Merleau-Ponty e la carne come perno del mondo

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Toccare è toccarsi. La carne, il mio corpo è il perno del mondo che vi si prolunga. Su queste intuizioni, facendo tesoro della lezione fenomenologica, Merleau-Ponty ha tentato di superare il dualismo coscienza-oggetto, riforgiando una nuova categoria, quella di carne.
Ernst Mach, prospettiva soggettiva, disegno dello stesso Mach tra le illustrazioni del suo libro “L’analisi delle sensazioni” (1886)

Quando si pensa alla carne, intesa come corporeità, il paradigma cartesiano che la qualifica come res extensa e la differenzia dalla res cogitans è forse quanto si avvicina di più al senso comune. In questa prospettiva, pensiamo alla carne come a qualcosa che è “là fuori” e che si può misurare e collocare nello spazio, riportandone le coordinate cartesiane. Si tratta di una distinzione che ha portato a infiniti problemi per la difficoltà di spiegare, sulla sua base, l’interazione tra due ambiti, il corporeo e lo spirituale, del tutto eterogenei.
Un interessante tentativo di uscita da tale dicotomia è stato compiuto nel Novecento da Maurice Merleau-Ponty che, sulla scorta delle ricerche di Sartre, ma ancor di più attingendo alla fenomenologia di Husserl, ha sviluppato una percettologia originale. Essa cerca di andare al di là della distinzione tra coscienza e oggetto. Merleau-Ponty ha infatti messo in crisi la lettura della realtà fisica come una materialità oggettiva, misurabile e fissa, mostrando che essa è l’esito di una costruzione concettuale. L’esperienza originaria, la percezione del mondo che viviamo istante per istante, ci dice altro rispetto all’oggettivismo cartesiano.
Andiamo alle parole del filosofo francese:

A ogni battito delle ciglia una tenda si abbassa e si rialza, senza che al momento io pensi di imputare questa eclisse alle cose stesse; a ogni movimento degli occhi che frugano lo spazio di fronte a me, le cose subiscono una breve torsione che io imputo a me stesso; e quando cammino per la strada, con gli occhi fissi sull’orizzonte delle case, tutto ciò che nelle vicinanze mi circonda sussulta a ogni rumore del tacco sull’asfalto, poi si assesta nel suo luogo. Esprimerei molto male ciò che avviene dicendo che una “componente soggettiva” o un “apporto corporeo” viene qui a ricoprire le cose stesse: non si tratta di un altro strato o di un velo che verrebbe a collocarsi tra quelle cose e me» (M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, trad. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, pp. 34-35).

Merleau-Ponty

Colpisce quanto siano lontane queste righe dalla comprensione positivista dell’esperienza. È vero che anche i positivisti e, più tardi, i neopositivisti hanno centrato il loro pensiero sulla fisicità. Essi però lo hanno fatto in polemica con la metafisica, con un intendo riduzionista e, anzi, eliminativista. Merleau-Ponty evita invece il riduzionismo e le sterili polemiche antimetafisiche e lo fa proprio perché resta fedele al dato percettivo originario, a un dato non riletto da quel cartesianismo che i positivisti hanno fatto acriticamente proprio. La specificazione delle ultime righe citate sopra chiarisce poi che l’utilizzo delle classiche categorie di soggettivo vs. oggettivo, di corporeo, inteso come elemento del percipiente, vs. reale, va rigettato.

Escher, mano con sfera riflettente, 1935

L’uscita dal dualismo, in Merleau-Ponty, si fonda sul fatto che il nesso corpo-mondo non è contrappositivo, ma di mutua inclusione. Egli infatti scrive:

se è vero che io ho coscienza del mio corpo attraverso il mondo, che esso è, al centro del mondo, il termine inosservato verso il quale tutti gli oggetti volgono la loro faccia, è anche vero, per la stessa ragione, che il mio corpo è il perno del mondo: io so che gli oggetti hanno svariate facce perché potrei farne il giro, e in questo senso ho coscienza del mondo per mezzo del mio corpo» (M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, trad. it. di A. Bonomi, il Saggiatore, Milano 1965, p. 130).

Egli forgia, insomma, una nuova categoria, per esprimere la sua prospettiva, quella di carne. Nelle Note di lavoro che raccolgono i materiali elaborati per Il visibile e l’invisibile, così scrive: «La carne = il fatto che il visibile che io sono è vedente (sguardo) o, ciò che è lo stesso, ha un interno + il fatto che anche il visibile esteriore è visto, i.e. ha un prolungamento, nel recinto del mio corpo, che fa parte del suo essere» (Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile cit., p. 282).
Sulla base della nozione di carne, il problema della relazione tra corpo e mondo si dissolv,e perché i due elementi sono in continuità e il paradigma adottato spinge a continuare lo studio della percezione per coglierla. Scrive ancora il filosofo: «Toccare è toccarsi. Da intendere come: le cose sono il prolungamento del mio corpo e il mio corpo è il prolungamento del mondo, grazie a esso il mondo mi circonda» (Ivi, p. 266).
Nell’esperienza percettiva colgo l’altro da me, ma anche me stesso, i miei limiti e le mie capacità; non c’è un fuori e un dentro, non c’è un io e un altro: si tratta di una filosofia dell’identità che salva le distanze, le prossimità e le differenze.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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