Philodiffusione #1

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Di zecche e di pietre nel film Parasite (Bong Joon-ho, 2019): inauguriamo una nuova rubrica di recensioni (letture, visioni) filosofiche, a cura della filosofa Silvia Capodivacca. Bene arrivata!

 

La prima domanda che viene da farsi al termine dell’ottimo e strepitosamente acclamato film di Bong Joon-ho Parasite (quattro premi Oscar e Palma d’oro) è tra le più banali: chi sono i parassiti? Gioca infatti il regista a non volerci far comprendere in modo chiaro e univoco a chi debba essere attribuita questa etichetta. Anzi, l’impressione prevalente è che, ciascun gruppo a proprio modo, tutti i dieci protagonisti della storia siano parassiti, insetti la cui esistenza è resa dipendente da quella di un altro animale, presso il quale si instaurano e al quale, spesso letteralmente, succhiano il sangue per garantire la propria sopravvivenza, anche a scapito di quella altrui. Proprio a causa di questa strutturale mancanza di autosufficienza, esseri viventi di tal genere non sono granché apprezzati nella tassonomia del mondo animale, al punto che il linguaggio comune associa analogicamente il loro nome al carattere di chi adotta una condotta di vita disdicevole e socialmente disfunzionale, che non contribuisce attivamente al benessere collettivo, ma che invece appoggiandosi sul lavoro di altri, approfitta di benefici che non gli dovrebbero venire corrisposti.

In questa pur sommaria descrizione si riconoscono innanzitutto i tratti dei sudici componenti della famiglia Kim, che con scaltri sotterfugi riescono a imporre i propri servizi ai ricchi Park e a compiere così, perfino sul piano architettonico, l’ascesa dai bassifondi dell’immondo seminterrato in cui vivono agli olimpici spazi della villa della famiglia Park. Anche il marito della precedente governante (e lei stessa come connivente) rientra a pieno titolo nella categoria, anzi, di tutta la compagnia, ne è il più palese rappresentante: chi più di lui è παρά-σῖτος, cioè «si nutre presso un altro»? Geun-sae si aggira in effetti da clandestino nei meandri di uno spazio che non è suo e da cui trae ogni giorno cibo e l’essenziale per il proprio sostentamento – alle e sulle spalle di altri.

A una visione appena più attenta, tuttavia, non può sfuggire che, con piena complementarietà, anche i Park parassitano la loro esistenza sfruttando e ‘succhiando il sangue’ ai loro stessi servitori, dai quali risultano del tutto dipendenti e senza i quali il tenore delle loro vite non sarebbe tale. La dialettica servo-padrone di hegeliana (e poi marxiana) memoria si impone in questa lettura in modo prepotente quanto inequivocabile: nulla sarebbe il padrone (nemmeno, per l’appunto, potrebbe definirsi tale) senza il suo servo, che solo in apparenza gli è completamente sottoposto: in realtà, quest’ultimo è padrone del suo stesso signore almeno quanto gli è asservito. Questa stessa convinzione emerge dalla filigrana del film attraverso un piccolo ma significativo dettaglio: la puzza. È un insopportabile olezzo, proveniente dal capofamiglia Ki-taek, che ripugna il suo omologo Ki-jung, il quale descrive alla moglie questo tanfo nei termini di un «ravanello andato a male, anzi di uno straccio bollito». Il loro figlio Da-song (benché il più giovane, decisamente il più sveglio nel suo nucleo famigliare) si spinge oltre e che, sfoggiando un fiuto particolarmente sviluppato, si accorge che lo stesso odore dell’autista connota anche i due insegnanti privati e la governante, mostrando così di intuire, benché a un livello ancora pre-riflessivo, l’incredibile truffa che i quattro hanno escogitato per farsi assumere al completo dai facoltosi Park. Sarà infine l’ennesima espressione di disgusto – per l’odore dell’‘uomo del sottosuolo’ Geun-sae – che affiora sul volto di Ki-jung che, in un gesto di odio e riscatto sociale, porterà il signor Kim a fendere mortalmente il suo padrone. Nel libro Ambienti animali e ambienti umani (Quodlibet, Macerata 2010) il biologo e filosofo estone Jakob Johann von Uexküll ci spiega che l’olfatto è il senso più importante per la zecca, parassita par excellence, che, priva della vista, costruisce il mondo che abita proprio attraverso indizi di natura olfattiva. È il fiuto che le suggerisce come mettere in forma la sua esistenza e che la aiuta a orientarsi nella realtà; come zecche, quindi, anche i Park, ciechi rispetto al raggiro ordito alle loro spalle, sono tuttavia in grado di individuare, attraverso l’odore, una specificità che, se adeguatamente contestualizzata, li porterebbe a capire cosa sta davvero succedendo attorno a loro.

Nell’epocale volume Mille piani, anche a partire dalle ricerche condotte da von Uexküll, Gilles Deleuze e Felix Guattari ci informano tuttavia che essere-animale è ben diverso dal divenire-animale: se nell’un caso si tratta di adeguarsi in modo irriflesso alla propria natura e venire con ciò inseriti in un più complessivo quadro tassonomico, nel secondo si tratta di forgiare, giorno dopo giorno, una singolarità lontana dalla codificazione maggioritaria e dalle strategie iper-classificatorie di dominio, che, mentre descrivono, etichettano e chiudono a inedite conformazioni di senso e di vita. Posto dunque che nel film i parassiti sono ovunque, la seconda domanda che ci poniamo è: c’è qualcuno tra loro che non soltanto è, ma diviene-parassita, che compie cioè un cammino di emancipazione e di ricerca di sé che lo conduce a essere diverso non tanto da sé, ma dalla rappresentazione consuetudinaria che gli viene attribuita? Crediamo di sì e che questa persona sia Ki-taek, il capofamiglia dei Kim. Egli resta zecca, parassita, dalla prima all’ultima scena del film: in apertura notiamo che è l’unico della sua famiglia che, quasi mosso da ‘orgoglio parassitario’, non si scompone durante la disinfestazione delle strade che, per forza di cose, invade anche il suo spazio abitativo, mentre in chiusura, prendendo il posto dell’‘uomo del sottosuolo’ realizza pienamente il proprio destino, condannandosi e consacrandosi a parassitare vite altrui.

Eppure una trasformazione avviene in lui a proposito di quello che è il suo tratto caratterizzante, la sua cifra identitaria, che coincide con l’ossessione di “avere un piano”. «Qual è il piano?» è la domanda che gli porge la moglie quando, all’inizio, scoprono di non avere più la connessione Wi-Fi a disposizione. E Ki-taek prontamente risolve la situazione con un espediente. «Dimmi qual è il piano», chiede con ammirazione e desiderio a suo figlio quando comprende una possibilità di sviluppo nell’ingresso di Ki-woo presso la famiglia Park. «Ma tu non ce l’hai un piano?», si meraviglia quando capisce che l’‘uomo del sottosuolo’ Geun-sae non ha progettato come venire a capo della condizione in cui si trova. E sono i suoi stessi figli che, dopo il precipitare della situazione, insistono per sapere qual è, alla luce di quei tragici sviluppi, il suo nuovo piano. Ki-taek è zecca anche e proprio perché ossessivamente indaffarato a escogitare un piano, a risolvere in modo inconsueto una situazione, a trovare l’espediente vincente. Nel Salto della pulce (racconto raccolto in Il mestiere altrui, Einaudi, Torino 1998, 2a ed.), Primo Levi scrive che «fra tutti gli animali sono proprio i parassiti quelli che dovremmo ammirare per l’originalità delle invenzioni scritte nella loro anatomia, nella loro fisiologia e nelle loro abitudini»: i parassiti sono tali anche grazie e in forza del fatto che inventano nuove forme d’essere, come se l’escogitare nuovi piani e l’aprire nuove strade fosse un elemento intrinseco al loro essere, qualcosa come il loro marchio di fabbrica.

Ma Ki-taek non si limita a essere parassita: egli lo diviene, nel momento in cui al figlio che, appunto, gli chiede quale sia il piano, risponde: «Il piano è non avere un piano. Altrimenti la vita non va mai nella direzione sperata. Se non hai un piano nulla può andare storto». L’uomo-del-piano comprende che il piano migliore è quello di vivere nell’assenza di un piano, di fuoriuscire dalla violenza della taxis, della predisposizione aprioristica di un reale che sfugge a qualsiasi previsione e catalogazione preventiva. Bisogna venir fuori dall’omogeneizzazione della maggioranza, anche da quell’istinto maggioritario che è in noi e che ci porta a chiudere in schemi la vita, che però per definizione non è ordinabile in categorie e linee di sviluppo anticipabili. Con l’omicidio del padrone, egli firma quindi la sua stessa condanna, che coincide però anche con il suo riscatto e la sua emancipazione. Lui, divenuto finalmente libero nel suo divenire-parassita.

 

Il figlio Ki-woo invece sembra non aver compreso la lezione impartitagli dal padre, e fino alla fine resta ancorato alla speranza di liberarlo attraverso la messa a punto dell’ennesimo “piano”. Forse però, da una scena apparentemente marginale, possiamo immaginare che le parole del padre abbiano sortito, ancora in modo inconscio e germinale, un certo effetto. Ci stiamo riferendo al momento in cui Ki-woo restituisce il daiza all’acqua dalla quale era stato prelevato. Suseok è l’arte giapponese, presto importata anche in Corea, di fornire un basamento ai daiza, cioè alle pietre prelevate in natura, che, senza essere ulteriormente lavorate, vengono poi esposte come vere opere d’arte oppure utilizzate come complemento alla meditazione. Nel film la catena di eventi della trama viene in qualche modo scandita dalla presenza di questo MacGuffin di hitchockiana memoria, questo oggetto apparentemente privo di alcun ancoraggio rispetto al resto della sceneggiatura, che pure si stacca dal fondo e finisce per occupare un posto in primo piano sulla scena. ‘Su-’ sta per ‘acqua’, mentre ‘-seok’ indica la pietra che, infatti, è da un fiume o comunque da un bacino idrico che viene inizialmente individuata e levata. Tornando a utilizzare una categoria deleuziana diremo che il gesto di Ki-woo è un atto di felice de-territorializzazione di qualcosa che era stato precedentemente territorializzato, imbrigliato nelle secche di un ozioso godimento estetico o contemplativo. In questo contesto, il suseok rappresenta il ‘piano’ per antonomasia, il decidersi del destino di un ente entro una direzione stabilita a prescindere dall’imprevedibilità dell’ente stesso. Riponendo in acqua il daiza, Ki-woo rompe l’incantesimo e l’illusione del piano, lasciando la roccia – e magari anche sé stesso – al suo destino e, con ciò anche al suo divenire.

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Silvia Capodivacca

ha studiato Filosofia e Storia tra Padova, Bologna e New York. Attualmente svolge attività di ricerca all’università di Udine e collabora con la casa editrice Loescher come autrice e formatrice didattica. Maggiori informazioni e aggiornamenti sulla sua attività sul sito personale, www.silviacapodivacca.com.

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