Nuove riflessioni sulla tragedia del Vajont

Tempo di lettura stimato: 7 minuti
Primi anni Novanta. Un teatro di provincia è gremito di adolescenti che (vocianti e felici di non essere in classe) attendono l’inizio dello spettacolo, ma questa volta non è il solito Plauto o Aristofane… Non ricordo quale prof ci accompagnava né che giorno era, nemmeno se fuori c’era il sole o pioveva, ma dentro quella sala stava per succedere una specie di magia. Un attore entra in scena e per un paio d’ore ammutoliamo, non gli stacchiamo gli occhi di dosso mentre ci racconta con la voce e tutto il corpo una storia terribile e vera: la storia del disastro del Vajont.
La diga oggi, in basso a sinistra si vede la cascata d’uscita del torrente Vajont che bypassa la frana.

Questo è il mio ricordo della prima volta in cui ho assistito all’orazione civile di Marco Paolini Il racconto del Vajont (Garzanti, 1993), un monologo che da trent’anni viene portato in giro per i teatri di tutto il Paese e fra pochi giorni sarà rimesso in scena in forma “corale”. Infatti, per il sessantesimo anniversario della tragedia costata la vita a quasi duemila persone, la sera del 9 ottobre una nuova versione del testo verrà letta contemporaneamente in oltre 150 luoghi in Italia e non solo per il progetto chiamato VajontS-23. Grandi attori e allieve delle scuole di teatro, musiciste e danzatori, maestranze e spettatori arruolati come lettori si riuniranno in teatri, scuole, ex ospedali psichiatrici e centrali dell’acqua, per realizzare in ogni luogo un allestimento site-specific. E poi, tutti gli eventi si fermeranno alle 22:39, l’ora in cui la montagna è franata nella diga.

«Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi.» Così lo scrittore e giornalista Dino Buzzati descrive sul «Corriere della sera» dell’11 ottobre 1963 l’immane catastrofe che ha appena colpito le comunità al confine tra Veneto e Friuli. La frana nella diga del Vajont nel tempo è diventata una delle più studiate al mondo, tanto che nel 2008 l’UNESCO l’ha citata come una delle cinque «storie ammonitrici causate dal fallimento di ingegneri e geologi». Ma proviamo a ricostruire brevemente quello che si può considerare uno dei peggiori disastri ambientali causati dall’uomo nella storia italiana: uno tsunami nell’entroterra che ha spazzato via interi villaggi e lasciato dietro di sé una scia di morte e devastazione.

La possente diga in cemento armato alta 262 metri si trova ancora oggi al suo posto, nella valle dolomitica dove scorre il torrente Vajont, sotto il monte Toc. All’epoca della sua costruzione si trattava della diga più alta del mondo nel genere detto a doppio arco. Nel Secondo dopoguerra, l’Italia e in particolare il nord era un’area di forte sviluppo industriale che richiedeva grandi quantità di energia. Per questo motivo, si era pensato a una diga che doveva sfruttare le acque di un torrente di montagna per creare un lago artificiale con cui generare energia idroelettrica.

In realtà, l’idea di costruire un’enorme diga proprio qui era emersa per la prima volta negli anni Venti del Novecento, e infatti un primo progetto per un impianto di dimensioni minori risale al 1926. Ma alla fine, tra lungaggini burocratiche e ritardi dovuti anche al conflitto mondiale, i lavori iniziano solo nel 1948 e l’appalto per la sua costruzione viene affidato alla Società Adriatica Di Elettricità (SADE). Fin dall’inizio del progetto si erano levate alcune voci contrarie, con avvertimenti e pareri negativi di ingegneri e della popolazione locale. Ciononostante, la SADE riesce a ottenere tutti i terreni dove sarebbe stata realizzata la diga e i lavori possono iniziare.


Foto aeree dell’invaso prima e dopo la frana del 9 ottobre 1963.

Purtroppo, i presupposti su cui i progettisti basavano la giustificazione tecnica e la sicurezza dell’opera si dimostreranno infondati: i ripidi fianchi del canyon nella zona dove si doveva accumulare l’acqua, soprattutto sulla sponda sinistra, non erano di roccia compatta ma composti da molti strati di calcari e argille con diverse proprietà fisiche. Il primo riempimento pilota dell’invaso inizia nel febbraio 1960, prima del completamento della diga, il cui progetto nel frattempo era stato ingrandito. I primi segni di instabilità si notano appena sopra il lago: la sponda meridionale è scivolata di circa 3,5 cm al giorno e si è formata una crepa lunga 2 km. Una prima frana si stacca e indebolisce la stabilità del canyon, indicando la possibilità di uno scivolamento ben più ampio.

Vengono allora eseguiti dei rilievi geologici più dettagliati e i risultati mostrano che la superficie di scivolamento della frana è molto profonda, per questo motivo viene allestito un laboratorio sismografico per monitorare i piccoli terremoti vicino alla diga che continua a crescere. Le osservazioni sono effettuate usando dei riflettori posizionati sulle sponde del lago. Questi studi dimostrano che l’intera area è molto instabile e c’è il rischio che il fianco della montagna scivoli e piombi nel bacino. Tuttavia, la SADE ignora gli avvertimenti degli esperti e procede con i lavori insistendo sulla sicurezza della diga che è in fase di collaudo, anche se nel frattempo tenta di svuotare velocemente il lago per limitare i danni.

 

 

Simulazione in 3D dell’onda generata dalla frana del Vajont.

Il 9 ottobre 1963, alle 22:39, una parte dalla cima del Monte Toc scivola di schianto nel bacino idrico dietro la diga del Vajont e crea un immane spostamento d’acqua, producendo un’enorme onda paragonabile a uno tsunami che scavalca il bordo della diga e piomba nella sottostante valle del Piave: si stima che siano almeno 50 milioni di metri cubi d’acqua in caduta libera verso la cittadina di Longarone che sonnecchia là sotto.

Nel punto d’impatto, l’onda crea un cratere largo 80 metri e profondo 60, poi spazza la vallata e distrugge tutto quello che incontra, campi, strade e case, uccidendo circa 2000 persone e trasformando il terreno sotto la diga in una distesa di fango. Il paese di Longarone, che si trova quasi direttamente sotto la diga, viene quasi completamente distrutta, mentre Erto e Casso in alto sulle sponde del lago subiscono molti danni per la gigantesca onda causata dalla frana. La diga invece rimane in piedi, testimone impassibile dello scempio che si è appena consumato.

La notizia della catastrofe fa il giro del mondo e diventa immediatamente oggetto di una disputa politica nel panorama mediatico italiano. I giornali di stampo conservatore parlano dell’evento come esclusivamente naturale e quindi inevitabile: la diga e chi l’aveva costruita non si possono ritenere responsabili. Di opinione contraria sono invece i giornali vicini all’opposizione, che alludono fin da subito al fatto che il disastro poteva essere evitato e che la causa principale era da imputarsi a errori umani.

La prima pagina del Corriere della sera dell’11 ottobre 1963.

 

Le successive analisi ingegneristiche si concentreranno sulle cause della frana e vengono passati al vaglio diversi fattori: il canyon era troppo ripido, c’erano state delle precipitazioni anomale, l’altezza della diga era stata cambiata in corso d’opera, e c’è chi punta il dito sui terremoti come fattori scatenanti. Inoltre, vengono dati pareri discordanti sul fatto che si trattasse di una vecchia frana scivolata ulteriormente o di una frana completamente nuova…

Fiumi d’inchiostro sono stati versati nei decenni successivi per dare un senso a questa tragedia, ma su tutti ricordiamo il saggio-inchiesta scritto nel 1983 dalla giornalista Tina Merlin Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont (Cierre Edizioni, 2001). Proprio questo libro, con la precisa ricostruzione delle cause antropiche che hanno portato al disastro, è stato il punto di partenza anche per Marco Paolini nell’ideazione del suo spettacolo teatrale perché, come diceva Merlin quando ancora si stavano contando le vittime: «Oggi non si può soltanto piangere, è tempo di imparare qualcosa».

E sessant’anni dopo, con il progetto VajontS-23 sempre Paolini spiega perché ha ancora senso oggi preservare la memoria di un disastro così lontano nel tempo, trasformandola in un monito sulla crisi climatica in cui viviamo: «I terremoti non sono ancora prevedibili, le alluvioni lo sono di più, così come la siccità. Il territorio italiano è antropicamente denso come un formicaio operoso e insaziabile. Mangiamo terra, consumiamo suolo e buona parte di quel suolo è a rischio idrogeologico.» Ecco perché bisogna parlare ancora di tragedie come quella del Vajont, aprendo una riflessione per cambiare i nostri comportamenti individuali e collettivi e pretendere azioni concrete da parte della politica. Se negli anni Novanta la domanda con cui Paolini apriva il suo potente monologo era: «Quanto pesa un metro cubo di acqua?», oggi forse dovremmo chiederci: «Quanto vale un metro cubo di acqua?».

Condividi:

Sara Urbani

Laureata in scienze naturali con un master in comunicazione della scienza, ha lavorato per la casa editrice Zanichelli. Scrive anche per Odòs – libreria editrice e per i magazine online La Falla e Meridiano 13.

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it