Faccio parte di quella generazione per la quale in gioventù leggere un romanzo poliziesco (in tutte le sue varie accezioni più o meno “gialle”…) era soprattutto un modo per evadere, magari per prendersi una pausa da letture più “alte”. Io, in particolare, associavo il romanzo poliziesco, nella sua versione più raffinata, ai “Maigret” di Simenon (dei quali mio padre era un vero fanatico), e in quella meno elevata ai “Gialli Mondadori”. Sì, proprio quelli che promettevano – nella pubblicità – che il viaggio in treno da Milano a Roma sarebbe durato un attimo leggendo le loro storie: non a caso le edicole delle stazioni ferroviarie ne pullulavano, come ben ricorderanno i miei coetanei.
Alcuni mostri sacri della letteratura poliziesca
Eppure, già durante gli anni Ottanta – se non ricordo male su impulso di Alberto Asor Rosa – si cominciava a studiare con attenzione e senza pregiudizi il genere letterario; un genere che qualche critico ha voluto collegare, a livello di archetipo, alla “inchiesta” con la quale l’Edipo sofocleo (nell’Edipo re) scopre la sua sciagurata colpevolezza, e che senza dubbio tra Ottocento, Novecento e oltre ha prodotto – attraverso la fantasia dei suoi autori – personaggi destinati a durare nell’immaginario collettivo. A diventare, insomma, dei “classici”.
E chi può infatti dire l’espressione Elementare, Watson senza pensare a Sherlock Holmes? O dimenticarsi delle orchidee di Nero Wolfe, dei baffi di Hercule Poirot, della pipa di Maigret (nota quasi come quella che non è una pipadi Magritte), di Charo, storica fidanzata del catalano Pepe Carvalho, o della scalcagnata Fiat Mirafiori (poi divenuta Seat) del commissario greco Kostas Charitos?
E Salvo Montalbano?
No, non mi sono dimenticato di Salvo Montalbano: il fatto è che a lui volevo dedicare uno spazio particolare, per onorare la memoria del suo “inventore” Andrea Camilleri, che ci ha da poco lasciato. La lettura dei romanzi del commissario, cui mi ha iniziato molti anni un’anziana zia appassionata lettrice, è stata per me all’inizio un po’ faticosa (sono padano al 100%, nel bene e nel male…), ma poi – oserei dire – necessaria. Ciò perché, al di là del buon ritmo narrativo, dell’acutezza degli intrighi escogitati, della sensibilità sociale e umana che vi traspare, i libri di Camilleri sono un vero laboratorio linguistico e stilistico.
Originalità di lingua e stile
C’è senza dubbio alle spalle il magistero di Verga e del suo Erlebte Rede di spitzeriana memoria; c’è l’emulazione di Gadda, con lo sperimentalismo del Pasticciaccio; ma c’è soprattutto la sapienza di chi – avendo lavorato per tanti anni in televisione – sa che la lingua è un medium artificiale, non necessariamente mimetico della realtà, ma il cui artificio può poi in qualche modo reificarsi. Dunque termini dialettali come cabasisi o camurria, nonché espressioni (io qui le italianizzo…) come mi sono fatto persuaso (tipica di Montalbano) o personalmente in persona (tipica di Catarella) hanno trasceso la pagina scritta (o la serie televisiva) per diventare di uso comune: dalle Alpi a Lilibeo. La perentoria affermazione Montalbano, sono, è poi talvolta una sorta di slogan, che tutti usiamo talora anche a sproposito: proprio come quel tale che – scrivendo sui muri di Pompei duemila anni fa – citò ironicamente l’incipit prestigioso dell’Eneide virgiliana (Arma virumque…) per cantare le umili gesta dei lavandai locali. Per non parlare del nome Vigata, che è ormai più vero della realtà toponomastica, segno concreto della potenza della letteratura e della televisione.
Ciò perché i libri di Camilleri (come l’Eneide di allora) fanno oggi parte di un background culturale condiviso: proprio quello che connota i “classici” (non sempre necessariamente “capolavori”) nel senso più pieno del temine, se è vero che Italo Calvino scriveva: «I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale» (Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991).
Una previsione
Attenzione. Non voglio dire che Camilleri sia stato un nuovo Virgilio, un nuovo Verga o un nuovo Gadda, anche perché manca ancora una vera valutazione critica complessiva delle sue opere (non solo dei romanzi polizieschi); dico solo che dei suoi umanissimi personaggi, ma soprattutto del suo “vigatese” (un dialetto italianizzato o un italiano contaminato dal dialetto?) sentiremo ancora parlare a lungo, anche perché i libri che ha scritto – diversamente dal grammelot di Dario Fo, poco efficace fuori dal teatro – lo veicoleranno alle generazioni successive. Si continuerà dunque a dire Montalbano, sono e non Montalbano, ero!