Capo Sunio, inoltre, compare anche nell’opera poetica del Nostro; è infatti celebre il suo accenno in coda al poemetto The Isles of Greece, dove scrive:
Place me on Sunium’s marbled steep,
Where nothing, save the waves and I,
May hear our mutual murmurs sweep;
There, swan-like, let me sing and die:
A land of slaves shall ne’er be mine,
Dash down yon cup of Samian wine!
Sono anch’io tornato di recente al Sunio, con i miei studenti del Liceo Classico “Banfi” di Vimercate: un Petit Tour di pochi giorni (e già ne ho scritto), altro che gli interminabili Grand Tour dei tempi andati! Qui, finalmente, con la luce giusta e senza la calca dei mesi estivi, ho avuto modo di localizzare e fotografare proprio la firma di Byron. Non solo: ho visto alle pendici del tempio dei curiosi fiori gialli, del tutto estranei alla flora dei mesi di luglio e agosto nei quali ormai da quasi quarant’anni frequento la Grecia…
Cielo azzurro, tempio bianco, un po’ di erba verde, fiori gialli e più sotto un mare blu che non inganna: è quello che quando fa sera Omero diceva diventare colore del vino. Chissà che colore aveva, quando ci venne Byron, che si augurava di morire qui, dolcemente cantando come un cigno: alle febbri malariche di Missolungi non aveva proprio ancora pensato!
- Il colonnato del tempio di Poseidon.
- Lord Byron, in vesti balcaniche.
- La firma di Byron.
- Il tempio di Poesidon visto dal basso.
Da Atene un’oretta di pullman ti fa godere ancora di più questo straordinario paesaggio senza tempo. Infatti la strada costiera è un monumento alla transitorietà della condizione umana e – ahimè – alla precarietà della Grecia di oggi. Si passano Glyfada, Vouliagmeni, Lagonissi, località balneari toccate in passato dalla speculazione edilizia e ora piene zeppe di seconde case in vendita a quattro soldi. È la crisi, bellezza! Si intravede poi quel che resta del vecchio aeroporto e delle sue strutture, in parte ricettacolo di molti profughi che scappano dagli orrori della non lontana Siria. Tutto questo, che già avevo visto più volte a bordo di auto private o bus di linea, è stato stavolta oggetto di un interessante commento economico e storico-politico da parte del nostro anziano autista di pullman, che si esprimeva in un colorito gramlot anglo-greco-italiano: Che belli i tempi del magnate Onassiss, che finanziava opere pubbliche a go go, ma che purtroppo – stupido lui, con tutti ‘sti soldi… – ha fatto solo due figli, peraltro morti giovani. Dieci, venti, doveva farne, e questi sarebbero stati altrettanti mecenati e benefattori del popolo greco! E poi la colpa di tutto è dei tedeschi: prima, seconda Guerra Mondiale e attuale crisi… Il tutto è poi finito con una lode della passata monarchia greca, e con la sfiducia verso l’attuale classe dirigente: ecco l’Europa di oggi, ho pensato. Ma mentre lo ascoltavo, francamente incredulo che la stirpe degli Onassis o il vecchio re Costantino avrebbero potuto salvare la Grecia dalla crisi, non riuscivo a togliere gli occhi dal mare Egeo alla mia destra: quel mare chiamato così proprio perché da queste rocce a strapiombo il mitico re di Atene Egeo si buttò in acqua, disperato perché credeva che il figlio Teseo fosse stato sconfitto dal Minotauro. Sì, ho fissato il mare fino all’apparizione delle colonne, sul promontorio ancora lontano (“Capo Colonna”, lo chiamarono i Veneziani) che ho scambiato per lo sfondo di un quadro di Giorgio de Chirico, nativo della greca Volos: ho addirittura cercato, invano, i cavalli sulla vicina spiaggia!
Poi stop al pullman, e quindi a piedi fino ai resti del tempio che al dio del mare era dedicato. Ogni angolazione lo propone in forme diverse, con differenti luci e colori, ma ognuna di esse è ugualmente emozionante. Allora pensi ai Persiani di Serse, che nel 480 a.C. distrussero il precedente edificio in tufo dedicato ad Atena, e a Pericle che volle (intorno al 440 a.C.) costruirne uno in marmo – quello attuale – stavolta per Poseidon. Par condicio divina, dunque, poiché per onorare la divinità poliade Atena lo stratega ateniese aveva già commissionato il Partenone, su un frontone del quale si racconta proprio come questi due déi si siano contesi a suon di regali il patronato dell’Attica, terra che senza ulivo (dono di Atena) e senza l’acqua di mare (dono di Poseidon) non sarebbe mai decollata… almeno fino ai doni di Onassis, a sentire il nostro autista!
- De Chirico, «Cavalli sulla spiaggia» (1943).
- De Chirico, «Cavallo con zebra» (1929).
- Il tempio, particolare.
- La IIA Liceo Classico.
- La IIIA Liceo Classico.
- Il tempio, altra angolazione.
Bello vedere i ragazzi anch’essi rapiti dalla bellezza del luogo e dalla sua magia, come già lo furono personaggi del calibro di Byron, Chateubriand e Lamartine: è stato difficile per me e i colleghi Ileana e Bruno ricondurli sul pullman verso l’aeroporto. Bello sapere che i marmi, le onde e il mormorio del mare – per tornare al poema di Byron – sono gli stessi di allora; e che ancora esiste il delizioso vino dolce di Samo, nominato dal poeta inglese. Noi però non l’abbiamo – ovviamente – bevuto in loco, ma acquistato al duty-free dell’aeroporto (solo i professori, si intende!) su suggerimento di chi vi scrive, classicista vizioso e goloso… Qualche (piccolo e saltuario, eh!) bicchierino di quel néktar (così è chiamato sull’etichetta) renderà dunque meno amaro il rush finale di correzione di compiti, interrogazioni, compilazioni di scartoffie, che ci transiterà in men che non si dica verso la fine dell’anno scolastico e gli Esami di Stato. Unica consolazione, per chi scrive: dopo tutto ciò, ci sarà ancora un viaggio in Grecia, senza se e senza ma. Nella byroniana speranza che non diventi davvero una terra di schiavi (land of slaves): averla allora liberata dai Turchi per averla affidata ora alla Troika potrebbe, alla lunga, rivelarsi un pessimo affare.