Philodiffusione #8

Tempo di lettura stimato: 9 minuti
Complice un gruppetto di amici manichei, equamente suddivisi tra tecnoentusiasti e bioconservatori (cfr., per questa classificazione, Luca Grion, “Chi ha paura del postumano?”, Mimesis, Milano-Udine 2021), ultimamente ho ceduto anch’io, in più occasioni, alla tentazione di testare le capacità della famosa (e già famigerata) Chatgpt, il software informatico senza dubbio più discusso degli ultimi mesi.
In primo piano, Charlton Heston in “Ben Hur”, di William Wyler, 1959.

La chatbot ha avuto un successo tale da aver sortito il paradossale effetto che di essa ci si imbarazza a parlare, essendo quasi ogni discorso inflazionato dalla miriade di commenti che ha suscitato in rete. Lasciamo quindi perdere, almeno questa volta, le molte considerazioni che si potrebbero fare a margine della sua “intelligenza artificiale” e di tutte le implicazioni che questa espressione apparentemente ossimorica trascina con sé. Anche perché l’altro giorno a OpenAI non mi sono rivolta con il proposito di stanare debolezze o di confermare doti mirabolanti, bensì mi sono voluta servire di essa sperando che rispondesse a una mia recente curiosità. La conversazione non è stata semplicissima:

– Potresti elencarmi i titoli dei film più lunghi usciti negli ultimi 5 anni?
– Mi dispiace, ma non ho informazioni sulle lunghezze dei film usciti negli ultimi 5 anni.

Non ho però voluto demordere:

– Potresti elencarmi i titoli dei film più lunghi usciti tra il 2019 e il 2021?
– Ecco alcuni dei film più lunghi usciti tra il 2019 e il 2021: 1. “A [Si blocca la digitazione]
– Potresti continuare ad elencarmi i titoli dei film più lunghi usciti tra il 2019 e il 2021?
– Mi dispiace, ma non ho informazioni specifiche sui titoli dei film più lunghi usciti tra il 2019 e il 2021. [Bene, ma non benissimo]. Tuttavia posso dirti che alcuni dei film più lunghi in generale sono stati “The Irishman” (2019) con una durata di 209 minuti, “Avengers: Endgame” (2019) con una durata di 181 minuti e “Tenet” (2020) con una durata di 150 minuti.

A questo punto decido di procedere autonomamente su Google search, un mezzo che come spesso accade con gli strumenti tecnologici, appare ormai quasi obsoleto di fronte a queste più recenti frontiere. In questo caso, però, la modalità “mista” di interazione tra le nostre due forme di intelligenza (se così si può dire) funziona meglio che la consultazione oracolare della chat. Con un po’ di sforzo ottengo infatti più informazioni utili sul tema di mio interesse. Acquisisco così un insieme di dati in ordine sparso, che non mi permettono una classifica, ma che comunque mi pare rendano l’idea. Limitandoci al biennio che ci precede, durante il 2021 sono usciti almeno tre film di cui abbiamo tutti sentito parlare che hanno sforato la barriera delle due ore e mezza, più un quarto (Don’t look up), che è stato entro questo limite per appena 5 minuti. Trattasi di: Dune (2 ore e 35 minuti), House of Gucci (2 ore e 37 minuti), Drive my car (2 ore e 59 minuti). Quanto all’anno scorso, invece, sempre prendendo un campione con cui non intendiamo fare statistica, ricordiamo almeno: Bardo (2 ore e 39 minuti), Babylon (3 ore e 9 minuti), Avatar 2 (3 ore e 12 minuti), Esterno notte (5 ore).

Interessante evidenziare, di questa seconda serie, almeno un paio di elementi: Avatar 1, uscito nel 2009 misurava “appena” 2 ore e 42 minuti, ma nell’immaginario collettivo (e persino nella classifica di Open ai) viene incluso nella lista dei film più lunghi di sempre, a fianco di classiconi del calibro de Il signore degli anelli (2 ore e 48 minuti) o Titanic (3 ore e 30 minuti). Quanto alla più recente fatica di Bellocchio: si tratta in questo caso non propriamente di un sequel ma comunque, e fin dalla scelta del titolo, del contrappunto a un’altra pellicola (Buongiorno notte) firmata dallo stesso regista e uscita nel 2003. Il film di vent’anni fa durava 1 ora e 46 minuti, mentre il più recente eternometraggio è, appunto, talmente lungo che a fini televisivi si è preferito spacchettarlo in 6 diversi episodi e apporgli l’etichetta trendy di “miniserie”.

A me pare di non esagerare dicendo che vi è una tendenza alquanto marcata e sempre più diffusa a espandere smisuratamente i tempi cinematografici, al punto che non vale nemmeno più la dicitura di kolossal per film eccezionali quanto a dispiegamento di mezzi produttivi e durata complessiva. Di Ben Hur o di Lawrence d’Arabia ormai ne escono una manciata ogni anno e la relativa catalogazione, divenuta ridondante, è stata di fatto abbandonata. Le ragioni che possono spiegare questo fenomeno sono evidentemente molteplici: si potrebbe persino arrivare a ipotizzare che nell’epoca della smaterializzazione dei mezzi di registrazione non è più necessario essere parchi nella gestione del “girato”, potendo finalmente sfogare ogni appetito registico. A questo proposito Chatgpt ci viene in aiuto:

– Quali sono secondo te le ragioni per cui oggi si producono sempre più spesso film molto lunghi (che superano le due ore e mezza)?

– Ci sono diverse ragioni per cui oggi si producono sempre più spesso film molto lunghi che superano le due ore e mezza.

Una ragione potrebbe essere la volontà dei registi e degli sceneggiatori di raccontare una storia complessa e dettagliata, che richiede una maggiore durata per essere esplorata in modo adeguato. Inoltre, i film di oggi tendono ad essere molto più visivamente elaborati rispetto al passato, e questo può richiedere più tempo per mostrare gli effetti speciali o le scene d’azione.

Inoltre, i film di oggi sono sempre più spesso adattamenti di libri o fumetti, che hanno una trama e personaggi più articolati e che per essere rappresentati in modo fedele nei film richiedono tempi maggiori.

Inoltre, in alcuni casi la lunghezza di un film può essere influenzata dalle esigenze del mercato, ad esempio i film dei grandi franchise o dei blockbuster hanno una durata maggiore rispetto ai film indipendenti perché sono progettati per essere visti da un pubblico più ampio e per avere un maggior appeal per il mercato internazionale.

Il bot ci fornisce degli spunti di riflessione, anche se credo sia il caso di tenere in considerazione un altro fattore, cui sembra vagamente alludere anche la chat che, dal mio modesto e umanissimo punto di vista, rischia di venire scritturato per la parte dell’“elefante nella stanza” e che quindi è opportuno non trascurare. Mi sto riferendo alla diffusione (che ormai è già un dilagare incontrollato) del format della serie televisiva.
Se negli anni Novanta questa formula esisteva, ma agli spettatori gli episodi venivano somministrati in dosi che oggi ci appaiono poco più che omeopatiche (una mezz’oretta a settimana, sempre che la programmazione televisiva non subisse modifiche dell’ultim’ora), recentemente il pubblico è stato abituato a full immersion sempre più massicce nell’intrattenimento cinematografico, al punto che dal mondo anglosassone è arrivata l’ennesima catalogazione del fenomeno: binge watching, ovvero una scorpacciata di proiezione che rischia facilmente di trascendere nell’abbuffata ingorda, con tutti gli effetti collaterali del caso, in primo luogo a detrimento della salute mentale degli spettatori. È anzi buon gioco dei produttori (ormai per tutti un segreto di Pulcinella più che una sottile strategia di marketing) inanellare gli episodi attraverso continui enjambement narrativi, di modo che il climax della trama raggiunga l’apice, guarda caso!, proprio al momento della conclusione di un episodio, in favore quindi dell’inizio di quello successivo. In questo modo si fatica a sganciarsi dallo schermo, al quale si rischia di rimanere incollati per ore, notti, intere giornate.

Scegliendo di fare lo slalom tra i molti temi collaterali che sono connessi al nucleo di queste considerazioni, decido di evitare in questa sede di dare un giudizio un po’ più analitico su questo fenomeno di massa e sulle sue inevitabili conseguenze sociali, relazionali e persino politiche. Non mi trattengo invece dal trarre alcune riflessioni che concernono gli esiti in campo strettamente cinematografico. Lo faccio forse un po’ egoisticamente, a partire dal fatto che, almeno per il momento, mi sento immune dal fascino indiscreto del format Netflix.

A pensarci meglio, quella della durata dei film è una tematica la cui esigenza è smaccatamente autobiografica: da un lato, la più recente serie tv che ho visto ha mandato in onda l’ultimo episodio nel 2004 (nel quale Ross e Rachel si dichiarano finalmente amore eterno), d’altro canto trovo sempre più disturbante l’esperienza cinematografica, che non soltanto si protrae per un tempo per me spesso eccessivo, ma che altrettanto mi lascia sempre più di frequente l’impressione che una buona metà di quello che ho visto fosse tutto sommato irrilevante ovvero eliminabile da una buona operazione di montaggio.

Capisco (fin lì) che dopo due millenni e mezzo il riverbero del dettato aristotelico si avverta più debolmente e che dunque la preferenza dello Stagirita per la tragedia rispetto all’epopea sulla base del fatto che la prima non è “illimitata nel tempo come la seconda” abbia perso un po’ di appeal. Questo però non può condurci a una pornografia della visione, ovvero a un prodotto cinematografico volgarmente esibizionista, nel quale si inseguono e si intrecciano le vicende di una pletora di personaggi (questo lo ammette anche la chatbot), al punto che è sempre più difficile distinguere i principali dai deuteragonisti, così come è diventato sempre più arduo riassumere in poche parole il quid di un film. Il pubblico sembra chiamato a intrufolarsi nella trama, a divenire voyeur più che spettatore, guardone di un universo complesso, articolato, ma sempre meno significativo.

Di pari passo con l’abbandono dei precetti aristotelici, sembra essersi affievolita anche la funzione catartica della visione: più che di partecipazione e purificazione emotiva, si parla sempre più spesso di dipendenza, impellenza e bisogno nei confronti della specifica forma del godimento cinematografico che, come da copione lacaniano, trascura l’aspetto del desiderio, dell’erotica dell’ambiguità e del non detto, che sapientemente lascia in sospeso senza il bisogno di ulteriori fotogrammi che spieghino, in appendice, ciò a cui si era scelto di alludere. Se Aristotele ci appare troppo distante dalla nostra sensibilità, e comunque il richiamo alle sue parole ci espone alle critiche di chi ci facesse notare che esse si riferivano a un altro genere artistico, diamo ascolto a un grandissimo del cinema (e che nessuno osi citare Fantozzi in controffensiva!):

il montaggio non è tanto un mezzo per riprodurre l’immagine di un oggetto di un fenomeno in genere (l’immagine dell’oggetto “in quanto tale”), quanto, piuttosto, un procedimento che mira fondamentalmente a dare un’immagine orientata; non una riproduzione, ma proprio quell’immagine che meglio evidenzia un atteggiamento nei confronti dell’oggetto o del fenomeno. (S.M. Ejzenštejn, Teoria generale del montaggio, Marsilio, Venezia 2004, 4a ed., ed. or. 1963-70, p. 219)

Il montaggio rappresenta un’operazione squisitamente cinematografica, che implica una scelta e selezione di dettagli che, in quanto pars, riescono nondimeno ad alludere ad un toto che prende forma grazie all’immaginazione di ciascun spettatore. Non dobbiamo perdere di vista l’importanza di questo procedimento né rinunciare ad esso in favore di una bulimia di immagini, anche perché, ci ricorda ancora Ejzenštejn, esso si configura come un’operazione essenziale non soltanto per il cinema:

l’estrarre con il montaggio singole configurazioni da un certo materiale e correlarle in determinate combinazioni è alla base di qualsiasi atteggiamento cosciente e intenzionale nei confronti della realtà (ivi, p. 168).

Condividi:

Silvia Capodivacca

ha studiato Filosofia e Storia tra Padova, Bologna e New York. Attualmente svolge attività di ricerca all’università di Udine e collabora con la casa editrice Loescher come autrice e formatrice didattica. Maggiori informazioni e aggiornamenti sulla sua attività sul sito personale, www.silviacapodivacca.com.

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it