Dunque, di nuovo: cos’è un paradosso? Ecco la definizione brillante che ne fornisce Mark Sainsbury: “una conclusione apparentemente inaccettabile, che deriva da premesse apparentemente accettabili per mezzo di un ragionamento apparentemente accettabile” (d’ora in poi DP, la definizione è fornita in Paradoxes, p. 1). Prendiamo uno dei paradossi di Zenone, quello che dice che la freccia scoccata non raggiungerà mai il bersaglio, perché sorpresa in ciascun istante del suo percorso essa sarà ferma, ma una sommatoria di immobilità dà immobilità, perciò essa non può muoversi e, a maggior ragione, non può raggiungere un bersaglio lontano. Siccome sappiamo che le frecce raggiungono i bersagli, la conclusione ci appare inaccettabile, perciò la definizione di paradosso pare funzionare, perché le premesse sono pacifiche, il ragionamento sembra filare liscio, ma la conclusione pare inaccettabile. Dunque quella di Sainsbury sembra una buona definizione e, del resto, mentre scrivo la vedo adottata anche sulla pagina italiana di Wikipedia della voce “Paradosso” (ma non su quella inglese, peraltro).
I problemi cominciano a sorgere se si considera che questa definizione limita il paradosso al contesto di un processo inferenziale, razionale, non rendendo conto del fatto che, ad esempio, la paradossalità di certe opere di M.C. Escher si coglie immediatamente e non consiste in una conclusione, come invece è previsto dalla definizione. Inoltre, un enunciato come “questa frase è falsa” non è la conclusione di un ragionamento, eppure è paradossale. Infatti, se essa è vera dovrebbe essere falsa e se falsa è vera (ma non dovrebbe). La definizione perciò non satura il concetto: vi sono cose che rientrano nel concetto, ma essa non le copre. La situazione si complica ulteriormente se si osserva che anche molti casi di rompicapo paiono essere definibili nei termini di DP. Quando ad esempio al liceo sbagliavo un esercizio di matematica, mi capitava di ripercorrere di nuovo e di nuovo i passaggi senza trovare l’errore. A fianco all’esercizio, mi trovavo perciò davanti anche un rompicapo, mi chiedevo infatti: “dov’è l’errore?”. Tutto sembrava logico e consequenziale, dipendeva dal problema assegnatomi (che era anche più che “apparentemente accettabile”), eppure il risultato non era quello atteso, cioè era inaccettabile. I miei errori però portavano a un rompicapo, non a un paradosso, se non a quello esistenziale di ritenere di avere fatto tutto giusto, ma di scoprire di aver fallito. Per rendere le cose più complicate, poi, si dovrà riconoscere che non tutti i rompicapo si prestano a essere trattati da DP: il cubo di Rubik è un rompicapo, ma non un paradosso. Resta il fatto che la definizione di Sainsbury manca di accuratezza e precisione: non coglie tutto ciò che pure è paradosso e non è in grado di distinguere i paradossi dai rompicapo. Si tratta dell’esito davvero esecrabile di quella che pareva essere una definizioni affidabile, a prima vista. Dunque, adottando DP si giunge a un nuovo rompicapo: “cosa non funziona in DP, così da portare a conclusioni indesiderabili?”. Se c’è una cosa fin qui chiara è che non si tratta di un paradosso.
Mi pare che una fenomenologia degli stati emotivi possa essere il primo appiglio verso la soluzione. Infatti, i paradossi suscitano meraviglia, un senso di strana confusione, la mente è come annebbiata. Essi fanno venire le vertigini, per così dire. I rompicapo invece suscitano fastidio, disagio persino rabbia. Il cubo di Rubik non ci meraviglia, ci intriga, e possiamo arrabbiarci dopo ore di frustrati tentativi di soluzione, mentre le opere di Escher suscitano meraviglia: quando le guardiamo non sentiamo di avere qualcosa di particolare da risolvere, ma restiamo sconcertati da ciò che osserviamo e, anzi, più lo analizziamo, più ne restiamo sconcertati. Il paradosso è alla base di uno stato di confusione, il rompicapo nasce invece da una situazione chiara che sfida. Il paradosso deve essere sciolto, il rompicapo risolto. Il paradosso ha in sé qualcosa del mistero, il rompicapo qualcosa del problema.