Caro Alberto,
sono io a ringraziarti: ricevere critiche è qualcosa che rivela attenzione e una sicura considerazione da parte del proprio critico e poi, come dimenticare il vecchio, ma sempre valido, principio: amicus Plato, sed magis amica veritas? Poiché mi hai posto in condizione di dover rispondere, sono contento di questa occasione che mi consente di svolgere ulteriormente il mio pensiero circa il tuo libro. Per prima cosa cerco di mostrare come un modello di giustificazione non vale l’altro e che ce ne sono di migliori e di peggiori. Nella seconda parte cercherò di rispondere in sintesi alle tue critiche dirette. Operazione questa appunto dovuta, perché mi muovi accuse piuttosto serie.
Provo a schematizzare il tuo percorso di giustificazione di una didattica per parole. Poiché la filosofia è un sapere concettuale, sostieni, è giustificato impostare una didattica per concetti. Su una tesi metafilosofica basi una conclusione didattica. Quando muovo obiezioni alla tua tesi sulla filosofia come sapere concettuale, mi rispondi che i filosofi si occupano di cose, ma lo fanno attraverso concetti. Non mi pare una risposta soddisfacente: anche la fisica, avevo già osservato, si sviluppa attraverso concetti, ma ciò non basta per definirla appropriatamente “sapere concettuale”. Oltretutto se valesse il ragionamento che fai, perché non dire: i filosofi si servono di segni, dunque la filosofia è un sapere semiotico, o magari i filosofi si servono di lettere dunque la filosofia è un sapere alfabetico? Non mi pare, insomma, che lo strumento esercitato possa essere usato per qualificare la disciplina per cui lo si usa. Continuo perciò a pensare che il percorso di giustificazione che proponi non possa essere accolto. Provo ora, in breve, a offrire un percorso alternativo che, pur non discostandosi di molto dal tuo, mi pare migliore. Ciò al fine di suggerire che percorsi diversi possono avere non solo migliore o peggiore potere esplicativo, ma anche possano guidare meglio o peggio la stessa pratica didattica.
Partiamo dal tuo testo. Discuti, a mio parere con grande efficacia, tre soluzioni al quesito: “perché si studia filosofia a scuola?”. Vediamole: essa serve per avere una cultura completa, serve ad ascoltare le ragioni degli altri, infine, serve a imparare a pensare con la propria testa (pp. 41-64). Con mia sorpresa non discuti però la risposta secondo cui essa serve, prima di tutto, per conoscere e affrontare le grandi domane (p.e. perché c’è qualcosa piuttosto che nulla? che cosa posso conoscere? che cosa devo fare? cosa mi è lecito sperare? che cosa devo fare della mia vita? Dio esiste? e il nulla, c’è? qual è il modo migliore di organizzare la società?). Vanno affrontate per insegnare i fondamentali sulle principali soluzioni offerte e per insegnare a porsi domande. Il percorso scolastico dovrebbe consentire di entrare in contatto con almeno alcuni di coloro, vorrei chiamarli “maestri”, che su quelle domande hanno dato risposte che la comunità degli esperti giudica come “da conoscere”, perché più lucide, o più discusse, o più accolte, insomma perché sono in qualche modo paradigmatiche. Ora, poiché tali risposte si sviluppano in molti casi attraverso complesse concettualizzazioni queste ultime meritano di essere affrontate esplicitamente e specificamente. Il domandare, che pure tu menzioni (p.e. pp. 87s) ma lateralmente, diventa qui il punto di origine. In tal modo, oltretutto, si riconosce il giusto peso all’attività sulle parole e anche il suo senso, evitando il rischio di fare dell’insegnante di filosofia un piccino cultore della parola. Mi pare una proposta solida e più lungimirante: non abbisogna della debole definizione di filosofia come sapere concettuale, dà conto dell’esigenza di non sganciarsi dalla storia e al contempo spiega perché non appiattirsi a essa, mostra l’importanza dei tecnicismi disciplinari e del valore delle concettualizzazioni, rialza lo sguardo dalla parola alla domanda, offrendo un orizzonte di respiro ampio, che valorizza l’umano.
Eccomi alle risposte alle tue critiche dirette:
– Hai scritto che trovo “estremamente debole e contraddittoria” la tua idea di filosofia. In realtà però non ho mai scritto che è contraddittoria.
– Si direbbe che tu, per amore di discussione, ammetta una tesi che sembri attribuirmi e cioè che “il punto saliente” del tuo libro riguardi la debolezza e la contraddittorietà dell’idea di filosofia espostavi. Non hai però bisogno di concederlo, perché io non l’ho mai scritto, né lo credo: il punto saliente, ovviamente, è la tua proposta.
– Tutta la prima parte della mia analisi (riguardo alla tesi che chiamerò A e che, semplificata, è: filosofia è ciò che non appartiene ai saperi che sono “scienze” o “discipline”), dici che “si impegna a contraddire una cosa che nel libro non c’è”. Io direi anche di più: non contraddice proprio nulla! Essa infatti vuole solo mostrare che, nonostante tu abbia preso le distanze da A, non te ne sei liberato come invece, mi sembra, avresti dovuto.
– Mi accusi di preconcetto, moralismo o impressionismo per non aver fornito le ragioni per cui ho sostenuto che “definire qualcosa attraverso ciò che non è sembra un pessimo modo di procedere”. Non l’ho fatto per due motivi: per limiti di spazio e soprattutto perché mi pareva un’ovvietà, conoscendo le regole fondamentali seguite dagli studiosi che si dedicano alle concettualizzazioni. Forse ho sbagliato a presupporlo. Anche stavolta non ho spazio per argomentare, ma per non sembrare moralista giro al lettore interessato alcuni riferimenti da cui può essere utile iniziare: B. Smith, Informatica, in M. Ferraris, Storia dell’ontologia, pp. 502-530 e Bittner T., Smith B., A Taxonomy of Granular Partitions.
– L’associazione filosofia-astrologia, diversamente da quello che dici, sarebbe una fallacia da manuale, solo se si ammettesse, come tu fai, che vi siano più di una “cosa” che esula dall’ambito non scientifico o disciplinare. Non mi pare però un’assunzione ovvia. Non ho per contro, per parte mia, bisogno né di assumerla né di non assumerla: a me basta esibire che tale semplice possibilità mostra che A è non sta in piedi.
– Da A, scrivevo, sembra seguire che la filosofia non è una disciplina. Osservavo però, cercando su Google, che l’espressione “discipline filosofiche” è molto diffusa. Ovviamente ciò non dimostra che la filosofia sia una disciplina. L’ho forse detto? Il mio costituisce però un forte argomento che, quantomeno, mette in guardia da una affrettata negazione della filosofia come disciplina. Come ho già spiegato: per mostrare che A è fragile, per sostenere con forti ragioni che A andrebbe rifiutata o, altrimenti, difesa in un modo che tu comunque non fai, a me basta mostrare che essa porta a conclusioni che non stanno in piedi. Il fatto poi che persone esperte creino addirittura una rivista con quel titolo, mi pare un forte argomento, altro che debole!, per sostenere la fragilità di A. Non c’è nessuna fallacia. Temo che, per darmi torto con troppa foga, ti sia messo nella condizione di affiancare illustri studiosi come Stefano Besoli o Giuseppe Cantillo ai redattori di una rivista di astrologia (e mi sforzo di usare l’esempio più composto).
Vorrei concludere sottolineando che il mio intento è sempre stato costruttivo. Sono convinto che la lettura del tuo libro, che consiglio, sia stimolante e che esso spinga verso una direzione di valore che, fino al punto abbastanza avanzato in cui sono disposto a spingermi, suona: nella didattica della filosofia la cura del concetto è importante e va coltivata. Per parte mia, lascio di proposito al lettore la curiosità di scoprire i dettagli della proposta didattica.