Non sarà difficile, infatti, per colleghi e studenti reperire una buona resa italiana de Gli ultimi giorni di Tiberio, passo del grande Tacito tratto da Annales, 6, 50. E poi, ormai la frittata è fatta… e forse – più che la traduzione – può servire una riflessione su questo magnifico testo latino. Ciò nell’auspicio – e qui parlo ai colleghi – che al Colloquio (nella fantomatica fase di autocorrezione delle Prove Scritte) non si torni più e più volte sulla resa di quel termine o di quel costrutto, ma si provi a ragionare con lui del contenuto (del messaggio, oserei dire) di quelle parole che provengono dal passato: per molti giovani – infatti – queste saranno gli ultimi momenti d’incontro (e perché no, scontro…) col mondo classico.
Ma andiamo con ordine, ricordando anzitutto che Tacito era autore ventilato (e temuto) da tempo, anche perché mancava all’appello dal 2005: dieci anni tondi tondi.
Chi scrive plaude a questa scelta. Meglio, infatti, un passo impegnativo (e questo lo è abbastanza, anche se Tacito può esserlo assai di più) di uno storico, rispetto a porzioni oscure e tagliate male (come sovente è accaduto) di opere filosofiche di Cicerone o Seneca, tutte incentrate su virtù civiche o etiche che sembrano sfuggire a una reale possibilità di traduzione. E poi Tacito è Tacito, perbacco. Finire la Maturità Classica con un suo brano è come prendere la patente guidando una Ferrari all’autodromo di Monza, o fare l’esame di fine corso di sci sulla micidiale discesa libera di Kitzbühel… Colleghi che correggete, usate la mano leggera, per favore!
Approvo inoltre la pur breve contestualizzazione ministeriale del testo, a cui è stata premessa una sintesi del contenuto, alla luce di quello che ormai avviene in tutti i libri di versioni latine e greche: che sia questo il primo passo verso quel cambiamento della Prova, nella direzione di quanto io stesso già auspicavo su queste colonne? Speriamo davvero.
Ma veniamo alla “polpa”, e cioè al testo e al suo messaggio. Tiberio – secondo imperatore romano – successe al patrigno Augusto in forma quasi rocambolesca (tutti gli altri successori designati erano infatti morti) e governò dal 14 al 37 d.C. Tacito gli dedicò la prima sezione degli Annales ab excessu Divi Augusti, non nascondendo la sua antipatia per il principe e facendone una specie di “tiranno controvoglia”. Infatti Tiberio da un lato sembrò distante dal potere e quasi disinteressato ad esso, lasciando spesso Roma (colpa gravissima per quel Cornelio Tacito che apparteneva all’ordine senatorio ancora ligio al mos maiorum) e rifugiandosi a lungo nell’amata Capri; dall’altro delegò le funzioni di governo al feroce prefetto del pretorio Seiano, attraverso il quale fece piazza pulita della residua opposizione senatoria.
Il tutto in una progressiva involuzione caratteriale, poiché il principe – in balìa di falsi oroscopi, timori di avvelenamento, ansie di ogni genere – si trasformava, per mezzo dell’arte di Tacito, in un personaggio letterario quasi shakespeariano, al pari di quel Nerone che degli Annales occuperà la parte finale.
Va detto che gli storici moderni ci hanno spiegato che Tiberio è stato probabilmente un governante migliore di quanto lo storico ci ha raccontato, e hanno altresì rivalutato il suo ruolo di generale ai tempi dell’impero di Augusto. Ma Tacito, sulla scia dei suoi predecessori, intendeva la storia come opus oratorium maxime, cioè “un’opera fondamentalmente di eloquenza”, con i suoi cliché letterari e con la predilezione della sfera etica su quella politica e fattuale; noi, davanti a tanta arte, perdoniamo volentieri allo storico questa lettura invero parziale della realtà.
Veniamo ora al passo d’esame, che vede l’anziano Tiberio – diretto a Roma da Capri – ricoverato a Miseno nella villa già appartenuta al nobile Lucio Lucullo: le vires, cioè le forze, lo stanno abbandonando, ma non la dissimulatio, con la quale, pur rendendosi conto di essere in fin di vita, non vuole darlo a vedere. E se Tiberio simula, altrettanto prova a fare il celebre medico Caricle, che gli tasta il polso di nascosto, constatando la debolezza di un imperatore che si sarebbe spento in un paio di giorni (Charicles tamen labi spiritum nec ultra biduum duraturum Macroni firmavit). Ma la doppiezza di Tiberio sembra non finire mai, e quando versa in uno stato di morte apparente e già la folla sta acclamando il successore Gaio Caligola (figlio di suo fratello Druso), ecco che ricomincia a respirare (…cum repente adfertur redire Tiberio vocem ac visus vocarique qui recreandae defectioni cibum adferrent).
Il potere ha però le sue regole immorali e la sua spietata crudeltà… Roma non può attendere l’agonia del princeps, e soprattutto non può attendere oltre il giovane aspirante imperatore: con un gesto degno di un malavitoso, il prefetto Macrone fa soffocare Tiberio con le coperte. Sullo sfondo di questi eventi una folla di figure senza nome che adulano, plaudono, si spaventano e soprattutto sanno fingere alla grande (Pavor hinc in omnis, et ceteri passim dispergi, se quisque maestum aut nescium fingere); e di ciò il moralista Tacito non può che dare la responsabilità proprio al clima di finzione e doppiezza che lo stesso Tiberio aveva instaurato, perché sono davvero pochi quelli che sanno “essere uomini perbene sotto cattivi principi”, come egli stesso scrive nel capitolo 42 dell’Agricola.
Crudeltà e simulazione: ecco cos’è allora il potere – per Tacito – quando è esercitato senza onore e con scarso interesse per il bene comune. D’altronde i tempi di cui parla, per sua stessa ammissione, sono poveri di exempla positivi, incarnati perlopiù da vittime di quella repressione imperiale che si accaniva spesso contro gli uomini migliori: è il caso, tra gli altri, di Seneca e Trasea Peto, costretti al suicidio da Nerone, dei quali Tacito stesso parla nei libri XV e XVI degli Annales. Che differenza tra le loro morti tanto ingiuste quanto eroiche – modellate su quella di Socrate – e quella di un vecchio soffocato da un killer nel suo letto! Sembra che in ciò Tacito anticipi il verso alfieriano uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai, opponendo gli exitus virorum inlustrium – quasi tutti di estrazione senatoria – alla fine assai poco eroica di molti imperatori, Tiberio in primis.
Spero di avere dato, con queste mie considerazioni, un contributo fattivo alla comprensione del testo. Il brano può infatti portarci a riflettere sul potere, sulla morte, sulla doppiezza umana, sul ruolo della storiografia di ieri e di oggi; o, più semplicemente, a parlare di Tacito o di Tiberio. Certo che si può pure, muovendo da questo, discutere al Colloquio anche di grammatica, lessico o sintassi; anche, cari colleghi, non solo…
Ora la faccio finita, non senza però suggerire ai lettori la consultazione di una traduzione di Tacito assai particolare, forse la migliore che la lingua italiana abbia mai visto: è quella dell’erudito fiorentino Bernardo Davanzati, il quale tradusse l’opera omnia di Tacito tra il 1580 e il 1596. Basta una rapida ricerca sul web per arrivare alla scansione delle pagine di qualcuna delle sue numerose edizioni; e basta solo questo breve passo (che è poi l’inizio della nostra versione) per cogliere la capacità del nostro di rendere la brevitas dell’originale:
Già il corpo, già le forze abbandonavano Tiberio, ma non l’infingere. Col medesimo fiero animo, volto, e parlare, e talvolta con piacevolezze forzate, copriva ogni sua manifesta mancanza. A ogni poco mutava luogo: e finalmente al capo di Miseno, nella villa già di Lucullo, si giudicò. Quivi la sua fine venuta si conobbe così: Soleva Caricle, gran medico, ne’ mali del principe, se non medicarlo, dargli consigli…
Spero che la curiositas dei lettori li spinga a leggere anche il resto.