No, non è giusto punire le classi di bravi

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In merito all’articolo di Elena Ugolini, uscito sul Corriere della Sera del 2 settembre, “Ma è giusto punire le classi dove ci sono studenti più bravi?” (p. 23), vorrei esprimere alcune considerazioni. Giustamente Ugolini coglie l’assurdo che si è creato in Italia per cui studenti eccellenti “si trovano penalizzati perché vengono da classi molto buone dove la percentuale di ragazzi bravi era ‘troppo’ alta”. L’autrice nota poi acutamente che: “Ai nostri studenti chiediamo di prepararsi al meglio per la maturità e, al contempo, imponiamo loro di studiare materie diverse per superare i test di ammissione”. Si tratta di un disagio grave per i ragazzi e per la stessa vita scolastica delle classi terminali. Tuttavia, il mio accordo con l’autrice in sede di diagnosi viene meno quanto alla terapia.

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Ugolini infatti, come soluzione, propone di mettere in discussione l’esame di Stato: “Penso sia arrivato il momento di ripensare a come è costruito l’esame di maturità”. Non mi pare che il ragionamento tenga. Eccolo esplicitato: siccome sono stati inseriti criteri assurdi per stabilire i punteggi ai test d’ingresso, allora modifichiamo l’esame di Stato. Sia chiaro, non sono qui a difendere l’esistente: se troviamo motivi per ripensare l’esame e sono buoni, bene: cambiamolo. Il punto è che non mi pare saggio cambiarlo perché esso non si adatta al sistema (malfatto) di valutazione per l’ammissione all’Università.
Le esigenze dell’Università, che in questo caso sono proprie dell’intero corpo sociale, consistono nel valutare i molti candidati, usando strumenti e applicando criteri che selezionino i migliori. I test sono uno strumento collaudato, ma verificano su singole performance, perciò può succedere che uno studente eccellente, in giornata storta, renda meno di quanto potrebbe e venga penalizzato così da essere escluso da un percorso universitario che, per qualità e impegno profuso, meriterebbe. È un danno per lui e un male per la società. Tenere conto del curriculum fornisce dunque un bilanciamento che mette al riparo dall’inconveniente della giornata storta, almeno in qualche misura. Siccome però il curriculum, si è notato, è espresso in voti mediamente più alti al Sud che al Nord, per applicare una procedura che sia giusta si è settato il sistema di bonus attuale che finisce per non funzionare con equità, proprio quando la persegue con furore burocratico.

La soluzione non mi pare rintracciabile nei test “oggettivi”, tanto criticati nello stesso mondo anglosassone dove sono in uso da anni. Tali test, infatti, condizionano negativamente la didattica, per cui si finisce o per cadere nel nozionismo, oppure per rinunciare a verificare approfonditamente le conoscenze, limitandosi a testare competenze e capacità generiche. Negli Stati Uniti una delle critiche più gravi e fondate al sistema dei test è che la didattica ordinaria a un certo punto si interrompe per preparare ai test: vogliamo anche noi seguire un modello che ci imporrebbe di abbassare la qualità dell’insegnamento? Del resto, riducendo l’esame di Stato a un test di questo tipo, semplicemente si rinuncia all’esame di Stato, perché nell’attuale sistema un simile strumento c’è già ed è appunto il test di ammissione all’Università. Non vedo però alcun vantaggio nel rinunciare all’esame di Stato, anche solo nelle sue prove scritte. Quanto al caso francese in cui, spiega Ugolini, “la selezione per l’ammissione alla facoltà di Medicina avviene dopo il primo anno di università e un breve tirocinio in ospedale”, beh qui Ugolini non pare aver colto il punto per cui esistono i test di ammissione all’Università. Chi può accedere al primo anno di Medicina? Lo stabiliamo con un test? E se questo va male perché si ha il mal di denti? Dobbiamo guardare al curriculum? Allora siamo punto e a capo. Mi pare che le soluzioni non vadano né nella direzione dell’attuale burocratismo isterico, né in quello della proposta ingiustificata, ma immagino provocatoria, di modificare l’esame di Stato. Restiamo in attesa che il Ministero continui su tutto il territorio nazionale, ma con più convinzione, la spinta per l’adozione di criteri docimologici comuni e favorisca una cultura uniforme nel valutare. Restiamo inoltre in attesa che l’Università italiana attivi un sistema di reclutatori che guardino il singolo caso, svolgendo colloqui personali coi candidati più qualificati, così da tenere conto anche dei fattori che il sistema dei test non può rilevare. Nel frattempo, si può cambiare il sistema di valutazione del curriculum per l’accesso all’Università, così da neutralizzarne gli attuali esiti assurdi. La soluzione, mi pare, sta nel semplificare la quota di punteggio riservata al curriculum. Ecco una possibile soluzione: 2 punti ai voti tra 70 e 79, 4 punti per i voti tra 80 e 90, 7 punti per i voti tra 91 e 99, un punteggio di 10 punti per i cento e le lodi. Nient’altro. Con tale sistema le differenze dovute alla “manica” delle commissioni si ridurrebbero e con esse le ingiustizie. Certo, in questo modo si perderebbe la possibilità di differenziare molto i punteggi, ma non vedo perché si dovrebbe farlo sulla base del curriculum. Il punteggio da curriculum non dovrebbe essere il criterio discriminante in un reclutamento basato su test di ammissione. Il curriculum merita di essere valorizzato solo per offrire ai bravi una rete che ammortizzi eventuali ed estemporanei cali di rendimento. Data la funzione che svolge, il suo peso deve essere limitato ed è inutile e controproducente aggiungere micro-differenziazioni ulteriori. Certo, qualcuno si lamenterà lo stesso, ma bisogna che questi prenda coscienza che, nella valutazione, nessun sistema è perfetto: ce ne sono solo di più equilibrati.

Il mio accordo con Elena Ugolini viene, infine, a ricomporsi sulle speranze che lei così bene esprime e io sottoscrivo volentieri: “Scegliamo una strada sensata che sappia valutare e quindi valorizzare la preparazione dei nostri ragazzi, senza disorientarli”.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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