Un poema eterogeneo e controverso
Da quando nel 1417 nel Poggio Bracciolini ritrovò nel monastero di San Gallo un codice del De rerum natura di Lucrezio, opera che era rimasta per secoli inaccessibile, il poema lucreziano non ha mai smesso di far parlare di sé e di influenzare la cultura europea, attratta dalla meraviglia di quei versi ma anche – in certi frangenti – terrorizzata dal loro contenuto. E come avrebbe potuto essere altrimenti, dato che gli oltre settemila esametri lucreziani contengono di tutto? Essi accostano infatti alle “razionali” verità filosofiche mutuate da Epicuro le angosce del suo autore (e dell’uomo di ogni tempo), e parimenti alternano immagini di rara delicatezza poetica ad altre di grande potenza immaginifica, ad altre ancora che sembrano sottratte a un trattato di fisica o astronomia.
Così, debbono qualcosa a Lucrezio Botticelli e Tasso, Giordano Bruno e Bacone, Gassendi e Newton, Montaigne e gli Enciclopedisti, Foscolo e Leopardi… e qui mi fermo, per evitare l’elenco telefonico e per entrare nel vivo del tema che intendo affrontare: parlare cioè della recente (e bellissima) traduzione italiana del poema per opera di Milo De Angelis, edita nel 2022 da Mondadori nella collana “Lo specchio”.
Riflettere sul senso della traduzione
Non sarà però, questa, una semplice recensione, poiché ho avuto la fortuna di poter dialogare con il suo autore lo scorso 16 marzo presso la libreria “Il gabbiano” di Vimercate (MB). Ciò nell’ambito di una serie di incontri sulla traduzione (Lost in translation) ideata da Elena Rausa (insieme con altri colleghi dei Licei vimercatesi “Banfi” e “Vanoni”) che aveva visto nelle settimane precedenti la presenza in loco anche di Claudia Zonghetti (traduttrice dal russo) e Yasmina Mélaouah (traduttrice dal francese).
È stata una serata emozionante, lo devo ammettere, sia per l’intensità delle parole di Milo De Angelis che il pubblico – in larga parte composto da docenti e studenti – ha seguito con attenzione, sia per la splendida lettura che l’attrice Viviana Nicodemo ha fatto di alcuni brani dell’opera, tratti in particolare dal quarto libro.
Il traduttore, guardiano della soglia
Milo De Angelis non è solo un traduttore, ma anche (e soprattutto?) un poeta, insignito – tra l’altro – dei prestigiosi Premi Viareggio (2005) e Lerici (2017): in questa duplice veste ci ha reso partecipi della sua fatica lucreziana con parole che a lungo resteranno nella memoria di chi le ha ascoltate. Ha parlato anzitutto dell’attività di traduttore come quella di un «guardiano della soglia», chiamato a «entrare nella dimora» di un testo e trans-ducere, cioè «portare fuori» da quella dimora quanto possibile. Ha poi affermato che è solo traducendo integralmente un’opera che si può ottenere questo risultato: infatti, nel suo caso, aveva già prodotto delle traduzioni parziali del De rerum natura a partire dagli anni Settanta, ma è solo con la versione completa che si è perfezionato il rapporto con quell’autore che – nel corso del tempo – è divenuto per lui «fratello e maestro». L’incontro con Lucrezio del poeta-traduttore risale addirittura alla “tesina” della maturità, per poi continuare sulle colonne della rivista «Niebo» (da lui fondata) nel 1978, e materializzarsi nel “frammentistico” volume Sotto la scure silenziosa pubblicato dall’editore SE nel 2005.
Mentre lo sentivo parlare mi è venuto in mente il bellissimo titolo del libro che Gianfranco Contini ha dedicato a Eugenio Montale, cioè Una lunga fedeltà (Einaudi, Torino 1974) perché mi è parsa davvero questa – fedeltà – la parola giusta per definire la relazione tra i due; una relazione reciproca, però, poiché ho anche immaginato che Lucrezio davvero aspettasse da anni che il suo fedele «fratello» minore portasse a termine questo immane lavoro.
Tra riflessione (Milo De Angelis) e recitazione (Viviana Nicodemo)
Chi scrive aveva già avuto modo riscontrare la chiarezza e l’intensità, ma anche la precisione terminologica della versione integrale di De Angelis edita nel 2022, lontana tanto da anacronistici aulicismi quanto da inutili abbassamenti di tono: ciò perché il «guardiano della soglia» deve sapere bene dove fermarsi. Ma devo confessare che sarà difficile d’ora in poi accontentarmi della mia lettura solitaria e silenziosa, dopo avere ascoltato quella di Viviana Nicodemo, che ne ha esaltato la straordinaria potenza comunicativa.
E ciò non solo nei brani di sapore epicizzante, ma anche in quelli – i più amati dal nostro traduttore – nei quali emerge il lato angosciato e angosciante del poeta latino; tra questi c’è sicuramente il passo qui sotto riportato nel quale Lucrezio descrive il rapporto sessuale – fondamentale per la riproduzione umana – con i toni di un feroce combattimento: non c’è piacere, non c’è gioia, perché ciò che si cerca lo si cerca invano (nequiquam), avverbio frequente nel testo lucreziano; né si può trovare rimedio a quest’angoscia violenta, ma gli amanti incerti tabescunt vulnere caeco, cioè «si consumano… nella loro ferita segreta», laddove – ci ha ricordato De Angelis – tabescunt più che la consunzione evoca la marcescenza e la putrefazione, concetti difficili (forse impossibili?) da rendere in questo contesto.
Un esempio della recente traduzione
Ed ecco il testo cui ho appena accennato (De rerum natura, IV, vv. 1105-1120, trad. M. De Angelis, dalle pp. 307-309 del volume mondadoriano):
Denique cum membris collatis flore fruuntur 1105
aetatis, iam cum praesagit gaudia corpus
atque in eost Venus ut muliebra conserat arva,
adfigunt avide corpus iuguntque salivas
oris et inspirant pressantes dentibus ora;
nequiquam, quoniam nihil inde abradere possunt 1110
nec penetrare et abire in corpus corpore toto;
nam facere interdum velle et certare videntur:
usque adeo cupide in Veneris compagibus haerent,
membra voluptatis dum vi labefacta liquescunt.
Tandem ubi se erupit nervis conlecta cupido, 1115
parva fit ardoris violenti pausa parumper.
Inde redit rabies eadem et furor ille revisit,
cum sibi quid cupiant ipsi contingere quaerunt,
nec reperire malum id possunt quae machina vincat:
usque adeo incerti tabescunt vulnere caeco. 1120
Quando finalmente riescono a congiungersi e godono del fiore 1105
della loro età, quando entrambi presagiscono il piacere
e Venere è sul punto di seminare il campo della donna,
incatenano avidamente i loro corpi, mescolano le loro salive,
confondono i loro respiri, mordono a sangue le labbra. Invano.
Non possono raschiare nulla dall’essere amato, non possono 1110
penetrarlo né perdersi in quel corpo con tutto il loro corpo,
come sembra pretendere il desiderio che li spinge a combattere
avidamente avvinghiati negli stretti nodi di Venere,
finché le membra si sciolgono, fiaccate da un piacere violento.
Alla fine, quando il desiderio accumulato nei nervi si libera, 1115
la loro furia prepotente conosce una breve pausa. Ma subito
torna la stessa rabbia, la stessa frenesia. Ne sono travolti,
gli amanti: cercano di capire cosa vogliono davvero,
ma non riescono a trovare un rimedio per questo tormento.
Sono sgomenti. E si consumano così, nella loro ferita segreta. 1120
Mestiere di poeta e di traduttore
Milo De Angelis non si è poi risparmiato, rispondendo a numerose domande a lui rivolte dai presenti, per lo più giovani (ma non solo). Ci ha così illustrato il rapporto dialettico con i suoi predecessori nella traduzione lucreziana – in primis Luca Canali e Luciano Perelli –, le versioni dei quali ha letto e riletto durante la sua lunga fatica, senza alcuna paura di farsi influenzare da loro.
E non è un caso che abbia menzionato proprio questi due che – tra le pieghe delle loro parole – hanno suggerito un’interpretazione molto diversa del pensiero di Lucrezio: intellettuale più razionale, finanche politicamente democratico per il primo, vero «poeta dell’angoscia» per il secondo. Ci ha poi spiegato che non avrebbe potuto tradurre autori con i quali non sentisse una qualche affinità spirituale, e che gli inquieti Lucrezio e Baudelaire (che sta ora traducendo) hanno contribuito – da veri «fratelli e maestri» – ad arricchire anche il suo personale universo poetico: no, il più misurato Orazio lui non avrebbe davvero potuto tradurlo!
È poi entrato nel merito di alcune considerazioni tecniche, perfino metriche, non ravvisando troppe differenze tra la prassi di traduzione dal latino e dal greco e quella – ad esempio – dal francese: si tratta sempre di trans-ducere, con il dovuto rispetto, qualcosa che è in origine altro da noi, e a noi si deve avvicinare, anzitutto con un’accurata scelta lessicale, scevra da eccessive rigidità. Particolare emozione si è avvertita nella sua voce quando ha poi ricordato gli anni di insegnamento nel carcere di massima sicurezza di Opera (MI), ambiente nel quale leggere, studiare, la poesia – e anche a quella classica – può rappresentare per chi vi è recluso un temporaneo allontanamento da una realtà sempre troppo uguale a sé stessa.
Ancora sull’edizione mondadoriana
Concludendo. Consiglio davvero a tutti di leggere questa traduzione, che mi è parsa – scusate l’espressione poco professorale – davvero “una spanna” al di sopra delle altre in circolazione, adattissima sia agli addetti ai lavori che vogliono riscoprire il lato genuinamente poetico di Lucrezio sia ai curiosi che vi si vogliono avvicinare per la prima volta. Non c’è traccia, insomma, di quel fastidioso «traduttese» spesso denunciato da Federico Condello; vi ho invece visto la piena realizzazione di quei processi «metamorfici» dei quali parla nei sui studi Maurizio Bettini in relazione al vertere di ieri e di oggi.
Termino segnalando ai miei lettori che l’apparato di annotazioni è volutamente “leggero”, in qualche frangente quasi discorsivo, proprio per farci capire che la migliore delle spiegazioni sta nella chiarezza testuale; e per avvertirci che siamo davanti a un’operazione che, pur essendo sintesi – come già si è detto – di filologia e poesia, in fondo si identifica più nella seconda di queste due “arti”. D’altronde “Lo specchio” è una delle più illustri collane di poesia offerte dall’editoria italiana.