La strage di migranti avvenuta ieri a Lampedusa ha lasciato me, come tutti noi, senza parole. E il tentativo di parlarne con i miei studenti stamattina è risultato – temo – un po’ troppo dettato dall’emotività, e soprattutto privo di quelle informazioni che sono necessarie a comprendere meglio quanto è successo. Tornato a casa, ho provato a documentarmi meglio, e di certo giornali e web non mancano di quei dati che possono servire a riprendere quel discorso appena abbozzato. E così, penso, faranno molti colleghi.
Ma è da ieri sera che mi ronzano in mente i versi di Omero, Odissea, VI, nei quali Odisseo – migrante d’altri tempi – giunge naufrago nella terra dei Feaci. È nudo, sporco, e non ha nulla della sua dignità regale. Parla da profugo, da perseguitato, con dignitoso dolore, e nessuno potrebbe immaginare che egli sia nientemeno che il grande eversore della rocca di Troia! Eppure la giovane principessa Nausicaa non ha dubbi ad accoglierlo e confortarlo. Ed è la xenìa, cioè l’obbligo di accogliere gli stranieri (protetti da Zeus Xenios in persona, che li rende sacri e intoccabili), che le detta queste parole: ora però, che sei giunto alla nostra terra, alla nostra città, / né panno ti mancherà, né altra cosa, / quanto è giusto ottenga il meschino, che supplica.
Politici, diplomatici, osservatori internazionali, ci diranno qualcosa di più su quello che è davvero capitato a Lampedusa: e sapere e capire non sono certo cosa inutile, perché non basta più compiangere i morti e comporli nelle bare, ammesso che si trovino i loro corpi e che le bare siano sufficienti. Capiremo anche se qualcuno ha fatto finta di niente, se ci sono stati qualche omissione di soccorso o qualche colpevole ritardo…: domani, forse, lo capiremo. Ma quando ho visto le immagini del coraggio dei soccorritori, militari o civili, professionisti o volontari, ho pensato allo Zeus Xenios che animava le parole della gentile Nausicaa. Anzi ho rivisto proprio Nausicaa in una giovane donna con un k-way rosso, che piangeva mentre faceva sbarcare i superstiti sul molo di Lampedusa insieme ad altri colleghi. Non so come si chiami, e forse poco importa. Ma è grazie a gente come lei che, nonostante la vergogna collettiva di questa carneficina, possiamo ancora – pur con qualche remora – guardarci allo specchio. Ed è proprio pensando alla nostra Nausicaa che mi permetto di trascrivere, in coda a queste mie parole, i vv. 170 ss. del VI libro dell’Odissea, nella bella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, dove chi parla all’inizio è proprio Odisseo, re naufrago e migrante controvoglia:
«Ieri scampai dopo venti giornate dal livido mare:
fin qui l’onda sempre m’ha spinto e le procelle rapaci,
dall’isola Ogigia; e qui m’ha gettato ora un dio,
certo perché soffra ancora dolori: non credo
che finiranno, ma molti ancora vorranno darmene i numi.
Ma tu, signora, abbi pietà: dopo molto soffrire,
a te per prima mi prostro, nessuno conosco degli altri
uomini, che hanno questa città e questa terra.
La rocca insegnami e dammi un cencio da mettermi addosso,
se avevi un cencio da avvolgere i panni, venendo.
A te tanti doni facciano i numi, quanti in cuore desideri,
marito, casa ti diano, e la concordia gloriosa
a compagna; niente è più bello, più prezioso di questo,
quando con un’anima sola dirigono la casa
l’uomo e la donna: molta rabbia ai maligni,
ma per gli amici è gioia, e loro han fama splendida».
Gli replicò Nausicaa braccio bianco:
«Straniero, non sembri uomo stolto o malvagio,
ma Zeus Olimpio, lui stesso, divide fortuna tra gli uomini,
buoni e cattivi, come vuole a ciascuno:
A te ha dato questo, bisogna che tu lo sopporti.
Ora però, che sei giunto alla nostra terra, alla nostra città,
né panno ti mancherà, né altra cosa,
quanto è giusto ottenga il meschino, che supplica.
La rocca t’insegnerò e dirò il nome del popolo.
I Feaci possiedono terra e città,
io son la figlia del magnanimo Alcínoo,
che tra i Feaci regge la forza e il potere».