Il tema del racconto si trasforma così nell’essenza stessa dell’opera. Il significato si fa significante, segno poetico, epifania visiva d’emozioni. Paterson è senza dubbio il film di Natale più interessante, perché è un’opera autentica, che tocca il cuore con intima delicatezza, prendendo le distanze da quel falso buonismo di circostanza, così fastidioso e irritante, della melassa televisiva di spot e programmi inguardabili, vera pornografia dei sentimenti. È un’opera che s’inserisce perfettamente nella poetica dell’autore, Jim Jarmusch, da sempre profondo e attento esploratore dell’animo umano.
Ricordiamo solo pochi titoli della sua brillante carriera, che danno però l’idea di un percorso artistico indipendente e personale, lontano dal mainstream delle grandi produzioni hollywoodiane. Il suo cinema frequenta i territori marginali e periferici dell’esistenza, attento a osservare e raccontare l’umanità con uno sguardo insolito e disincantato. Nel 1986 firma l’ironico e surreale Daunbailò, con lo straordinario terzetto d’improbabili fuorilegge in fuga formato da Roberto Benigni, Tom Waits e John Lurie. Con Dead man (1995), interpretato da Johnny Depp, si inoltra nelle sacre praterie del genere western reinterpretandolo in chiave ascetica, spirituale e crepuscolare. Infine, nel 2005 dirige uno straordinario Bill Murray in Broken Flowers, uno splendido viaggio a ritroso nei sentimenti, che si trasforma ben presto in un malinconico bilancio esistenziale.
Il nuovo film di Jim Jarmusch ha per protagonista un uomo qualunque. Paterson vive in una piccola cittadina, guarda caso di nome di Paterson, con la bellissima moglie Laura e un buffo cane. La sua vita scorre nell’apparente monotonia quotidiana. Ogni giorno va a lavorare, torna a casa e dopo cena esce con il cane a fare quattro passi e a bere una birra in un bar. Un’esistenza dal profilo quasi autistico, che contrasta con la vitalità sognatrice della moglie, divisa tra desideri irrealizzabili e la passione di dipingere gli arredi di casa con fantasiose decorazioni in bianco e nero. Un universo apparentemente immobile, banale, che solo lo sguardo quieto e sereno di Paterson riesce e trasformare in poesia. Frammenti di vita, piccoli dettagli, incontri insoliti, che con innocente purezza e silenziosa sensibilità Paterson trascrive su un piccolo e prezioso taccuino. Per chi sa ascoltare, anche un mondo muto può raccontare storie, donare senso e profondità all’esistenza.
La grandezza di Jim Jarmusch sta proprio nel trasformare uno sguardo, un soffio di vento, un particolare, in visioni che scardinano senza rumore la realtà per fare spazio ad altri mondi. Le piccole cose senza importanza sono il nutrimento quotidiano di un animo sensibile. Seguendo questo percorso espressivo, il film svela il segreto del segno poetico. L’attimo creativo si trasforma in pagina. L’affabulante sguardo di Paterson, lontano e distaccato, sembra simboleggiare l’essenza stessa di un mondo altro e anche dell’atto di fare cinema. Una suggestione metalinguistica, che attraversa l’opera in modo lieve ed etereo, con rimandi continui tra i processi creativi di Paterson e il susseguirsi dei fotogrammi davanti ai nostri occhi. Parallelismi, coincidenze, ripetizioni, passato e presente, ricordi, assonanze, silenzi, vuoti, tutto s’allinea in un sapiente montaggio di versi e sintassi filmica. Realtà, visione poetica, parola, immagine si fondono in sintesi espressiva, che si scioglie e fluisce nella narrazione senza mai diventare esibizione manierista. Jarmusch avvolge le atmosfere con il suo stile delicato e lieve, ironico e colto, che ritroviamo in ogni singola inquadratura. Ciò che sfugge è ricco di senso se si hanno gli occhi per vedere. Un monito anche per noi spettatori.
Paterson
Regia: Jim Jarmusch
Con: Adam Driver, Golshifteh Farahani, Rizwan Manji, Barry Shabaka Henley, Trevor Parham, Troy T. Parham, Brian McCarthy, Frank Harts.
Durata: 118 minuti.
Produzione: Francia, Germania, USA, 2016