Un caso particolarmente significativo, a proposito di musei coloniali, è quello del Museo Reale per l’Africa Centrale https://www.africamuseum.be/en, prima noto come Museo Reale del Congo Belga, a Tervuren, in Belgio. Con la Conferenza di Berlino del 1884-1885, nota anche come Conferenza dell’Africa Occidentale o Conferenza sul Congo, veniva riconosciuto lo Stato Libero del Congo sotto il controllo personale di re Leopoldo II del Belgio. L’amministrazione violenta del paese da parte del sovrano portò a uno scandalo internazionale e, nel 1908, al passaggio del Congo sotto il governo del Belgio. La colonia del Congo Belga avrebbe raggiunto l’indipendenza solo nel 1960.
L’origine del museo risale all’Esposizione Internazionale di Bruxelles del 1897, in occasione della quale, per ordine di Leopoldo II, la sezione coloniale venne realizzata a Tervuren, che fu collegata alla capitale con una linea di tramvia e la realizzazione di un grande viale. La sezione comprendeva animali imbalsamati, campioni geologici, oggetti tradizionali congolesi e i principali prodotti del paese come caffè, cacao e tabacco, oltre a oggetti artistici creati in Belgio per l’occasione. Nel parco era stata realizzata una copia di villaggi africani che “esibivano” durante il giorno dei veri congolesi, alcuni dei quali morirono durante la loro permanenza nel villaggio. La mostra temporanea proposta dal museo, Human Zoo. The age of colonial exhibitions, aperta fino a marzo, presenta proprio immagini e documenti, spesso inediti, di esibizioni di esseri umani in un contesto internazionale, non esclusivamente legato ai villaggi di Tervuren.
L’idea di Leopoldo II era quella di utilizzare il museo come strumento di propaganda per il suo progetto coloniale, attirando finanziamenti e convincendo l’opinione pubblica. Quando la sede del museo, che comprendeva anche un istituto scientifico, divenne troppo piccola, Leopoldo II ne commissionò una più grande che prevedeva una scuola internazionale, un centro congressi, una sezione cinese, un centro sportivo e una stazione. Il nuovo museo sarebbe stato inaugurato dal suo successore, re Alberto I, nel 1910.
Il museo ha cambiato molti nomi nel corso della sua storia, fino a diventare, nel 1952, Museo Reale del Congo Belga e, negli anni Sessanta, Museo Reale per l’Africa Centrale. Nel 2013 il museo venne chiuso per lavori di restauro e rinnovamento; riaperto nel 2018, è ora noto come Africa Museum.
In questi cinque anni tutto l’allestimento è stato ripensato per decolonizzare la narrazione degli oggetti esposti e presentare il Congo e l’Africa da un punto di vista diverso da quello coloniale. Nel precedente allestimento, ad esempio, una parete del museo presentava i nomi dei belgi che erano morti nel paese, ma nessun cenno era dedicato ai congolesi. Per quanto riguarda gli oggetti esposti, uno dei più controversi era rappresentato dalla statua dell’Uomo Leopardo con la sua preda umana, a rappresentare le società segrete realmente esistite degli uomini leopardo che ritroviamo citate nel fumetto belga Tintin in Congo e in vari film.
Scopo del riallestimento del museo era quindi quello di abbandonare il suo racconto esclusivamente colonialista e mettere in evidenza il punto di vista congolese della storia, dando ampio spazio all’immagine contemporanea dell’Africa celebrandone arte, musica e costumi.
Come ha dichiarato il direttore Guido Gryseels «We will obviously retain the museum for Belgian colonial history, but we want to reflect a new vision of Africa […] We would like to be a window on to contemporary Africa, on the Africa of today» (Suzanne Lynch, The plunder years: culture and the colony, 25 marzo 2014, su «The Irish Times»).
Nonostante i cambiamenti e la nuova impostazione, la riapertura del museo è stata comunque accompagnata da pesanti critiche. L’inaugurazione è stata contrastata da manifestazioni di attivisti che protestavano contro l’esposizione di oggetti saccheggiati durante il periodo coloniale e che chiedevano un memoriale per i sette congolesi morti in Belgio nel 1897 a causa della loro esposizione in pubblico. Anche la scelta di puntare sull’arte contemporanea africana, con artisti come Chéri Samba, Aimé Mpane e Freddy Tsimba, incaricati di reinterpretare gli oggetti e fornire una diversa chiave di lettura, è stata oggetto di critiche e dibattito. Molti musei etnografici e coloniali hanno offerto residenze e organizzato workshop con artisti africani, ma anche queste iniziative sono state viste come una forma di paternalismo da parte dei paesi europei.
Come lo stesso museo ammette nel suo sito, molti visitatori hanno dichiarato di non essere riusciti a cogliere un messaggio di decolonizzazione culturale nella sala della grand rotunda, dov’è esposta l’opera di Aimé Mpané New breath, or Burgeoning Congo, e attivisti dell’Human Rights Council hanno chiesto con forza che il museo presentasse chiaramente le violenze perpetrate durante il periodo coloniale. Ad Aimé Mpane è stata così commissionata una seconda opera, Skull of Chief Lusinga, che rimanda alla spedizione dell’ufficiale belga Emile Storms nel villaggio di Lusinga nel 1884, durante la quale la testa del capo villaggio fu tagliata e portata in Belgio. In questo modo le due opere di Aimé Mpane rappresentano i due aspetti che il museo vuole presentare: la violenza del passato e la promessa del futuro.
Aimé Mpane ha inoltre coinvolto l’artista belga Jean-Pierre Müller nel progetto RE/STORE per ricontestualizzare le statue già presenti nella grand rotunda attraverso l’utilizzo di sedici veli semi-trasparenti, sui quali sono stampate immagini contemporanee, posti davanti alle sculture, per fornire una nuova lettura della pesante eredità culturale dell’istituto.
L’11 giugno 2020, inoltre, il museo ha rilasciato una dichiarazione a sostegno del movimento #BlackLivesMatter, riconoscendo l’impostazione di propaganda coloniale per cui era stato istituito e dissociandosene, condannando colonialismo e razzismo. La dichiarazione non gli ha comunque risparmiato l’accusa di ipocrisia da parte di alcuni attivisti del movimento, costringendo il museo a ulteriori scuse sul sito. Il museo ha tenuto inoltre a sottolineare che il gruppo scultoreo con il busto di Leopoldo II collocato nel parco non rientrava nella loro giuridizione, ma in quella del parco, impegnandosi a contestualizzare le opere controverse, testimonianze di un violento periodo coloniale, e a incoraggiare le autorità locali ad aprirsi al dibattito con le comunità coinvolte.
Per quanto riguarda la provenienza degli oggetti esposti, la riapertura del museo è coincisa con la dichiarazione di Joseph Kabila, presidente della Repubblica Democratica del Congo, al quotidiano belga «Le Soir» in cui annunciava l’intenzione di presentare una richiesta ufficiale di restituzione dei beni da parte del museo. Un esempio di richiesta riguarda la statua in legno che Alexandre Delcommune, esploratore e commerciante di gomma e avorio, aveva sottratto al capo di Boma, Ne Kuko, che è stata oggetto di tre rivendicazioni: una da parte dello stesso Ne Kuko nel 1878, una da parte di Mobutu nel 1973 e la terza da parte di un discendente del capo congolese poco prima della riapertura del museo (Beatrice Falcucci, Musei per raccontare il colonialismo, 9 aprile 2021, dinamopress.it).
Una sezione del sito del museo è proprio dedicata alla provenance degli oggetti, in riferimento all’attività di provenance research che molti musei hanno intrapreso per verificare la lecita provenienza dei beni nelle loro collezioni. Per quanto riguarda il problema delle restituzioni ai paesi di origine, il sito del museo informa che fra il 1976 e il 1982 sono stati restituiti 114 reperti etnografici all’Institut des Musées Nationaux dello Zaïre (nome assunto dalla Repubblica Democratica del Congo dal 1971 al 1997) a Kinshasa e circa 600 oggetti al Museo Nazionale del Ruanda a Butare. Recentemente non sono state avanzate richieste formali di restituzione di oggetti, ma il museo si dichiara disponibile al confronto e sta digitalizzando documenti d’archivio, fotografie e film per consegnarli ai paesi interessati.
Non è per niente facile, per un museo coloniale, nato in un determinato contesto storico e con uno scopo ben preciso, ripensare e valorizzare le proprie collezioni riproponendole in un’ottica completamente diversa, non offensiva, non razzista, in accordo con la sensibilità contemporanea e nel rispetto dei diritti umani. La semplice censura delle opere non può essere una soluzione: non si può cancellare, dimenticare o distruggere la storia. La via intrapresa di contestualizzare gli oggetti, contrapponendo alla visione dei colonialisti quella delle comunità oppresse, può rivelarsi quella più corretta.