Popolo piccolo e combatte senza spade e proiettili,
per il pane, la luce e il canto di tutto il mondo.
Sotto la lingua tiene i gemiti e gli evviva,
e se fa per cantare si spezzano le pietre.
Sono i versi della poesia Popolo di Yannis Ritsos, quarto componimento di una piccola ma intensa silloge di testi dal titolo Diciotto canti della patria amara (qui nella traduzione di Maria Caracausi, in Ritsos dopo Ritsos. Giornate di studi 23-25 ottobre 2018, Palermo, 2019, p. 93). Il compositore Mikis Theodorakis li chiese a Jannis Ritsos, all’epoca prigioniero sull’isola di Leros, per la sua resistenza politica alla dittatura dei Colonnelli (1967-74), riuscì ad ottenerli solo nel 1970, a Parigi, e li mise in musica nel 1973, l’anno in cui la Giunta sgomberò con la forza dei carri armati il Politecnico di Atene occupato dagli studenti.
La Grecia di Theodorakis è, come quella di Ritsos, una patria amara e senza tempo, nella quale i valori di democrazia e libertà sono quasi sinonimi, gli eroi muoiono giovani, tra le braccia di madri dolenti (come nell’Epitaffio di Ritsos messo in musica nel 1958), o non muoiono affatto, come lo Zorba di Kazantzakis e Cacoyannis, novello Dioniso di una spiaggia cretese. Per questo i versi di Ritsos oggi sembrano perfetti per ricordare un compositore che ha occupato il cuore del suo popolo, cancellando i confini tra la nobiltà dell’arte e l’espressione spontanea dei canti e delle danze tradizionali greche.
Ero a Chania, sull’isola di Creta, mentre seppellivano Mikis Theodorakis, gigante della cultura neogreca e uomo simbolo della resistenza contro le dittature; ma anche comunista dalle virate inaspettate che nel 1974, dopo il crollo della Giunta – come Menenio Agrippa – provò a mediare tra due estremi politici inconciliabili e poi a più riprese si trovò in compagnia di politici conservatori e, da ultimo, ultranazionalisti. A voler parlare dell’artista non si può tacere una vita condotta su due binari: quello della politica, dalle scelte appassionate e contraddittorie (non di rado poco comprensibili), e quello della musica, che lo pone a pieno titolo nell’Olimpo dei grandi.
Ho passeggiato lungo la spiaggia di Zorba, Stavros, in un mezzogiorno di nuvole e vento, mentre ad Atene un giudice dirimeva la lite familiare circa la sepoltura del compositore. Theodorakis voleva essere sepolto a Creta, nel paese del padre: vi sarebbe arrivato in nave – lasciava scritto – ed era questo il nostos che aveva immaginato per sé.
Due giorni più tardi la sua bara sfilava nella cittadina di Galatas, a pochi chilometri da Chania, in una piazza affollata e composta, tra canti di uomini che indossavano il sariki, una sorta di bandana a frange che i cretesi portano in segno di lutto. Amicizia maschile e musica: non è stato difficile, ascoltando quelle voci, pensare che Dioniso vive ancora nel canto di gratitudine e tenerezza per un uomo che molto ha vissuto e molto sofferto e perso tanti amici. Offro un filmato rubato al momento, anche se so che non basterà a rendere la sorpresa e l’emozione di chi c’era, anche come semplice testimone.
Membro del Fronte di liberazione nazionale (Eam) contro l’occupazione nazista della Grecia, Theodorakis, semplicemente Mikis per i Greci, fu esiliato nell’isola di Ikaria, quindi deportato nell’isola di Makronisos, dove subì tortura. Sposò la causa comunista e negli anni della resistenza al regime dei colonnelli la sua figura divenne un’icona della lotta per una Grecia libera dalla dittatura. Aveva una straordinaria capacità di raccogliere adesioni al movimento di dissenso contro il golpe militare del 21 aprile del 1967, perciò fu arrestato, deportato e torturato nel carcere di Oropos: un’esperienza che, come titola un suo celebre pezzo, non poteva essere dimenticata.
A cinquant’anni di distanza, in occasione del commiato, la municipalità di Oropos, nell’Attica orientale, ha aperto al pubblico la sua cella di detenzione, così che i cittadini potessero rendere omaggio al luogo che lo vide segregato insieme a Manolis Glezos, Andreas Lentakis e altri combattenti per la democrazia.
Dalla sua cella di Oropos non smise di scrivere musica, incarnando egli stesso la strenua resistenza del protagonista di To gelasto paidi, “Il ragazzo che sorride”, canzone che aveva messo in musica i versi di Brendan Behan, poeta e combattente irlandese. Qualcuno forse ricorderà che fu portata al successo da Iva Zanicchi e di Albano (1970), ma che qualche anno dopo divenne la canzone manifesto per ricordare gli studenti del Politecnico di Atene, sorpresi dai carri armati il 17 di novembre del 1973. La propongo qui nella versione greca, cantata dallo stesso Theodorakis a Berlino Est nel 1987: mi pare che rappresenti bene il carattere universale della poesia e della musica di opposizione ai regimi anti-libertari, e chi la ascoltava nella Berlino non ancora libera doveva sentirla molto vicina.
Dalla prigione di Oropos, nonostante la sorveglianza, le note uscivano, si univano ai versi clandestini di Alekos Panagulis, il folle e sfortunato eroe raccontato da Oriana Fallaci nel romanzo Un uomo.
Theodorakis divenne un esempio di antifascismo in anni in cui l’antifascismo era tema caldo non soltanto in Grecia: al carcere e alla tortura seguì l’esilio, favorito proprio dalla stima e dall’affetto internazionali. Aveva già composto le colonne sonore di film memorabili come appunto Zorba il greco e Z, l’orgia del potere, la pellicola di Costa-Gavras, che raccontava appunto i prodromi del colpo di stato militare (1969, Oscar per il miglior film straniero e premio della giuria al XXII festival di Cannes).
Due binari, dunque: politica e musica, ma forse un’unica strada fondata sull’impegno. A partire dagli anni Cinquanta, le composizioni di Theodorakis seguono, a ben vedere, un progetto preciso: conferire dignità artistica alla musica popolare e avvicinare l’arte al popolo meno colto.
Nel film Zorba, trasposizione cinematografica del romanzo di Kazantzakis, si assiste alla nascita del sirtaki, oggi simbolo principe del folklore greco, ma in realtà invenzione d’autore: Theodorakis lo compose, accelerando progressivamente il ritmo di una danza tradizionale, hasapiko, e la versione del film ha soppiantato il modello popolare da cui la nasceva. Lo propongo nello spettacolo messo in scena per l’Arena di Verona nell’estate del 1988.
“Ho dato la poesia agli uomini” scriveva, in una sorta di testamento, il nostro Pavese. Diremmo che Theodorakis agli uomini ha regalato la musica che ha veicolato e reso celebri, letteralmente popolari, i grandi poeti neogreci: Yannis Ritsos, come si è detto, ma anche Giorgos Seferis, Odysseas Elyatis, l’autore dell’Axion esti (quasi un inno nazionale, non solo spirituale per il popolo greco), e Iakovos Kambanellis, che scrisse la struggente Trilogia di Mauthausen.
Ho visto di persona l’affetto che ha accompagnato l’ultimo viaggio di Mikis a Galatas, Chania. Mi piace ricordarlo, in conclusione, con la voce di Aliki Kagialoglou che, dall’Odeo di Erode Attico, canta i versi di Epitaffio, composti da Joannis Ritsos nel 1936 e messi in musica dal nostro ventidue anni più tardi.
Nel lamento della madre di un giovane operaio ucciso dalle guardie durante uno sciopero a Salonicco, nel 1936, riecheggia un topos antico e mediterraneo che chi ha fatto studi classici conosce bene: il dolore delle madri orfane di un figlio è lo stesso in ogni luogo e in ogni tempo, così la pietà per ogni vita ingiustamente interrotta. Grazie alla musica questi versi continuano a commuovere chiunque li ascolta.
Scrive Jannis Ritsos in Requiem, quinto dei diciotto componimenti con cui ho aperto questo ricordo (op.cit., p. 93):
In un angolo sta il nonno, nell’altro dieci nipoti,
e sulla tavola nove candele piantate nella forma di pane.
Le madri si strappano i capelli e i figli tacciono,
e dal lucernario la Libertà guarda e sospira.
Eleftheria i thanatos, le parole proverbiali dell’indipendenza greca, due secoli dopo non suonano come un’antitesi, la patria amara piange ancora uno dei suoi figli più cari.