La scorsa primavera in Casa editrice è arrivato un progetto molto interessante, curato da Teresa Summa, Valentina Ragaini e Elvio Schiocchèt.
Il progetto, che si chiama Mare dentro, è inserito in una delle azioni dell’articolato e ampio progetto Raccontare, raccontarsi, a cura della Cooperativa Sociale Glob onlus, co-finanziato dalla Fondazione Comunità di Milano, la cui ideatrice e coordinatrice è Valentina Ragaini: l’obiettivo è far lavorare ragazzi e ragazze del liceo e carcerati su due gruppi di parole (Parole Chiave – tempo, identità, muro, dignità, ozio… – e Gergo carcerario – aria, domandina, concellino, terapia…) e poi far confrontare i gruppi sulle suggestioni che hanno suscitato le parole.
La Casa editrice ha deciso di supportare il progetto, stampando il quaderno di lavoro che è stato usato sia a scuola sia nelle carceri.
Ho avuto la possibilità di partecipare a due incontri: uno al “Parini” (solo con i ragazzi), poi a quello conclusivo a San Vittore.
L’esperienza è stata emotivamente forte.
Lasciare tutto fuori (telefoni, cavi, sciarpe: tutto), passare nell’unico corridoio in cui le celle sono ancora aperte, vedere gli spazi piccoli, incontrare gli sguardi delle persone dentro, cercando di essere rispettosa e empatica.
Mi è venuto da piangere molte volte.
La prima, quando stavamo percorrendo il corridoio per andare nelle aule. Un signore, vedendo le ragazze del “Parini”, ha detto: ci passa davanti il futuro. Due ragazze hanno sentito, e tra loro c’è stato uno scambio bellissimo: A: Hai sentito che bella cosa ha detto?; B: Io non ho paura, vorrei fermarmi a parlare con tutti loro.
La seconda volta è stata quando Elvio ha lanciato il tema dei ricordi, e tutte e tutti hanno parlato come in un gruppo di amici.
La terza è stata quando i carcerati ci hanno raccontato del tempo, che non passa, e dei modi per ingannarlo, e della frustrazione di quando uno di loro sta facendo una cosa che gli piace, ma arriva l’avvocato.
Altrettante volte ho provato rabbia.
Quando ho saputo che le celle (dove sono in 14 o anche di più) sono abitate anche da blatte.
Quando ci hanno raccontato che non è sempre facile prendersi cura della propria salute mentale, perché a volte, proprio per il grande numero delle richieste, viene proposto un aumento di terapia (ovvero di psicofarmaci) invece di un percorso fatto anche di incontri con un professionista; curare i sintomi invece che le cause di un malessere può risolvere problemi contingenti di tensione, ma alla lunga non aiuta le persone a stare meglio.
Quando è venuto fuori che ogni attività è organizzata da volontari, e non dal carcere.
Ho anche riso: quando ho sentito i carcerati prendersi in giro tra di loro, e prendere in giro insegnanti e accompagnatori cercando la complicità dei ragazzi, ed era potente la forza della risata in una situazione in cui c’è poco da ridere.
Il momento di condivisione del lavoro fatto dai due gruppi è stato bellissimo, e ricco di poesia; tutte le persone che hanno partecipato hanno dato alle parole tempo, ozio, muro un significato profondo, pensato, ed è stato un privilegio poter ascoltare – e anche vedere: i carcerati hanno allestito una rappresentazione scenica, per restituire ciò che avevano ricevuto dall’esperienza. Esperienza che così arricchisce tutti. I carcerati, che hanno la possibilità di raccontarsi, a prescindere dal loro vissuto; i ragazzi e le ragazze, che possono conoscere persone diverse da quelle della loro bolla e interrogarsi su temi di educazione civica in concreto e non in astratto; insegnanti e educatori, che vedono i frutti del loro lavoro.
E me, che ho potuto assistere a tutto questo e che continuo a pensarci a distanza di giorni.