Dal 18 febbraio al 21 maggio 2023, è possibile visitare presso l’Orangerie della Villa Reale di Monza la mostra I Macchiaioli e l’invenzione del Plein air tra Francia e Italia, curata da Simona Bartolena, che ripercorre le vicende di uno dei movimenti artistici più importanti della scena culturale italiana del secondo Ottocento.
L’esposizione, prodotta e realizzata da ViDi cultural, in collaborazione con il Consorzio Villa Reale e Parco di Monza e con il Comune di Monza (col contributo di BPER Banca, travel partner Trenord) ci propone una novantina di opere, da collezioni private e pubbliche. Si tratta, in larga parte, di quadri di piccole o medie dimensioni, tutti di evidente gradevolezza e buona qualità pittorica, il che dà ai visitatori l’impressione di trovarsi in un elegante salotto. Sì, è proprio questa l’idea – quella di essere nel salotto borghese di un fortunato collezionista di inizio Novecento – che mi sono fatto passando una piacevole ora nei bellissimi spazi monzesi, insieme a un pubblico folto e visibilmente compiaciuto.
La pittura dal vero: Francia e Italia
Intendiamoci, però. La mostra non è solo esposizione in senso estetico, ma ha anche un evidente e dichiarato taglio culturale, che – come si evince dal titolo – è anzitutto quello del legame di dipendenza che l’esperienza macchiaiola ha avuto con la pittura “del vero dal vero” della Scuola francese di Barbizon, ma anche con altre manifestazioni artistiche, ad esempio, di area piemontese o napoletana.
Il percorso si apre così con la sezione che contiene opere di Camille Corot, Charles-François Daubigny, Constant Troyon, Théodore Rousseau, Jules Dupré e prosegue con i lavori di artisti italiani, quali Antonio Fontanesi, Giuseppe e Filippo Palizzi, o di Serafino De Tivoli il quale, grazie alle conoscenze acquisite durante un viaggio parigino, porterà ai colleghi del Caffè Michelangelo a Firenze novità e conferme importanti.
I ribelli del Caffè Michelangelo
Infatti è proprio in questo storico locale che, soprattutto a partire dal 1860, si riunivano giovani pittori dalla mentalità ribelle e anticonformista, i quali si battevano per un superamento dell’arte accademica e per una volontà di dipingere il vero. Vero, d’accordo, ma in che senso? Sia in quello più strettamente paesaggistico (città e campagna della meravigliosa Toscana), sia in quello storico (in relazione alla storia passata e a quella contemporanea del Risorgimento), sia in quello sociale (con un’attenzione anche alla durezza del mondo del lavoro, in particolare quello agricolo).
Così nacque il movimento dei «Macchiaioli» (il cui teorico fu il critico Diego Martelli), termine che all’inizio non ebbe accezione positiva ma che con il tempo si è andato storicizzando, e che ha visto tra i suoi esponenti artisti del calibro di Giovanni Fattori, Telemaco Signorini, Giuseppe Abbati, Silvestro Lega, Vincenzo Cabianca, Raffaello Sernesi, Odoardo Borrani.
Di tutti loro sono in mostra, a Monza, interessanti dipinti, così come quelli dei loro più immediati epigoni – magari meno conosciuti ma bravissimi – e cioè Nicolò Cannicci, i “fattoriani” fratelli Gioli e i Tommasi, famiglia di valenti pittori.
Giovanni Fattori, ma non solo
Qualche segnalazione particolare? Chi scrive ha un’antica passione per l’arte di Giovanni Fattori – una sorta di leader spirituale del gruppo – del quale segnalo, tra gli altri un bellissimo Bovi al carro del 1868 e alcune tavolette di gusto risorgimentale, che sono tra le mie preferite.
Non meno interessanti sono alcune opere di altri “pezzi grossi” del movimento, e mi riferisco ad esempio a Il corsetto rosso di Silvestro Lega, oppure alla Strada di Combs La Ville e Pioggia a Settignano di Telemaco Signorini.
Il paesaggio toscano è ben rappresentato anche da La punta Righini di Raffaello Sarnesi, la storia medievale da un intrigante Dante nel Casentino di Vincenzo Cabianca, mentre l’epica del lavoro inteso come fatica da Donne che lavorano nei campi di Cristiano Banti o dalla Donna al pozzo di Silvestro Lega.
Macchiaioli e Impressionisti
Non manca, verso la fine, anche una riflessione sul rapporto tra il movimento della «Macchia» e quello che prese poi piede in Francia, e cioè l’Impressionismo. Si tratta di una vexata quaestio, ma non vi è dubbio che il carattere fortemente regionalistico (lo dico senza alcuna sfumatura negativa) dell’esperienza macchiaiola, unito a un’evidente diversa condizione storica, sociale ed economica della nascente Italia unita rispetto alla Francia, giustificano una certa distanza dei pittori toscani dai loro colleghi francesi, che diverranno (non subito, ma…) delle star di livello planetario.
E se da Silvestro Lega ci fu una qualche blanda apertura verso il movimento d’Oltralpe, assai più avversi ci appaiono Telemaco Signorini e, soprattutto, quel Giovanni Fattori che era ormai uno dei numi tutelari della vita culturale post-unitaria.
Ciò perché – come dico qualche volta scherzando (spero che mi scuseranno gli esperti) – Castiglioncello non era Parigi, a Livorno (ma nemmeno a Firenze!) non c’era la Gare d’Orsay, e i fieri butteri maremmani erano altra cosa rispetto ai festaioli Canottieri di Renoir…
Insomma, come poteva una Toscana (ma un’Italia tutta) ancora contadina sentire la giusta sintonia con una Francia avanguardia della modernità?