Paolo Cognetti e Primo Levi: la montagna, scuola di amicizia

Tempo di lettura stimato: 8 minuti
“Le otto montagne” di Paolo Cognetti (Einaudi, Torino 2016) è da pochi giorni in libreria e trovo subito una buona ragione per parlarne. 
Un ritratto dello scrittore Paolo Cognetti.

Ho l’abitudine di leggere più libri/romanzi in contemporanea e, da insegnante, il privilegio di ritornare più e più volte sulle mie letture fondative; dunque capita spesso che voci lontane nello spazio e nel tempo comincino a parlarmi nello stesso momento, dando luogo a un dialogo impossibile nella realtà, ma non per questo meno vero.
Mentre il romanzo di Paolo Cognetti raggiungeva le librerie lavoravo in classe sul racconto Ferro da Il sistema periodico di Primo Levi, e le due voci, i personaggi dell’uno e dell’altro testo si illuminavano a vicenda. Accostamento azzardato? Vedremo.
Ma, prima di entrare nel tema, sarà bene confessare un pizzico di partigianeria: con Levi e Cognetti ho in comune alcune montagne e un angolo di terra e di cielo che per alcuni sarà solo terra o solo cielo e per pochi il luogo in cui passato e presente si rovesciano, anche perché i ghiacciai conservano “la memoria degli inverni passati che la montagna custodisce per noi” (Cognetti).

La montagna di Paolo Cognetti

La trama, innanzitutto: Pietro Giusti è un ragazzino milanese figlio di migranti. I suoi genitori si sono conosciuti, innamorati e sposati sui monti del Veneto che poi un dolore antico li ha costretti a lasciare. La città li ha accolti ma non ha saputo lenire la nostalgia delle cime, che infatti li porta a trascorrere tutte le estati in un remoto paesino alle pendici del Rosa, Grana. Qui vive anche Bruno, selvatico pastore di mucche, con una madre silenziosa e silvestre, un padre che, tradendo la montagna, si è perso, e un corredo di zii e cugini che non gli somigliano abbastanza.
Il romanzo è la storia di trent’anni di amicizia, ma anche di come la montagna conservi e restituisca quello che la vita impietosamente interrompe e sottrae. Tra le pieghe di questa storia anche la fatica di essere padri e di essere figli e la difficile conquista di un’eredità: morendo, il padre di Pietro (Berio per l’amico Bruno) lascerà al figlio la Barma, un vecchio rudere a due ore di cammino dal primo abitato, “una parete di roccia, neve, un mucchio di sassi squadrati e un pino”. Unico vincolo, che sia Bruno a ristrutturarla e a farne li rifugio che li farà fratelli, se non nel sangue, nella vita.

Molto più di uno sfondo è la montagna, forse vera protagonista di questa storia che ha tutti i toni della vita reale e che infatti, come la vita, ferisce e consola. La montagna, con le sue diverse quote e il paesaggio che cambia secondo l’altezza, non è mai la stessa per tutti. Ognuno ha una quota prediletta, un paesaggio che gli somiglia e dove si sente bene: sono i boschi di larici e abeti dei 1500 metri per la madre di Pietro, la prateria alpina più sopra, con i suoi torrenti e le torbiere, per i due ragazzi che la esplorano conducendo le bestie in alpeggio, le quote più alte, aspre, inospitali, ma capaci di regalare al padre di Pietro la breve illusione di ritrovare la giovinezza e gli affetti perduti.
Tra salite impervie che aprono varchi e non seguono nessun sentiero, Pietro (Berio) impara da Bruno parole che nominano soltanto quello che serve a vivere e dunque un linguaggio in cui la materia e i suoni che la nominano si corrispondono. Per quella via, ogni pietra, albero, ruscello o zolla di terra può insegnare qualcosa. Esplorando senza meta e al modo dei camosci, i due scoprono il piccolo rivolo d’acqua che esce dalla pietraia per trasformarsi pochi metri più sotto nel loro torrente: la sorgente però non è lì, ma a monte nel lago in cui si raccoglie l’acqua dei nevai. Quei ghiacci, quel lago sono la memoria di un tempo che il gelo ha cristallizzato in una lingua di ghiaccio, che lentamente scivola fino al punto di fusione, nella conca alpina da cui il torrente nasce. Per questo “se vogliamo sapere di un inverno lontano è lassù che dobbiamo andare”.
Ma i ghiacciai sono anche il futuro, l’acqua che ancora non ti ha raggiunto lungo il torrente e che solo superandoti verso valle sarà davvero trascorsa: “Il passato è a valle, il futuro è a monte. Qualunque cosa sia il destino abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa”. Significa che il futuro, il destino è anche in ciò che è stato? La storia di Berio e di Bruno sembra dire così.

Primo Levi in montagna.

Primo Levi e Sandro Delmastro

Sono più d’uno i punti di contatto tra il romanzo di Cognetti e il bel racconto di Levi: la montagna, certo, forse anche una percezione tragica del destino, quasi scontata a chi pratichi i luoghi in cui la natura è ancora limite e rivendica la superiorità delle sue leggi, indifferenti e necessarie.
Ma, a legare i due scritti, è anche l’idea di un’amicizia in cui l’esperienza conta più delle parole. Proprio la laconicità ruvida di Bruno, insieme alla sua purezza ingenua e schietta, mi hanno riportato alla mente l’impavido Sandro, compagno di studi di Primo Levi, chimico perché la chimica regala un “mestiere di cose che si vedono e si toccano”. Come Bruno, quel ragazzo che “sembrava fatto di ferro” regalò all’amico le sue montagne e avventure rischiose al punto da farti “assaggiare la pelle dell’orso”.

Un ritratto di Primo Levi.

Una lezione che Primo riassume così: “Sono grato a Sandro per avermi messo coscientemente nei guai, in quella ed in altre imprese insensate solo in apparenza, e so con certezza che queste mi hanno servito più tardi. Non hanno servito a lui, o non a lungo. Sandro era Sandro Delmastro, il primo caduto del Comando Militare Piemontese del Partito d’Azione. Dopo pochi mesi di tensione estrema, nell’aprile del 1944 fu catturato dai fascisti, non si arrese e tentò la fuga dalla Casa Littoria di Cuneo. Fu ucciso, con una scarica di mitra alla nuca, da un mostruoso carnefice-bambino, uno di quegli sciagurati sgherri di quindici anni che la repubblica di Salò aveva arruolato nei riformatori. Il suo corpo rimase a lungo abbandonato in mezzo al viale, perché i fascisti avevano vietato alla popolazione di dargli sepoltura.
Oggi so che è un’impresa senza speranza rivestire un uomo di parole, farlo rivivere in una pagina scritta: un uomo come Sandro in specie. Non era uomo da raccontare né da fargli monumenti, lui che dei monumenti rideva: stava tutto nelle azioni, e, finite quelle, di lui non resta nulla; nulla se non parole, appunto”.

Sandro Delmastro.

Dal racconto al romanzo

Il tema dell’amicizia è potenzialmente uno dei più coinvolgenti per i nostri studenti, eppure si espone al rischio di letture consolatorie, forzosamente edificanti e banali da cui i ragazzi saggiamente scappano. I due testi che qui propongo mostrano invece (anche nella scelta di una lingua asciutta, antiretorica) relazioni complesse costruite su incomprensioni, distanze, sconfitte e anche sul tradimento degli ideali.
Il racconto di Levi ha una precisione sorprendente e fulminea: nell’innocua avventura, improvvisa, si fa largo la Storia, allora l’ideale di Primo e il senso delle cose di Sandro si scontrano con l’insensatezza della guerra. Proprio a quel punto, una narrazione che avrebbe potuto essere epica si interrompe, lasciandoci soli con le nostre domande e con la responsabilità di cercare in altri racconti e nella vita stessa quello che manca alla nostra immaginazione.
È questo uno dei pregi delle narrazioni brevi, che però non hanno la stessa capacità dei romanzi di farci sostare a lungo dentro una storia e di legarci ai suoi protagonisti come a degli amici.
Cognetti è stato sino a oggi autore di racconti: mi pare infatti di poter leggere il precedente Sofia si veste sempre di nero (Minimumfax, Roma 2012), come un romanzo fatto di racconti che – con pochi tocchi – sanno illuminare gli snodi in cui il vivere fa bene e fa male allo stesso tempo. Il suo ultimo libro, romanzo a tutti gli effetti questa volta, offre una bella storia e parole giuste, che non tradiscono quell’amore per la semplicità e la verità.
Credo che proporrò ai miei studenti entrambi i testi di cui parliamo, sfruttando l’occasione aggiunta di esplorare anche la differenza tra romanzo e racconto.
Tornando all’immagine rubata a Le otto montagne, le scritture brevi ricordano i rivoli d’acqua che escono dai sassi e scorrono tra le radici contorte: dietro, senti il gorgoglio nascosto di un lago alpino e ne intuisci l’ampiezza, la forma circolare, le pendici assolate di pietra e quelle in ombra, coperte di salici e rododendri. È lì che si raccoglie l’acqua di fusione dei nevai, che nel romanzo di Cognetti scorre con il respiro ampio di un fiume.

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Elena Rausa

Docente di Lettere nei Licei e Dottoressa di Ricerca in Italianistica. Ha pubblicato tre romanzi: “Le invisibili” (Neri Pozza, 2024), “Ognuno riconosce i suoi” (Neri Pozza, 2018), “Marta nella corrente” (Neri Pozza, 2014).

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