Cos’è Lanark?
Il nome di Lanark indica un romanzo, ma anche un labirinto in cui la fantascienza si confonde con la distopia e la metanarrazione. Con il suo opus magnum, che nel 1981 vede la luce dopo quasi trent’anni di lavoro, Alasdair Gray ci coinvolge in un’avventura senza bussola, in cui ogni lettore è invitato a stracciare ogni mappa prima ancora di partire.
Domandarsi: cos’è Lanark? equivale a provare a interrogarsi sui significati di un sogno febbrile e profondamente allegorico, per il quale non si hanno a disposizione legende esplicative. Volendo ridurre all’osso la trama, diremo che ci troviamo di fronte a un’epica fantascientifica che getta il suo protagonista, l’omonimo Lanark, negli abissi claustrofobici di Unthank.
Questa distopia urbana è anche un incubo metabolico e sociale: privata di luce naturale, in questa città il tempo viene misurato in battiti cardiaci regolari e la sopravvivenza si fonda su un orrore primario – il consumo di carne umana –, di cui però solo Lanark pare lamentarsi, mentre la popolazione è devastata da malattie bizzarre, icone di una complessiva degenerazione esistenziale. Su tutte spicca la dragonite, che trasforma gli esseri umani in creature inquietanti, le cui membra fossilizzate o bestiali evocano, con potenza visiva che non può non richiamare alla mente la zampetta antropomorfa nell’iconica foto di Sebastião Salgado in Genesis, un dettaglio perturbante che diventa metafora di un’umanità in regressione forzata.
In questo inferno, Lanark intraprende un percorso di consapevolezza. La sua ricerca è ancestrale, perché vuole conoscere il proprio passato, apparentemente ablato dalla sua memoria cosciente. Il desiderio sarà soddisfatto solo in parte, poiché, nell’economia della storia, infanzia e giovinezza del protagonista si sviluppano a partire da un’altra origine, come se la vita di Lanark fosse soggetta a una doppia escatologia.
Nonostante siano collocati tra il terzo (che apre il romanzo) e il quarto, i libri primo e secondo non seguono la linea logica di un flashback convenzionale, bensì intrecciano una realtà anagraficamente complementare del protagonista, tassello fondamentale ma affatto estraneo alla seconda tessera del puzzle complessivo che è la sua identità.
Siamo di fronte a un montaggio narrativo audace di cui Ejsenstein andrebbe particolarmente fiero, pastiche po-mo quasi cinematografico. L’assemblaggio, in effetti, avviene sul livello editoriale, quindi strutturale, architettonico, prima ancora che entro i confini della diegesi: è lo scheletro stesso del romanzo a essere contorto, a creare una complessità di intreccio che trascende le consuete regole sintattiche della letteratura.
Ma la genialità di Lanark non risiede solo nella sua struttura. Gray ci offre anche una potente metafora esistenziale: basta una bocca che risucchia le persone per ritrovarsi, come accade agli abitanti di Unthank, a vivere un’esistenza radicalmente altra rispetto alla precedente. L’immagine, di un orifizio che proietta sull’ignoto, trascende perversioni e letture patologiche: non c’è, in Gray, scissione schizofrenica, né si può parlare di un semplice cambiamento di rotta.
Al netto del raccapriccio che suscita, la scena diventa pertanto un monito esistenziale: siamo poco inclini, forse persino incapaci di osservare i punti di rottura nell’ordine newtoniano che proiettiamo ossessivamente sul reale per dargli un senso rassicurante. Ma prestare ascolto al caos non è necessariamente un esercizio che richiede un grande sforzo analitico o una particolare predisposizione. Come accade ai personaggi in Lanark, il disordine può irrompere, assorbirci totalmente e senza preavviso, spalancando un varco – che per forza di cose assume le fattezze di un abisso – nella fragile continuità della nostra quotidianità.
Anche se sembra impossibile, può succedere a chiunque di perdere contatto con il proprio passato, di essere catapultati in un orizzonte di vita radicalmente diverso, di venire proiettati, senza piena consapevolezza delle singole tappe che sfociano nella metamorfosi, in una dimensione di estraneità che equivale, di fatto, a vivere un’altra esistenza.
Questo salto non è per forza un male o una perdita: talvolta, anzi, è proprio il caos che mette all’opera, nell’arco di una singola vita biologica, una quantità di multiversi apparentemente inconciliabili. Gray porta alla ribalta la vertigine di questa varietà, attivando le potenzialità delle moltitudini che ognuno di noi racchiude. Il passaggio attraverso la bocca è così, per tutti, un’apertura verso le infinite, mutevoli configurazioni del sé che sfidano la narrazione rettilinea della nostra identità.
C’è tutto, ma non nell’ordine in cui te lo aspetteresti
In Lanark c’è di tutto: distopia viscerale, ricerca identitaria, critica sociale, l’elemento fantastico declinato nel grottesco, le vertigini dell’amore e dell’abbandono. Eppure, nulla si dispiega nell’ordine atteso, come se il tessuto della realtà narrativa seguisse l’ordito di una logica deformante: «Mi sa che vado a fare il guardiano del faro», annuncia Duncan Thaw, giovane alter ego del protagonista, «per poter camminare in traiettorie a spirale». Il motivo del ricciolo torna, qua e là, anche in altri momenti, a dimostrazione che lo schema progettuale dell’opera rispecchia frattalmente la convinzione che in nessun caso da A a B si possa procedere tracciando una semplice linea diritta:
Lei ha visto una città e la immagina collocata in un futuro, un luogo da raggiungere viaggiando un’ora, un giorno o un anno; ma l’esistenza è elicoidale e quella città potrebbe essere lontana secoli. (A. Gray, Lanark. Una vita in quattro libri, Safarà, Pordenone 2024, p. 74).
A Unthank, dove il tempo non scorre e lo spazio non si estende, la storia ruota attorno a una spirale esistenziale, traccia di una frammentazione controllata che è la messa a punto di un disordine narrativo ben calcolato, e che costringe il lettore a un ruolo attivo, a costruire cioè un senso complessivo libro dopo libro. In un momento storico in cui siamo abituati a ricevere risposte istantanee a ogni quesito immaginabile e, a costo di allucinare la replica, non viene contemplata la possibilità che un interrogativo resti senza riscontro, Alasdair Gray ci restituisce il contatto con l’impegno di un percorso più lento, dove l’attrito della perplessità attiva la dinamica di desiderio che scaturisce dalla lettura del testo.
L’atmosfera che si genera è kafkiana nella sua essenza claustrofobica e per la sensazione, che da essa promana, di ineluttabile ambiguità. Un debito, quello nei confronti del praghese, reso esplicito, assieme a molti altri, dallo stesso Gray nel cosiddetto – la cautela terminologica è d’obbligo – Epilogo, corredato da un «indice di diffuso e integrato plagiarismo» (p. 9).
Questa sezione metaletteraria, nella quale, senza apparente ragione, vengono elencati tutti gli impliciti riferimenti delle cinquecento pagine precedenti e delle cento successive, fa certamente l’occhiolino al postmodernismo, ma è al contempo anche una dichiarazione programmatica di appropriazione creativa. Quindici anni prima dell’horror vacui intellettuale che in Infinite Jest (1996) spinge David Foster Wallace ad ancorare ossessivamente (con note a piè di pagina e note alle note a piè di pagina) ogni svolta narrativa a riferimenti enciclopedici, Lanark precorre una scrittura che fa della citazione, della sincope letteraria e del metalogo personaggio-autore i capisaldi costitutivi della poetica di Gray.
Tra le righe della vicenda trovano collocazione anche numerosi, glaciali, non-sense e una consistente quantità di scarti logici: sono glitch che tengono il lettore in uno stato di costante insicurezza (cosa mi aspetta alla prossima pagina?), sospeso tra l’incredulità e un assurdo che sfiora l’illogico puro e che trasforma anche le più banali interazioni in deragliamenti esistenziali:
“Dove ti ho visto prima?”
Lei sorrise e scosse la testa. “Non saprei”.
“Mi pare proprio di conoscerti”.
“Ne dubito”.
“Ti ho uccisa, vero?”.
Lei si allontanò di colpo e disse: “Oddio! […] Ma guarda un po’ che razza di discorsi da fare a una festa! Neanche ci conosciamo e già mi chiede se una volta mi ha ammazzata […] Portami via da questo stronzo”.
A. Gray, Lanark. Una vita in quattro libri, Safarà, Pordenone 2024, p. 41
Se è vero che Lanark si presenta come un’opera frammentata e ricca di cortocircuiti narrativi e dialogici, in cui la vertigine dell’assurdo si accompagna a un costante senso di spaesamento, non bisogna dimenticare che a dominare l’orizzonte tematico e stilistico del romanzo è proprio un’inarrestabile propensione all’onnicomprensività. Quest’ambizione totalizzante, che fa del romanzo di Gray un contenitore di pluriversi narrativi e filosofici, trova forse la sua metafora più potente e visivamente perturbante nell’immagine del Larverme.
Una sera, nel tentativo di tenersi lontano dal sonno, Duncan Thaw fantastica di una creatura inquietante, il Larverme appunto, un lombrico parassita caratterizzato dalla predisposizione a divorare l’organismo che lo ospita. Nella immaginazione del protagonista, l’attitudine fagocitante raggiunge un climax paradossale, al punto che «il corpo dell’ultimo Larverme conteneva la carne di tutto quello che era mai vissuto. Era felice» (ivi, p. 260). La visione, grottesca e sublime al tempo stesso, aiuta a descrivere efficacemente Lanark stesso, un’opera che in effetti ambisce a contenere, assimilare e rielaborare ogni possibile stimolo.
Come il Larverme, che porta in sé l’intera carne dell’esistenza, il romanzo ingloba molteplici dimensioni narrative, assurgendo al rango della grande letteratura mitopoietica. È possibile, lo abbiamo riconosciuto fin dall’inizio, leggerlo come un testo di fantascienza distopica, a condizione di riconoscergli la capacità mitologica che ne fa un’opera dalle risonanze universali.
Ma si può anche decidere di perdersi, più che nella trama, nella stratificazione filosofica del testo, di trattarlo alla stregua di un libro sapienziale che interroga ad ampio raggio il mondo degli umani, dalla politica alla psicologia, dalla storia all’estetica all’ontologia. A prescindere dalla specifica caratterizzazione del personaggio che di volta in volta si fa portavoce di un certo contenuto, è un piacere, con Lanark, assaporare il gusto della ricerca e del pensiero che riverbera in ogni sua pagina.