Philodiffusione #3

Tempo di lettura stimato: 7 minuti
Esercizi spirituali di Goliarda Sapienza. Nella terza puntata della nostra rubrica di recensioni filosofiche, note sul “Filo di mezzogiorno”.

“Goliarda Sapienza”

Mi è già capitato di scrivere di Goliarda Sapienza, una scrittrice che ho conosciuto per la prima volta qualche anno fa, tra gli scaffali di una libreria mentre mi trovavo all’estero. Ricordo che non riuscivo a comprendere come combinare quello che vedevo sulla copertina del volume: un’espressione inglese – “The Art of Joy” – preceduta da due parole italiane – “Goliarda Sapienza” – che per me rappresentavano un programma e un manifesto, ma di cui non comprendevo perché non fossero state altrettanto tradotte.
Ho sciolto l’enigma poco dopo, ma quando mi sono accinta a leggere il libro mi sono nuovamente dovuta correggere: Goliarda Sapienza erano sì il nome e il cognome dell’autrice, ma, per felice coincidenza onomastica (e forse destinale) anche il manifesto della sua poetica, perlopiù autobiografica. Di quel nome mi piaceva tutto, anche il suffisso che, vocabolario alla mano, viene definito «derivativo di aggettivi, spesso sostantivati, tratti da nomi e aventi quasi sempre una connotazione peggiorativa: beffardo, bugiardo, dinamitardo, infingardo, testardo».
Dalle sue opere traspare di Goliarda un carattere sorprendentemente simile a quello descritto dalla sequenza di aggettivi riprodotta, ciascuno dei quali non costituisce però un difetto ma un segno distintivo del radicale esercizio di libertà che ha praticato nella sua vita. Si tratta di una Sapienza gioiosa, perfino di una “gaia scienza” come ho cercato di dimostrare altrove, ovvero di un modo del tutto originale di uscire dal conformismo di dinamiche istituzionali socialmente proposte e troppo spesso imposte.

Un totale anti-istituzionalismo

È quindi particolarmente curioso leggere Il filo di mezzogiorno (1969, La nave di Teseo, Milano 2020, 2a ed.), un libro che l’autrice redige dopo l’esperienza diretta che ha fatto dell’ospedale psichiatrico, una di quelle “istituzioni totali” secondo la categorizzazione proposta dal sociologo Erving Goffman. In Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza (1961, tr. it. di Franca Ongaro Basaglia, Einaudi, Torino 2003) leggiamo:

Le organizzazioni sociali – o istituzioni nel senso comune del termine – sono luoghi, locali o insiemi di locali, edifici, costruzioni, dove si svolge con regolarità una certa attività. In sociologia non esiste un modo particolare di classificarle […]. Nella nostra società occidentale ci sono tipi diversi di istituzioni, alcune delle quali agiscono con un potere inglobante – seppur discontinuo – più penetrante di altre. Questo carattere inglobante o totale è simbolizzato nell’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno, spesso concretamente fondato nelle stesse strutture fisiche dell’istituzione: porte chiuse, alte mura, filo spinato, rocce, corsi d’acqua, foreste o brughiere. Questo tipo di istituzioni io lo chiamo “istituzioni totali” (ivi, ed. dig.).

La scrittrice non avrebbe probabilmente nemmeno operato la distinzione tra le organizzazioni sociali e le istituzioni totali, standole stretto il concetto stesso di senso comune, che norma le identità individuali rendendole conformi a standard di fatto impersonali. Con il racconto del suo rapporto con l’istituzione totale dell’ospedale psichiatrico, Sapienza riporta l’eccezione alla ribalta, senza che quest’ultima possa semplicemente venire liquidata come tale, cioè nei termini di un’anormalità di cui ci si può disinteressare e che va lasciata in gestione a chi, in favore di tutti gli altri membri della comunità, si occupa di confinarla ed escluderla dall’orizzonte quotidiano della socialità accettata.

Il sottile filo narrativo

Il filo di mezzogiorno è eccezionale perfino sul piano dello stile di scrittura adottato, che segue l’andamento degli stati psichici ed emotivi della protagonista: si rintracciano capitoli che terminano con un’interrogazione lasciata in sospeso, altri che cominciano con una negazione, oltre a una costellazione di ricorrenti black-out, brusche interruzioni che mimano le scelte di alcuni terapeuti di bloccare il flusso di pensieri in momenti reputati apicali e che però in questo caso dipendono dalla paziente stessa e che rischiano continuamente di far perdere al lettore, appunto, il sottile filo meridiano che tiene insieme la narrazione.
Ma è sul piano del contenuto che il testo fa emergere la carica eversiva che lo connota, nonostante, di fatto, si tratti della registrazione del lungo dialogo che, negli anni, è intercorso tra la protagonista e il suo psicoanalista. Fin qui niente di straordinario, anzi può risultare anche abbastanza noioso divenire partecipi di questo genere di scambio intimo, un po’ come, nel caso del racconto dei sogni, rischiamo di rimanere impassibili o comunque imperturbati di fronte ai sommovimenti emotivi dell’interlocutore che però non ci riguardano. Il setting analitico è simile: trattandosi, da un lato, di conversazioni soggettive, la generalizzazione emblematica è rara. D’altro canto, essendo uno scambio di informazioni private più che segrete, anche la componente maliziosa viene meno e con essa scema proporzionalmente l’interesse. Il filo di mezzogiorno è sia soggettivo sia privato, eppure non permette un calo di attenzione, che anzi aumenta esponenzialmente una pagina dopo l’altra.

«Questo non è naturale, non è genuino, è artefatto»

Questo accade perché più che di uno scambio di battute, il lettore è reso partecipe di una competizione agonistica tra due visioni del mondo tra loro distantissime. Da una parte la normatività analitica apollinea, vettore di misura, ordine e buon senso, dall’altra non un aperto rifiuto o una esplicita ribellione a questo sistema, bensì l’apertura di un panorama in cui questo assetto non è più significante. Sapienza non si infuria con il medico paternalista (oggi diremmo patriarcale) che la apostrofa nei termini di una donna coraggiosa, «forse un po’ troppo», anzi reagisce con la sospesa ingenuità di chi non comprende, perché parla una lingua completamente diversa: «Non mi pare che ci sia tutta questa differenza che lei mi dice tra uomo e donna, si tratta di individui e individui» (ivi, p. 95).
Così, anche di fronte alle incalzanti provocazioni dell’analista – «la sua reazione […] sapevo sarebbe stata passiva», «la sua mancanza di aggressività è la sua malattia» – che culmina (con tanto di lapsus linguae) nella sequenza normativa «questo non è naturale, non è genuino, è artefatto, non è naturale», Sapienza reagisce mostrando la nudità del re e di tutta la sua corte, cioè del medico e dell’istituzionalizzazione della psiche promossa da una terapia che pretende di correggere e costringere al conformismo dei costumi, ovvero alla pratica più innaturale.

Perché secondo lei viviamo secondo natura? […] Mi scusi, ma proprio questo atteggiamento possessivo che lei mi vuole far passare per genuino, sano, mi pare malato e immorale (ivi, pp. 162-163).

In punta di piedi, senza il clamore della contrapposizione frontale, la protagonista smaschera, qui come in altri passi, la sottile linea di violenza manipolatoria che passa attraverso ogni discorso morale. Perché distinguere il bene dal male, il normale da ciò che non sarebbe tale, pone l’estensore del discorso nel ruolo del giudice, che si arroga il diritto di approvare oppure di condannare le vite degli altri. Ma quello di non mettere in discussione l’esistenza stessa di un metro di misura di correttezza e di errore per i sentimenti e gli stili di vita è un atto, allo stesso tempo, di colpevole pigrizia e di bestiale arroganza, oltre che di gretta stupidità. Ci ricorda il filosofo Geoges Canguilhem: «non esistono fatti normali o patologici in sé. L’anomalia o la mutazione non sono in se stesse patologiche. Esse esprimono altre possibili norme di vita» (Il normale e il patologico, 1966, tr. it. M. Porro, Einaudi, Torino 1998, p. 114).

Goliarda Sapienza ci indica la strada per liberarci dal lessico asfissiante della morale. Non per caso, nell’economia narrativa del testo (non sappiamo se sia accaduto davvero), alla fine lo psicoanalista getta la spugna, abbandona una professione che finisce per apparirgli «di nessuna utilità» (ivi, p. 194). La protagonista, invece, riserva a sé l’ultima parola, quella che precede il silenzio perché inaugura il sentiero della vita anarchica e finalmente autarchica, che non ha bisogno di altro che di sé:

Non cercate di spiegarvi la mia morte, non la sezionate, non la catalogate per la vostra tranquillità, per paura della vostra morte, ma al massimo pensate – non lo dite forte la parola tradisce – non lo dite forte ma pensate dentro di voi: è morta perché ha vissuto (ivi, p. 200).

Condividi:

Silvia Capodivacca

ha studiato Filosofia e Storia tra Padova, Bologna e New York. Attualmente svolge attività di ricerca all’università di Udine e collabora con la casa editrice Loescher come autrice e formatrice didattica. Maggiori informazioni e aggiornamenti sulla sua attività sul sito personale, www.silviacapodivacca.com.

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it