Come si è passati dai rumors alle fake news? Una sociologa indaga gli aspetti del fenomeno delle “voci che corrono” nell’era di internet.
Come si è passati dai rumors alle fake news? Nel numero 13 de «La ricerca», una sociologa indaga gli aspetti del fenomeno delle “voci che corrono” nell’era di internet.
Il mondo sociale è da sempre attraversato da racconti in cui l’intreccio tra verosimile e perturbante dà luogo alle più straordinarie e fantasiose narrazioni incontrollate. Usate per delegittimare avversari politici e concorrenti di mercato o per cercare di gestire fatti ignoti, capaci di risvegliare l’opinione pubblica e spesso anche di attivare forme di contro-potere, le voci sono in grado di lasciare nella mente collettiva impressioni e sensazioni indelebili. E sono tanto suggestive da risultare spesso più persuasive di tutte le successive spiegazioni volte a confutarle in base a qualche principio di scientificità.
Se il passaggio di bocca in bocca è stato a lungo il veicolo principale di questo intrigante sistema di narrazioni collettive, l’avvento dei media ha reso via via il fenomeno sempre più ampio, capillare ed esteso. Tanto che la rete di trasmissione mediale delle voci le porta oltre la propria collettività, fino a raggiungere i continenti più lontani; al punto che i loro effetti hanno oggi ricadute globali e sono temutissimi perché tendono a sfuggire al controllo della politica e delle istituzioni.
In questo contributo metterò in luce alcuni aspetti del fenomeno delle “voci che corrono”1, per arrivare a cogliere come esso possa apparire ogni volta diverso, per esempio a seconda del canale a cui si appoggia, ma che è in qualche modo sempre uguale, per il fatto di esprimere un’intelligenza collettiva capace di manifestare un pensiero fantasmagorico ma spesso convincente.
Se il passaggio di bocca in bocca è stato a lungo il veicolo principale di questo intrigante sistema di narrazioni collettive, l’avvento dei media ha reso via via il fenomeno sempre più ampio, capillare ed esteso.Prima di entrare nel cuore del ragionamento, può essere utile che racconti come il fenomeno delle voci sia entrato nei miei interessi di ricerca, veramente per caso, in un momento particolare della mia vita, quando, con l’idea di fare il dottorato di ricerca, stavo approfondendo i miei studi in sociologia della comunicazione. Era il 12 novembre 2001. Mi trovavo in centro, a Cosenza, la città in cui vivo, per fare delle spese. Erano le 18.30, eppure stranamente tutti i negozi stavano chiudendo. Pensai a un’ordinanza comunale per qualche particolare occasione. Quando però chiesi spiegazioni alla proprietaria del negozio in cui ero, quella si stupì non poco della mia domanda e mi disse: “Come, non lo sa? Stasera e nei prossimi giorni ci saranno delle scosse fortissime. È previsto un terremoto violentissimo che entro il 20 novembre staccherà la Calabria dal resto d’Italia”. Decisi immediatamente che non potevo farmi sfuggire quell’occasione e, imitando lo studio di Edgar Morin del 19692, dedicai i giorni successivi a raccogliere testimonianze e racconti da chiunque incontrassi, per strada, al bar, amici, conoscenti. Io non avevo saputo nulla, eppure intorno a me un’intera città aveva ricevuto – dalle più svariate fonti (dal telegiornale, dal dipartimento di ingegneria dell’università della Calabria, da una donna carismatica famosa per le sue profezie, e così via) – la notizia di quella catastrofe imminente3. Una notizia che, allo stesso modo in cui era arrivata e si era diffusa – improvvisamente –, così svanì, lasciando dietro di sé nient’altro che un leggerissimo sospiro di sollievo.
Qualche anno dopo, quella voce di «un catastrofico terremoto imminente» è tornata. Ma ha assunto una forma nuova, legata allo sviluppo e al ruolo dei new media e di internet4. Sicché, essa non ha riguardato solo una città e un singolo momento, ma è durata oltre un anno, colpendo diverse zone d’Italia: prima Arezzo, a fine gennaio 2010; poi Napoli, intorno al 12 marzo 2010; quindi Roma, dove il terremoto catastrofico sarebbe dovuto avvenire l’11 maggio 2011. La voce ha assunto via via dimensioni tali da spingere l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia a intervenire e a organizzare una comunicazione mirata, per placare il panico e ristabilire la tranquillità collettiva.
D’altro canto, quella delle voci su catastrofici terremoti non è certo una novità. Si può anzi dire che sia una delle più tipiche narrazioni collettive. L’imprevedibilità del terremoto è, soprattutto in aree che ne sono da sempre colpite, il fondamento stesso del bisogno che il gruppo sociale avverte di liberarsi dall’angoscia di sentirsi condannato a un rischio quasi ineluttabile.
La paura di un evento imprevedibile, ma in futuro altamente probabile, spiega questo tipo di narrazioni. E spiega pure che c’è una certa intelligenza collettiva dietro racconti di questo tipo, come se la collettività, ogni tanto, facesse una specie di esercitazione spontanea alla gestione del rischio.
Se guardiamo, più in generale, alla storia delle voci ci accorgiamo però che il motivo per cui “corrono” e persuadono non è sempre riconducibile al bisogno di esorcizzare e di gestire una paura. A volte la rumeur nasce per capire, o per scandalizzare; a volte per danneggiare (tanto che ci si può anche uccidere per delle voci) o, al contrario, per sedurre e convincere. Nella maggior parte dei casi le voci esprimono convinzioni arcaiche. Ma assai spesso sono un modo per stimolare un sapere che si desidera fare emergere e affermare. Se ritorniamo alla nostra voce sui terremoti, non sarebbe del tutto errato pensare che si esprima, attraverso di essa, anche il desiderio collettivo di spingere la scienza verso la sperimentazione di tecniche di misurazione sempre più precise e sofisticate, in direzione, perché no, di una sempre maggiore prevedibilità del fenomeno tellurico.
Proviamo a vedere qualche altro caso. Il 22 novembre 1963, negli USA, a Dallas, fu assassinato John Fitzgerald Kennedy. La commissione incaricata di indagare su questa vicenda dichiarò categoricamente, attraverso quello che passò alla storia come rapporto Warren, che l’assassino era stato Lee Harvey Oswald e che aveva agito di propria iniziativa e da solo. Nonostante ciò, fin dal primo momento dell’attentato, in tutto il mondo si era diffusa l’idea che ci fossero altri cecchini a Dallas quel giorno, e che questo omicidio fosse parte di un complotto di proporzioni più ampie che implicava forse Fidel Castro, forse la CIA – quindi non certo opera di un singolo uomo5. Ed ecco che questa narrazione fa sorgere una domanda immediata: quale tra le due versioni, quella ufficiale del rapporto Warren e quella del complotto, è la notizia e qual è la voce? E, dunque: qual è lo statuto di verità accreditato?
Distinguiamo da questo appena descritto ancora un altro tipo di rumor, di cui è un esempio famoso la rumeur d’Orléans studiata da Morin, diffusasi nel 1969 (e che aveva circolato in modo simile qualche anno prima a Rouen), secondo la quale, in sei negozi di ebrei, sarebbero sparite diverse giovani donne, rapite nei camerini di prova, e che, negli scantinati di quei negozi, la polizia avrebbe trovato due o tre di loro legate e pronte per essere vendute in un giro di tratta delle bianche6. La rumeur è di grandi dimensioni e i negozi sono costretti a chiudere, nonostante la mobilitazione di tutte le agenzie di informazione e nonostante la sensazione immediata di tutti che si tratti di una storia senza alcun fondamento. Voci come questa sono più simili a delle leggende che a delle notizie, eppure hanno effetti reali.
Se facciamo ancora un passo indietro, troviamo che l’interesse delle scienze sociali per questo genere di narrazioni nasce in un momento particolare e in un contesto a sua volta specifico: l’America degli anni Quaranta del Novecento. È il momento in cui, a seguito dell’attacco giapponese di Pearl Harbour, iniziano a diffondersi rumors sulla Seconda guerra mondiale. Il Governo, dichiarando di essere preoccupato per l’impatto che essi possono avere sull’umore delle truppe e sulla riuscita della guerra e, più in generale, sul sentimento di unità nazionale, decide di istituire dei comitati per contrastarli. Proprio in quel clima sorge l’Office of War Information al cui interno i ricercatori americani costruiscono un modello per controllare e screditare il flusso delle voci, lanciando una campagna che sensibilizzi la popolazione a comportarsi da buoni cittadini e non diffondere rumors7.
Parallelamente a questa campagna, il più grande lavoro degli studiosi consiste nell’arrivare a dare una definizione del rumor. Per Knapp, che si può considerare il primo studioso di questo tipo di narrazioni, il rumor è una dichiarazione destinata a essere creduta, riferita all’attualità e diffusa senza verifica ufficiale8. Qualche anno dopo, Allport e Postman si incaricano di dimostrare che, inevitabilmente, qualunque notizia, nel passaggio di bocca in bocca subisce una distorsione che la allontana dalla verità9, e per dimostrarlo fanno molti esempi di rumors. Kapferer ha però messo in rilievo che nel loro modo di procedere ci sono due errori. Il primo riguarda il fatto che, per avvalorare la loro tesi, i due studiosi fanno solo esempi di notizie false, anche se il rumor non nasce necessariamente solo intorno a notizie false, e nemmeno sempre la circolazione fa perdere l’informazione: molto spesso, invece, le informazioni più importanti vengono conservate e addirittura preservate dalla distorsione. Il secondo errore, che è strettamente legato al primo, consiste nel fatto che i due studiosi non colgono una questione di fondo rispetto al timore del Governo americano, ossia che se il rumor fosse sempre falso non ci sarebbe nessun motivo di preoccuparsene10. Invece, è proprio perché può rivelarsi vero che il rumor disturba, soprattutto in tempo di guerra. Prova ne è il fatto che il Governo avesse attivato una task force per neutralizzarlo.
Questi due errori hanno fatto sì che Allport e Postman definissero il rumor come proposizione legata ai fatti del giorno, destinata a essere creduta, propagandata da persona a persona, in genere attraverso il passaparola, senza che esistano dati concreti della sua veridicità11. Ma si tratta di una definizione che porta ad arenarsi, per l’impossibilità di chiunque di ottenere dati concreti sulla veridicità e poter distinguere tra voci e altre informazioni. D’altro canto, la sensazione di pericolo che i Governi e le istituzioni avvertono di fronte alle voci non sta solo nel fatto che possano essere vere. Sta innanzitutto nel fatto che, nel gioco tra vero e falso, esse risultino come una sorta di attentato allo statuto epistemologico della verità.
Ma vi è anche un altro problema: dal momento che nessuno può mai garantire fino in fondo che i fatti siano verificati, il regime in cui si entra con le voci è lo stesso che investe qualunque tipo di notizia o informazione: anch’esse si diffondono in base alla fiducia nelle fonti. Poiché le fonti delle voci sono ben altre che quelle ufficiali (amici parenti, colleghi, testimoni che si dichiarano oculari o direttamente colpiti dai fatti), ma sono spesso ritenute più credibili, perché percepite come libere da interessi di potere e unicamente sostenute da motivazioni altruistiche, ecco che la situazione è assai temuta, soprattutto dalle istituzioni e dalle fonti ufficiali.
Quindi vennero le fake news
Se definiamo il rumor come “informazione non verificata” perdiamo di vista che questa è la condizione tipica del pubblico di fronte a qualsiasi notizia. E, soprattutto, che esso genera effetti reali quando è ritenuto vero, a prescindere dal fatto che lo sia realmente. Questo perché la nozione di “notizia verificata” si basa sul consenso sociale, tanto che la stessa realtà «è essenzialmente sociale. Per il lettore de ‘L’Humanitè’ ciò che dichiara ‘Le Figaro’ non è realtà, e viceversa. Non esiste una realtà che sia campione di verità, bensì esistono diverse realtà»12. Significa che il confine tra informazione e rumor è tutt’altro che oggettivo e si stabilisce in base alla percezione e convinzione personale di ognuno. Come può essere testimoniato, per esempio, dal fatto che il gradimento popolare di Ronald Reagan non fu messo in discussione nemmeno dal ben reale, e grave, scandalo Iran-Contras13.
Ecco che, per comprendere il rumor, diventa centrale comprendere che esso viene percepito per la sua esistenza più che per la sua essenza. L’etichetta di voce o di informazione non è attribuita prima di prestare fede alla notizia ma dopo che essa si è diffusa. Un processo che oggi si rende ancora più esplicito attraverso l’uso di due nuovi termini: fake news e post-verità.
Le fakes sono come rumors nell’era di internet. Sono, allo stesso modo delle voci, notizie che nascono per dare risposta a bisogni collettivi di conoscenza, elaborazione e controllo di fenomeni che incuriosiscono o preoccupano. Come i rumors, si realizzano nel loro circolare per mezzo di un canale comunicativo. Se prima questo canale era, appunto, la voce, che, con il passaggio di bocca in bocca, traduceva una storia in una informazione suggestiva e credibile, col tempo altri mezzi di comunicazione sono entrati nel processo. Fino a che, anche attraverso una radicalizzazione dell’influenza dei nuovi media, queste notizie enigmatiche hanno colonizzato la sfera pubblica, e, contemporaneamente alla percezione di poter accedere a un’informazione più articolata e partecipata, si è prodotto un generale disorientamento, per il proliferare di smentite, confutazioni e dichiarazioni di falsità. Con il significativo effetto che, da un lato, si è incrinata la più generale fiducia nell’attività delle agenzie di informazione; dall’altro, sono nati nuovi demagoghi che, per giustificare a se stessi e alle proprie cerchie le pratiche di propagazione delle fake, fanno appello all’idea che sono i fondamenti della verità a essere decaduti e che una cosa, se ampiamente diffusa, ha comunque presa sull’audience e una sua legittimità.
Le fakes sono come rumors nell’era di internet. Sono, allo stesso modo delle voci, notizie che nascono per dare risposta a bisogni collettivi di conoscenza, elaborazione e controllo di fenomeni che incuriosiscono o preoccupano.Si tratta di un panorama in cui le nuove tecnologie, attraverso il meccanismo del filter bubble e dell’echo chambers, fanno sì che ognuno continui a rimanere come in un bolla dove riceve e trova solo informazioni che rafforzano e nutrono i suoi interessi e le sue opinioni14. E, al contempo, si afferma la convinzione che ciò che interessa ai cittadini, tanto più nell’epoca della post-verità, non è che una notizia sia verificabile, ma che sia capace di soddisfare criteri di gradimento e condivisibilità, il più possibile pluralistici e sganciati da meccanismi di legittimazione istituzionale, come nei termini di una nuova (ma chiaramente malintesa) autenticità. E in ciò si gioca la delegittimazione, anche ideologica, dei principi della conoscenza e delle sue agenzie.
Ecco allora che il termine fake, esasperando una delle accezioni di rumors, sposta l’attenzione dal comportamento collettivo al suo risultato. Per cui, se rumor indica l’insieme delle voci che corrono di bocca in bocca in bocca, o di media in media, e che si trasformano in questo correre grazie all’azione di tutti, fake indica ciò che risulta al termine della corsa: ovvero, che si è prodotta un’informazione errata. Come dire che fake è una notizia falsa, e che di fronte a essa non si deve fare altro che discutere di questa stessa falsità, nei più virtuali e reali modi possibili.
È tutto molto evidente se facciamo riferimento al caso eclatante della notizia che il vaccino trivalente genera l’autismo. La notizia si diffonde alla fine degli anni Novanta quando il gastroenterologo inglese Wakefield sostiene, in un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista Lancet, un nesso tra il vaccino contro morbillo, parotite e rosolia e l’autismo nei bambini. In quel momento, e in quei termini, piuttosto che di una fake sembra trattarsi di un’eclatante notizia in campo medico. Qualcuno è cauto, ma l’informazione si presenta come l’esito di uno studio in cui vengono descritti casi di 12 bambini affetti da autismo dopo essere stati vaccinati per morbillo, parotite e rosolia. Solo quando autorevoli ricerche scientifiche di importanti istituti e organizzazioni medico-sanitarie, come l’Institute Of Medicine of the National Academies americano e l’Organizzazione mondiale della sanità, dichiareranno che non esiste alcuna correlazione tra vaccini e autismo, quella che appariva una importante notizia viene rubricata come fake. È urgente, dunque, sgombrare il campo da qualunque espressione semantica che conservi il dubbio di una verità, anche perché la popolazione comincia a non vaccinare più i bambini. Ma ormai è tardi. L’opinione pubblica ha avuto il suo imprinting. E, come nella tradizione dei più classici rumors, le smentite non fanno che alimentare la notizia, nella convinzione che enormi altri interessi si celino dietro le smentite. Non basterà dire, grazie a un’inchiesta giornalistica condotta sul Sunday Times, che l’articolo di Wakefield, oltre a difetti scientifici, conteneva alterazioni e falsificazioni della storia anamnestica dei pazienti allo scopo di supportare un brevetto per un sistema di vaccinazioni singole per ogni malattia, che non esisteva in commercio. Così come non basterà dimostrare che gli effetti della sconsideratezza di Wakefield avrebbero avuto conseguenze molte serie, come nuove epidemie di morbillo. Lo scandalo è mondiale: gli altri co-autori firmano una dichiarazione con cui ritrattano le conclusioni del lavoro. Ma l’imprinting è tale che è tutto il resto, ora, a sembrare una fake, compreso il fatto che l’Ordine dei medici inglese riconosce Wakefield colpevole di una trentina di capi d’accusa, tra cui disonestà e abuso di bambini con problemi di sviluppo.
Now print!
Dunque, le voci preoccupano: perché possono delegittimare istituzioni e governi, ma ancora di più perché possono generare comportamenti che mettono in pericolo la vita dei cittadini. E preoccupano perché mettono a nudo, privandolo di qualunque nutrimento riflessivo e autocritico, un meccanismo primordiale della specie. Si tratta di qualcosa che alcuni psicologi sociali, analizzando il processo tramite il quale si strutturano i ricordi di alcuni eventi – le “flashbulb memories” –, hanno definito in un modo suggestivo: now print! Ovvero: adesso stampa! Un meccanismo attraverso cui gli individui fissano il ricordo di un evento, o di una notizia relativa a un evento che ritengono pericoloso per la La dinamica del rumor/fake è indipendente dal problema dell’autenticazione.specie, e lo conservano in memoria inalterato e inalterabile, e in più contribuiscono a riprodurlo parlandone con tutti15. Per cui l’informazione non potrà mai più essere modificata e nemmeno dimenticata. Tale meccanismo mette in discussione l’idea che ci si possa appellare all’autorevolezza di una fonte, perché aiuta a comprendere che la dinamica del rumor/fake è indipendente dal problema dell’autenticazione. Semmai, il now print! ci aiuta a comprendere il legame sempre più stretto cheil rumor/fake ha con il tentativo collettivo di rispondere tutti insieme a bisogni, anche legati ad esperienze personali, rispetto ai quali si percepisce un deficit di tutele da parte delle istituzioni, politiche e scientifiche. Tanto che slogan come quello della post-verità diventano confortanti, perché danno la sensazione di una comunicazione che, nell’andare oltre lo statuto della verità, apre alla creatività e alla resistenza. E, in risposta, i governi si trovano costretti a legiferare per i limitare gli effetti dannosi delle fake, come è accaduto quest’estate in Italia, quando si è reso obbligatorio, per l’iscrizione a scuola, il completamento del ciclo delle vaccinazioni per i ragazzi fino a dodici anni.
L’informazione dal basso è inarrestabile (e ci si deve fare i conti), soprattutto per l’effetto dirompente dei social e di internet, e sembra, a molti, avere grandi potenzialità, perché, nella pluralità e infinità dei tagli e dei punti di vista, risulta capace di stimolare forme di partecipazione più libere da quel rischio di controllo a cui deve sottostare in generale la conoscenza ufficiale.
Ma la situazione è più complessa. Perché, da un lato, la realtà della comunicazione aperta oggi dai social e da internet non è ancora in grado di cogliere le interconnessioni sottese alla vita sociale, politica ed economica degli uomini. Dall’altro, non ci riesce più nemmeno l’infrastruttura classica della conoscenza, che pur ci si avvicina, per vocazione e per storia. Più che altro sembra, essa stessa, imbrigliata negli effetti scomodi della post-verità, finendo per essere unicamente impegnata a inseguire le bufale.
NOTE
L’autrice, Olimpia Affuso, parteciperà alla giornata di formazione “Sarà vero?” lunedì 18 dicembre a Milano.
1. “Voci che corrono” lo prendo in prestito dalla prima traduzione in italiano, di Laura Guarino, del 1988, del saggio di Jean-Noël Kapferer, Rumeurs. Les plus vieux media du mond, Editions du Seuil, Paris 1987.
2. E. Morin, La Rumeur d’Orleans, Editions du Seuil, Paris 1969.
3. O. Affuso, Falsi terremoti, vere paure. Come una diceria diventa realtà, in «Daedalus. Quaderni di storia e scienze sociali», 17/2002, pp. 67-90.
4. Tra ciò che cambia vi è quello che potremmo chiamare il periodo di ritorno di una voce. Fino all’avvento di internet, diciamo circa i primi anni Duemila, un rumor come questo tornava a diffondersi più o meno ogni 10 anni. Si v. la ricostruzione di Focus. Oggi, invece, una voce riemerge e ricomincia a circolare secondo un altro meccanismo che è stato definito di local vira hoax, per cui un’unica notizia falsa (hoax) si diffonde in varie comunità, più o meno nello stesso periodo, cambiando solo la città in cui si produce il fatto. Cfr. G. Veltri, G. Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, Mimesis, Milano-Udine 2017, pp. 65 e ss.
5. Cfr. J.-N. Kapferer, Rumors. I più antichi media del mondo, trad. it. Armando, Roma 2012.
6. Morin riuscì a organizzare in tempi brevissimi un’osservazione di quello che stava succedendo a Orléans, consegnando alle scienze sociali uno dei pochi studi su una diceria mentre è in atto. V. E. Morin, La Rumeur d’Orleans, cit.
7. Cfr. J.-N. Kapferer, Rumors. I più antichi media del mondo, cit.
8. R. Knapp, A Psychology of Rumor, in «Pubblic Opinion Quarterly», 8 (1), 1944, pp. 22-37.
9. G. W. Allport, L. Postman, An Analysis of Rumor, in «Pubblic Opinion Quarterly», 10, inverno 1946-1947, pp. 501-517.
10. J.-N. Kapferer, Rumors. I più antichi media del mondo, cit., pp. 35-37.
11. G. W. Allport, L. Postman, An Analysis of Rumor, cit.
12. J.-N. Kapferer, Rumors. I più antichi media del mondo, cit., p. 47.
13. Cfr. M. Schudson, Ronald Reagan Misremembered, in D. Middleton, D. Edwards (a cura di), Collective Remembering, Sage, London 1990, pp. 108-119.
14. G. Veltri, G. Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, cit., pp. 41-42.
15. R. Brown, J. Kulik, Flashbulb memories, in «Cognition», 1977, pp. 73-99.