Separa quel piano lontano dalle figure accanto a noi una quinta di fronde, filare d’alberi imponenti, esile diagonale interrotta. È il piano di un’immagine istantanea, rubata al tempo ed opportunamente, e non a caso, graziosa perché divina, effimera perché umana. Qui è ciò che Lisippo chiamava kairòs, il «momento opportuno», l’istante, cioè, nel quale l’essenza profonda e vera delle cose si rivela in un lampo, libera da ogni inganno fenomenico, nuda, prima che il velo oscuro si richiuda. Il momento opportuno: molto più che un attimo fuggente. «Il» determinativo contro «un» fatalmente indeterminato e solo arbitrariamente determinabile.
La Vergine è bella, di una bellezza senza tempo, ma l’ombra interiore, lo smarrimento proprio di chi sa ed è certo, la rassegnata obbedienza di chi crede sono in quel suo sguardo abbassato, oltre il suolo che tuttavia lo arresta e non si vede, oltre le cose presenti. Andar oltre il presente non significa essere assenti. E allora la Vergine pensa, o forse semplicemente vede nitidamente quel che le Scritture dicono, e umanamente se ne duole ed ubbidisce, ma intanto c’è da fare.
Per esempio, c’è da trattenere quel bambino vivace che s’agita in grembo, che stringe un lembo del manto della madre, si protende, afferra con la curiosità della sua età e, incredibilmente, con l’addolorata dolcezza dello sguardo che avrà, adulto e agonizzante, la rustica croce di canne palustri in mano al cuginetto Giovanni, il precursore, il battezzatore, l’ultimo profeta. Giovanni guarda colui che sarà crocifisso, e questi guarda la croce. Il profeta-uomo rivela la verità di Dio al Dio-uomo. Nel cerchio dei rimandi, la perfezione, il compimento, la salvezza attraverso il dolore. Tanta tensione si stempera un istante. La destra della madre sostiene il torso scattante del bambino, il suo pollice sinistro affonda nella burrosa pinguedine di una gambetta del figlio. Bizzarrie di un pittore che dispone a piacere del proprio acuto senso delle cose naturali e del proprio gusto per lo scherzo.
Sulla destra, alle spalle, nella penombra dell’evento e della storia (è il destino dei padri, talvolta), Giuseppe, spettinato e segnato dal tempo, contempla la scena e la rivelazione.
Gli storici dell’arte annoteranno con puntiglio le memorie «nordiche» e lombarde nel paesaggio sullo sfondo e nei dettagli, la conoscenza di Leonardo nell’orizzonte che svanisce, nella trovata della quinta arborea dietro il viso della Vergine, nei luminosi filamenti d’oro delle chiome, nei volti sfumati, negli sguardi e nei loro sottintesi, nella forza plastica delle carni; e non trascureranno che l’ovale e i colori delle vesti di Maria dipendono dal Perugino e dalle sue scuole fiorentina ed umbra. Certo, di questo e altro ancora fu impastata la pittura di Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma, genialoide eccentrico al punto di manifestare la propria omosessualità (donde il soprannome): vissuto fra il 1477 e il 1549, vercellese di nascita, lombardo-piemontese di formazione, inquieto dipintore fra Toscana e Roma, fu, infine, placido senese d’adozione, nell’ultima stagione di libertà dell’antica repubblica.
Era più o meno il 1535 quando, per un ignoto committente, l’artista dipinse questa bella tavola, ora esposta nel ricchissimo Museo Civico-Pinacoteca “F. Crociani” di Montepulciano.
Vercelli era lontana ormai, un sogno dimenticato nel mosaico delle risaie in cui si specchiavano pigri gli aguzzi campanili e le alte torri medievali; e lontani erano i meravigliosi venticinque anni d’età, e l’avventura a Sant’Anna in Camprena e nel deserto d’Accona, a Monte Oliveto Maggiore, le liti coi monaci e gli scherzi pittorici nascosti nella didattica austera degli affreschi dentro a chiostri e refettori. C’era stata l’avventura romana, c’erano stati i fasti di un successo breve, ed il ritorno a Siena, e un posto al sole in quel rinascimento giunto tardi, e la passione per le corse dei cavalli (ai palii, forse?), e tanta vita.
Ricco di tanta bellezza, il Sodoma poteva veleggiare verso l’ultima isola, accompagnato da Madonne silenziose.
(da Fly Magazine, Sarteano 2006, III)