Montalbano tra Plauto e Pirandello

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Ho appena letto il romanzo postumo di Andrea Camilleri, “Riccardino”, Sellerio, Palermo 2020, quello che l’autore aveva scritto nel 2005 per porre fine alla saga del commissario, affidandolo all’amica Elvira Sellerio, scomparsa nel 2010, con il vincolo di pubblicarlo solo dopo la sua morte, avvenuta come sappiamo un anno fa.
Un ritratto di Andrea Camilleri

Ed è un bel libro, a mio avviso di grande interesse anche per chi non ama il genere poliziesco; un libro che – come molti hanno scritto – è ricco di evidenti allusioni pirandelliane. Eppure, eppure… mentre lo leggevo avevo sempre più davanti a me anche un altro modello, e cioè il teatro di Plauto, e in particolare mi venivano in mente quattro “parole d’ordine” che è impossibile non usare quando si deve illustrare l’opera plautina: pastiche linguistico, contaminatio, “doppio”, “metateatro”.

Plauto in un’immagine di fantasia

Camilleri e Plauto

Si parla infatti di pastiche linguistico per la capacità plautina di creare una lingua affascinante e artificiosa. Di contaminatio, per indicare nella stessa commedia la mescolanza di più vicende, per lo più desunte da modelli greci. Di “doppio”, perché in molti drammi (ad es. Bacchides, Maenechmi) ci sono coppie di personaggi simili che danno luogo a fraintendimenti, ma soprattutto perché nell’Amphitruo il servo Sosia ha una clamorosa crisi di identità quando si trova davanti un “altro sé”, e cioè il dio Mercurio che ha assunto le sue stesse sembianze.
Ma, soprattutto, si parla di “metateatro”, e cioè di un raffinato espediente con il quale l’autore si diverte spesso a coinvolgere il suo pubblico nei segreti del suo lavoro e a rivelarne le finalità, dichiarando apertamente, come il servo dello Pseudolus, che il compito del poeta è quello di rendere illud veri simile quod mendacium est, cioè presentare al pubblico “bugie in forma verisimile”; insomma, il teatrante è un ingannatore che però si “autodenuncia” continuamente davanti suo pubblico, cui ribadisce che la scena è una realtà alternativa a quella quotidiana.

Poiché, come spiegherò, questi elementi compaiono anche nel romanzo di Camilleri, ho fatto un semplice ricerca sul web e ho trovato – tra l’altro – lo stralcio di un’intervista che Nicola Adragna gli fece, in relazione al libro Le parole raccontate, per Stilos, supplemento letterario de La Sicilia del 19.3.2002, e che così recitava:

D: Nella sua opera ci sono anche depositi plautini? Il modello è omologo: una tresca che crea un guazzabuglio, una serie di peripezie e infine uno scioglimento che a volte è palinodico e a volte anche moralistico.
R. «Probabilmente. Io ho fatto Plauto in teatro. E quando fai una cosa in teatro, dai vita e respiro a un personaggio, qualcos’altro per forza ti rimane dentro. La scrittura è un processo di automodificazione complessa, che deduce benefici anche dalla recitazione».

Dunque, non mi ingannavo: Camilleri conosceva Plauto, lo ha “praticato” e – a quanto pare – metabolizzato nel profondo. Cerchiamo ora di capire come e perché, analizzando nel dettaglio alcuni aspetti di Riccardino.

Il pastiche linguistico

Forse questa espressione è, per Camilleri, riduttiva, tant’è che il “vigatese” con cui scrive è andato – nel tempo – trasformandosi da una sorta di divertissement estemporaneo in un vero e proprio – così dicono i critici – “idioletto” (cioè una sorta di unicum linguistico), con una sua morfologia codificata e una sintassi sui generis.

Lo dimostra proprio la vicenda del nostro romanzo, scritto nel 2005 e nel 2016 sottoposto a una “risciacquatura” di manzoniana memoria, facilmente riscontrabile nell’edizione “doppia” in commercio, e ben illustrata nella postfazione di Salvatore Silvano Nigro, che a questo proposito ha opportunamente parlato del passaggio da una «lingua bastarda» a una «lingua inventata». Così comodino diventa commodino, domanda diventa dimanna, fece diventa fici, forse diventa forsi ecc., con una progressiva de-italianizzazione della lingua, che pure non è dialetto siciliano, bensì un’affascinante e artificiosa creazione che ha alle spalle Verga, Dossi, Gadda – come ho già scritto su queste colonne – e sicuramente anche Plauto.

Camilleri RiccardinoLa contaminatio

Come spesso capita, il commissario Montalbano si trova a dovere indagare contemporaneamente su due vicende: quella di uno strano omicidio, perpetrato proprio a danno di un tal Riccardino, che si apprestava a fare una gita con alcuni amici, e quella di un ambiguo andirivieni di camion da una sorta di discarica abusiva. In apparenza i due ambiti di indagine non hanno nulla in comune, ma il fiuto del poliziotto capisce che c’è un filo (neanche troppo esile) che li lega e li “contamina”. Il tutto con il consueto condimento di corna, droga, mafia, e con numerose allusioni che ci riportano a quel 2005 nel quale la politica cercava – anche attraverso apposite leggi ad personam – di frenare l’attività della magistratura. Chi ha orecchie per intendere…

Il doppio

Montalbano si sente stanco, demotivato, e questo suo atteggiamento preoccupa non poco i suoi uomini. Ma il problema, più che l’età che avanza, è la competizione ormai evidente tra il personaggio letterario e il suo alter ego televisivo, tanto che Salvo ammette tra sé e sé: «Senza volirlo, hai principiato ‘na gara tra te e l’attori, ecco tutto. Ma, vedi, è ‘na gara inutili e impari pirchì mentri che la tilivisioni avi milioni di spettatori, tu hai sulo a tia stesso» (p. 37).
È come se il commissario “cartaceo” fosse infastidito dalla sua versione più glamour e pop, che da un lato disprezza, dall’altro ammira e invidia: un esempio da manuale di “doppio”, ricco di suggestioni letterarie (cui lo stesso Camilleri allude: «Werfel, Jean Paul, Maupassant», pp. 182-183) dove c’è il rischio, per il poliziotto, di una pericolosa crisi di identità come quella del Sosia plautino.

Luca Zingaretti interpreta Salvo Montalbano
Luca Zingaretti interpreta Salvo Montalbano nella serie Tv RAI.

Il metateatro

Sempre in quel colloquio con sé stesso cui ho appena alluso, Montalbano si auto-apostrofa dicendo: «Hai fatto tiatro, hai tragediato come cento, mille autre vote in passato» (p. 36). In effetti la dimensione teatrale in questo romanzo è molto forte, tanto che l’opera sembra assumere in qualche frangente la struttura della scenografia o del canovaccio. Ma perché ho parlato di “metateatro”? Perché il Nostro, oltre a dialogare con il suo io e confrontarsi con la sua versione televisiva deve spesso subire le ingerenze dell’Autore, che non solo gli parla e prova a guidarlo, ma che in alcuni frangenti (via fax o via telefono…) sembra volere cercare insieme con lui un finale concordato per questa storia e quindi per l’intera vita letteraria del commissario. Ma non sempre personaggio e Autore vanno d’accordo (Pirandello docet), anche perché – come Plauto aveva più volte detto al suo pubblico (ad es. nel già citato Pseudolus) – non è per nulla facile trovare il bandolo della matassa in una vicenda intricata.

Insomma, è come se Camilleri – al pari del commediografo latino (o del drammaturgo di Girgenti) – si “autodenunciasse” davanti a noi lettori, manifestando tutta la sua difficoltà nel provare a chiudere nel migliore dei modi questa sua straordinaria esperienza narrativa. Ed è come se ci dicesse: “Ho fatto il meglio che potevo, volete provare voi a fare di meglio?”.

Luigi Pirandello

La longevità di Autore, personaggio, attore

Ovviamente non posso anticipare nulla sulla conclusione del romanzo, e credo che ciascun lettore potrà dirsi più o meno soddisfatto di come lo scrittore abbia provato a uscire da questa complicata situazione. Quello che però vorrei ricordare è che Camilleri ha scritto Riccardino a ottant’anni, nel timore di non riuscire più a produrre nulla a causa dell’avanzare dell’età; e che invece ha ideato altri diciotto romanzi e numerosi racconti, nei quali il “suo” Montalbano ha continuato a indagare, mangiare e bere come Dio comanda, arrabbiarsi con i prepotenti e litigare con la fidanzata Livia. Forse, avere consegnato alla posterità il contrasto tra il personaggio letterario e quello televisivo come pure le «sciarratine» – avrebbe scritto Camilleri – del commissario con il suo Autore ha allungato la vita a tutti e tre: perché – va detto – qui siamo oltre il “doppio”, ma addirittura si sfiora il “triplo” (pur se non siamo ancora ai centomila di Pirandello…) se consideriamo il punto di vista del narratore, quello del personaggio letterario e quello (meno conclamato, ma sempre aleggiante) dell’attore che lo interpreta!
Insomma: è stata come una sana litigata tra amici, che si sono chiariti le idee sui propri ruoli e poi sono tornati a convivere più o meno serenamente, in questo caso non solo a vantaggio loro ma anche di milioni di lettori e appassionati telespettatori. Tra i quali – lo confesso – c’è anche il vostro recensore, che può dunque avere un pochino peccato di parzialità, perché è da anni un affezionato fan di entrambe le versioni del commissario più noto d’Italia. Non so se dipenda o meno dagli echi di Plauto (autore da me amatissimo, al pari di Pirandello), ma così è, se vi pare, ovviamente!

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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