il discorso sulla “mentalità”, e non sulla ricetta preconfezionata – che ovviamente non esiste –, Santoni passa a una rapida disamina di pareri illustri in accordo con lui: abbiamo tra gli altri Julio Cortázar, secondo cui «il solo fatto di chieder consigli ad altri in materia letteraria dimostra la mancanza di una vera vocazione», poi Giovanni Raboni («lo scatto del vero scrittore, solo la singola personalità se lo può dare») e Mario Soldati, sostenitore del vecchio adagio per cui per imparare a scrivere l’unico modo sia leggere e leggere. Natalia Ginzburg, col suo solito equilibrio, dice che si possono dare consigli più che insegnamenti, sfiorando il dibattito sul fatto che la scrittura sia un mestiere oppure no. Potremmo con Enzo Siciliano parlare di un artigianato della parola, e distinguere così la scrittura dei libri dalla scrittura di utilità (intesa quindi come prettamente atta alla comunicazione di informazioni e indicazioni).
L’idea di Santoni è che «infinite cose si possano scrivere in infiniti modi», e che perciò all’aspirante artigiano delle lettere sia più utile una buona selezione di dritte che la chimerica speranza di apprendere il Metodo. E la selezione di dritte da lui proposta è perfettamente esplicata nei titoli di ciascun capitoletto. «Dieta», «Disciplina», «Intermezzo», «Prima cosa da non fare», «Seconda cosa da non fare», «Terza cosa da non fare», «Quarta cosa da non fare», «Ostensione e pubblicazione».
Come si vede, lo spirito è anticonformista, giocoso, anche se i consigli sono più che seri. Nella sezione «Dieta» compare un primo approccio alla materia letteraria – o, più in generale, creativa – ovvero quello, fondamentale, della lettura, sotto forma di una serie di liste. Leggere, leggere, leggere, dunque. Consiglio banale? No, perché «Il nodo, infatti, non sono i precetti, quanto la loro applicazione». La dieta del lettore prescritta da Vanni alla prima lezione con ciascuno dei suoi gruppi consta di libri enormi, tra cui Alla ricerca del tempo perduto, Infinite Jest e l’Ulisse di Joyce, per provocare «una consapevolezza improvvisa delle vertiginose possibilità del romanzo».
Muovendosi tra le proprie stesse liste, che di pagina in pagina amplia, modifica, rivede, lo scrittore mette anche in guardia dalle cose che «rischiano di frustrare» per «troppo genio, troppa qualità concentrata», d’accordo con Rodrigo Fresán che ne La parte inventata dice no al Grande Gatzby poiché è perfetto, e sì a Tenera è la notte proprio in virtù della sua imperfezione: il lettore-scrittore non deve auto tarparsi le ali confrontandosi con esempi insormontabili.
Inoltre, non è necessario torturarsi con opere che si trovano indigeribili, perché, come si dice in nota, «Dato che la cosa più importante è cambiare passo nella lettura, se I fratelli Karamazov ti annoia, mollalo e passa a qualcos’altro».
E i manuali? «Nella dieta di uno scrittore, i manuali equivalgono agli integratori: possono essere eventualmente utili solo laddove prima si abbia il giusto apporto proteico». Va da sé che l’apporto proteico è rappresentato dal compendio di fondamentali che si trova in questa sezione: un elenco eclettico che induce a scorrere i titoli con una specie di impazienza mista a senso di colpa, questo l’ho letto? E questo? Per poi tirare un respiro di sollievo, sì, tra gli imprescindibili la mia media dei letti è buona…
Sempre nella «Dieta» apprendiamo che il genio in letteratura non è un requisito essenziale, e che la letteratura è fatica. Che bisogna dare un occhio anche alle «cose nuove, belle, che escono durante l’anno» e a quelle meno belle o addirittura brutte, perché fanno pur sempre parte del quadro generale.
È divertente perché a ogni obiezione, a ogni corsista che propone un titolo stupito che non sia in lista, Vanni Santoni risponde «Ma sì, aggiungilo», quasi a voler sottolineare il fatto che questi elenchi sono arbitrari, empirici, e che la quantità di libri validi è così vasta che ogni tentativo di classificazione risulta necessariamente riduttivo. L’occhio dello scopritore di talenti è però vigile, di qui l’attenzione riservata a questi corsisti bonariamente rintuzzati, «ammettendo che l’obiettivo sia non perderli per strada, dato che tra loro potrebbe comunque celarsi una grande scrittrice o un grande scrittore».
Per quanto riguarda il discorso sulla scrittura, e scendiamo qui nel vivo con la «Disciplina», l’autore ci tiene a sfatare alcune idee stereotipate e fasulle, quella che si scriva solo se sfiorati dall’ispirazione e quella della sindrome da pagina bianca. Bisogna scrivere tutti i giorni, punto. C’è anche l’indicazione di quante battute sia opportuno quotidianamente fare. Occorre concentrarsi. Vietato «dare un’occhiata alla posta, o al giornale, o ai social, o a fare tutte e tre le cose in cicli micidiali». Anche senza nulla di particolarmente impellente da scrivere, è necessario plasmarsi all’atto dell’espressione su carta come a un esercizio costante, che si accresce per consuetudine: «È lì che arriva il vero cambio di passo. Non si è più costretti a pensare a cosa scrivere quando ci si mette al tavolo, perché lo si è già pensato mentre si faceva la spesa, mentre si cercava parcheggio, mentre si portavano i figli a scuola, mentre si svolgeva un altro lavoro, mentre ci si addormentava».
La mente dello scrittore, in altre parole, è qualcosa che una volta messo in moto tende a creare una realtà parallela, silente ma sempre operativa, che funziona in background, per cui nell’atto concreto di scrivere «si entra in uno stato di coscienza simile a una leggera trance – c’è chi lo ha chiamato deep play, chi alpha state – in cui si trova un equilibrio tra il livello di sfida e le proprie capacità».
Qui la disciplina. Nel discorso del progressivo avvicinamento a ciò che si ritiene possa soddisfare il suo creatore. Sì anche alla scrittura multipla, ovvero al portare avanti contemporaneamente «tre, quattro o cinque capitoli (o linee narrative)», o addirittura racconti diversi, come in un enorme gioco a più piani.
Le cose da non fare sono le «Cose che uno scrittore, o almeno qualcuno che abbia imparato a pensare come uno scrittore, non farebbe mai», tra cui il ricorrere ai cliché («Se suona già detto, è da cambiare»). Dopo aver riportato una serie di grafie isolate che sono effettivamente ricorrenti nella maggior parte delle cose che si leggono (e quindi che si scrivono), Santoni esprime un concetto chiave, cioè che «un libro poco o per niente interessante ha almeno uno di questi tre difetti, e spesso due o anche tutti e tre: assenza di necessità, assenza di specificità, assenza di conflitto». Il primo difetto fa riferimento al fatto che se nella storia appare un fucile, entro la fine del racconto esso deve sparare; il secondo al trovare la voce: riuscire a mostrare al lettore esattamente quella cosa come la vedi tu, non un’altra o una qualsiasi; il terzo al fatto che «si può scrivere un grande libro anche senza conflitto, ma allora si deve avere un grandissimo, enorme stile». Relativamente a revisione e confronto, lo scrittore prosegue con i buoni consigli derivati dalla propria esperienza e da quella dei colleghi, riuscendo a mettersi molto bene nei panni di chi è alle prese col suo primo romanzo/racconto finito e con chi «arriva a compiere quel gesto di suprema presunzione che è l’invio di un manoscritto». Santoni quindi parla del pericolo di fare l’orecchio al proprio testo – assuefacendosi cioè ai difetti, perché ormai ci suonano bene – e di quello di evitare l’intervento troppo a lungo, rischiando che il testo si «coaguli».
La scrittura e la nostra relazione con essa è in continuo mutamento, motivo per cui un testo riletto a distanza di tempo può destare sensazioni del tutto diverse persino in chi l’ha scritto e, magari, già superato. Ci parla poi del «”punto di rottura” oltre il quale un testo non è più revisionabile» e a ritoccarlo ulteriormente invece di migliorare peggiora, e dell’importanza di evitare gli intimi come revisori, invitando a cercare qualcuno di disinteressato, che abbia fatto dello scouting una professione. Qui entrano in campo le riviste letterarie: «Unirsi a una rivista è utile anche perché permette il confronto con un primo filtro editoriale», e, nelle note, che in tutto il pamphlet dilatano il testo e intessono col lettore un discorso più confidenziale, «quello che, in senso più ampio, devi cercare, è un pezzetto di “società letteraria”, anche minuscolo, mai un gruppo di auto-aiuto».
Giungiamo così alla «Pubblicazione»: l’ultimo tassello, che invece è l’inizio! Siamo a pagina 84, e in un’improvvisa vertigine si spalanca, come una voragine al contrario, tutto il vortice di cose che derivano dall’aver pubblicato un libro: «Questo perché pubblicare un libro non vuol dire solo mettere l’inchiostro sulla carta o il nome in copertina», ma significa anzi difenderlo, promuoverlo, iscriverlo a premi e concorsi, partecipare a fiere-eventi-presentazioni, e non stancarsi di parlarne, di rileggerlo, di seguirlo, di accompagnarlo.
È una fase delicata, anche perché solitamente, per dirla con Buzzati, «l’autore ha l’impressione che folle sitibonde attendano il suo romanzo e che a questa rivelazione si opponga, per misteriosi motivi, l’insipienza degli editori». Evitare il self-publishing e la famigerata editoria a pagamento sono i passi necessari per diventare un vero scrittore, o almeno qualcuno che possa aspirare a ragione a essere notato da un editore di livello. Santoni racconta che in qualità di direttore della narrativa di Tunué ha spinto in più di un caso un giovane autore a diventare tale, a trasformare cioè gli scritti che avevano attirato la sua attenzione in un romanzo o in qualcosa di organico.
Avrò la forza per affrontare tutto ciò?, potrebbe chiedersi a questo punto il lettore, che di certo durante il denso viaggio di La scrittura non si insegna si è divertito e ha imparato, ma si è anche spaventato.
È la pratica della scrittura, la militanza, la voglia di circondarsi di gente che frequenta questo mondo a fare la differenza, sembra rispondere Santoni, tornando a visualizzare la rivista letteraria come una palestra: se per esempio «hai la forza di inventarti una rivista, raccogliere gente intorno a te, […] stamparla e cercare di promuoverla nella raggelante indifferenza del mondo, allora, probabilmente, avrai anche la forza per diventare uno scrittore».
Ne esce un quadro un po’ pionieristico, molto antiaccademico, di certo vivace. E bellissima resta l’immagine che Santoni ci dà dell’editoria italiana, un po’ umoristica un po’ realistica, tra ironia e assoluta fiducia: «La singola casa editrice potrà mancarlo, anzi quasi certamente lo mancherà, ma ogni casa editrice è una rete piena di buchi messa sotto la precedente: prese singolarmente mancano un sacco di libri, ma tutte assieme è quasi impossibile che si lascino sfuggire qualcosa di veramente buono».