La risoluzione 2347, inoltre, sottolinea come la distruzione e il traffico illecito dei beni culturali possano esasperare un conflitto e ostacolare la riconciliazione post-conflitto, minando la sicurezza, la stabilità e lo sviluppo socio-economico e culturale dei paesi coinvolti. Gli attacchi contro siti e edifici dedicati alla religione, all’educazione, all’arte o a scopi caritatevoli, così come contro i monumenti storici possono costituire, in determinate circostanze e secondo la legge internazionale, un crimine di guerra.
Pochi giorni dopo, il 30 e 31 marzo, si è tenuto a Firenze il G7 dei ministri della cultura, per discutere il tema Cultura come strumento di dialogo fra i popoli. Nel corso dell’incontro è stata firmata la “Dichiarazione di Firenze”, che condanna la distruzione del patrimonio culturale e chiede alla comunità internazionale un maggiore impegno nel contrasto al traffico illecito di beni culturali e nelle azioni di tutela per la salvaguardia di siti archeologici, monumenti, opere d’arte, beni librari e archivistici, soprattutto nelle zone di conflitto.
L’impegno del G7 si inserisce nell’ambito della coalizione “Unite4Heritage”, iniziativa lanciata nel 2015 dall’UNESCO per sensibilizzare gli Stati membri a valorizzare e tutelare il patrimonio e la diversità culturale, e per educare i giovani di tutto il mondo a preservare la cultura come strumento di integrazione, crescita e sviluppo. Nell’ambito di “Unite4Heritage” sono stati istituiti i cosiddetti “Caschi blu della cultura”, incaricati di intervenire nelle aree colpite da emergenze, calamità o crisi prodotte dall’uomo.
- Riproduzione dell’arco di Palmira, distrutto, esposta a Firenze in occasione del G7.
- Il G7 della cultura a Firenze, 30-31 marzo 2017.
- Museo di Mosul, Iraq, marzo 2017.
- Il tetrapilo di Palmira distrutto, nelle riprese di un drone russo.
- La dichiarazione esposta su un drappo di tessuto all’ingresso del Museo nazionale dell’Afghanistan a Kabul nel 2002, e poi riportata su una targa in pietra.
In questo periodo si stanno moltiplicando dichiarazioni e iniziative per la protezione del patrimonio culturale in guerra. Pensiamo alla Dichiarazione di Abu Dhabi del 3 dicembre 2016, redatta nell’ambito della Conferenza Internazionale sulla salvaguarda del patrimonio culturale nelle aree di conflitto (vedi Olimpia Niglio, Patrimonio culturale e conflitti armati. La Dichiarazione di Abu Dhabi, in “Dialoghi Mediterranei”, 25, maggio 2017). E pensiamo a una notizia appena apparsa, la costituzione dell’Alleanza internazionale per la protezione del patrimonio nelle zone di conflitti (Aliph), inizialmente promossa da Francia e Emirati Arabi, che sorgerà a Ginevra e il cui presidente sarà Jack Lang, già ministro francese della cultura. Scopo principale della nuova organizzazione, la realizzazione di inventari dettagliati dei beni a rischio, la creazione di un’apposita banca dati e, dato più interessante, di una rete di rifugi per opere d’arte mobili, sia nei paesi d’origine, sia in paesi terzi. Francia, Svizzera e Cina si presteranno dunque come “nazioni rifugio” per il patrimonio mobile in pericolo di altri paesi (la Svizzera dispone già da anni di un tale rifugio): sono i cosiddetti safe havens, la cui realizzazione suscita opinioni contrastanti, anche per le controverse esperienze del passato.
Cosa c’è di veramente nuovo in tutte queste iniziative? E quanto riusciranno veramente a contrastare la distruzione del patrimonio culturale di popolazioni costrette a subire guerre che, talvolta, passano quasi inosservate, com’è il caso dello Yemen?
La distruzione del patrimonio culturale e il traffico illecito dei beni non sono certo una novità. Sono soltanto molto più evidenti da quando sono stati diffusi i video delle distruzioni operate dall’Isis in Iraq e in Siria.
La normativa relativa alla tutela dei beni culturali in caso di conflitto armato esiste da anni; quanto ai “Caschi blu della cultura”, i Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, un vero vanto per l’Italia, queste cose le hanno sempre fatte: hanno operato in area di crisi, addestrando le forze di polizia locali, i custodi e gli operatori di beni culturali, aiutando nel censimento del patrimonio culturale a rischio dispersione e furto, inserendo i beni rubati in apposite banche dati.
E penso anche a tutti quei gruppi, competenti e ben addestrati, di protezione civile, Legambiente e altre associazioni, che stanno lavorando con passione, anche in questi giorni e senza grande pubblicità, nelle aree terremotate del centro Italia, per mettere in salvo il patrimonio culturale delle località colpite.
Quindi, dov’è la novità? La novità non risiede tanto nei contenuti, quanto nella nuova attenzione internazionale, nel rilievo che viene dato a questi temi anche nei mezzi di informazione. Leggendo le dichiarazioni dei politici si coglie il motivo di tanto interesse. Gli Stati hanno acquisito la consapevolezza che con il traffico illecito di beni culturali le organizzazioni terroristiche si autofinanziano: non è più, quindi, “soltanto” una questione di patrimonio culturale, ma è una questione di sicurezza nazionale.
A proposito della distruzione intenzionale del patrimonio culturale, Irina Bokova, direttrice generale dell’UNESCO, ha parlato di “cultural cleansing”, “pulizia culturale”, come in altre occasioni si è parlato di “pulizia etnica”: una forma di Damnatio memoriae applicata non a una persona, ma a un’intera comunità, per negare la sua possibilità di esistenza; una distruzione che renderà molto difficile, in futuro, la ricostituzione dell’intera comunità.
L’UNESCO ha appena messo a disposizione online un manuale per giornalisti, Terrorism and the Media. A Handbook for Journalists sul tema del terrorismo, con un paio di capitoli dedicati ai beni culturali.
La distruzione del patrimonio culturale ha una forte copertura mediatica, che spesso però, poiché la maggior parte delle aree interessate è inaccessibile ai media, si appoggia direttamente ai video di propaganda diffusi dai gruppi terroristici. In questo modo, anche senza volerlo, si rafforza l’immagine del gruppo terroristico, che può ostentare i propri successi, affermare la propria forza e la propria influenza sul territorio e ottenere la visibilità necessaria per aumentare la propria capacità di reclutamento di nuovi seguaci.
Ci si può quindi chiedere se sia etico utilizzare materiale di propaganda per diffondere le notizie. Come valida alternativa ci sono i siti di organizzazioni ufficiali, le foto satellitari e le riprese effettuate con i droni, molto utili per dimostrare le reali distruzioni e i saccheggi dei siti archeologici.
Il manuale suggerisce inoltre ai giornalisti di mettere in rilievo ciò che unisce più di ciò che divide, sottolineando come le regioni del Medio Oriente abbiano visto secoli di scambi fra culture diverse, in modo da evidenziare il valore universale del patrimonio culturale.
Molto interessante, nel manuale, è anche il richiamo al momento della ricostruzione e alla necessità che le comunità partecipino alle decisioni relative al restauro e alla rinascita del proprio patrimonio.
In Siria, come altrove, il patrimonio archeologico si rivelerà fondamentale per ricostituire la comunità intorno ai simboli che la tengono unita, al di là delle differenze politiche e religiose.
Come ci ricorda il messaggio del Museo nazionale dell’Afghanistan: “Una nazione rimane viva, finché è viva la sua cultura”.