Più di una volta mi è stata posta la domanda: «Ma (anche) i Greci e i Romani erano razzisti?». Si tratta di un quesito al quale è impossibile rispondere in modo netto, sia perché le generalizzazioni sono sempre sbagliate, sia perché l’epoca greco-romana occupa oltre un millennio di storia.
Me la sono, però, sempre cavata con un po’ di mestiere, dicendo che è pur vero che, tra i Greci, gli Ateniesi hanno sempre vantato la loro autoctonia, e che i Romani signori del “villaggio globale” hanno esaltato nei secoli il loro ceppo originario latino-sabino, ma che difficilmente si tratta di atteggiamenti che potremmo definire “razzisti”.
Le discriminazioni dei Romani, ad esempio, non riguardavano mai tratti somatici o colore della pelle di altre genti, ma usi, costumi, valori diversi da quelli da loro incarnati; discriminazioni destinate poi a cadere con l’avvenuta “romanizzazione” dei popoli vinti, e completamente azzerate dalla Constitutio Antoniniana del 212 d.C. con la quale l’imperatore Caracalla concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero.
Le nostre «comunità immaginate»
Siamo però stati noi posteri a leggere alcuni comportamenti antichi in un’ottica sbagliata, per giustificare la creazione posticcia di quelle che lo studioso americano Benedict Anderson1 ha chiamato imagined communities, dando vita a un processo nel quale «le comunità sacre integrate da vecchi linguaggi sacri furono gradualmente frammentate, pluralizzate, territorializzate».
In poche parole: invece di desumere elementi di coesione spirituale dai grandi valori che il mondo classico ci ha trasmesso (la philanthropía greca o l’humanitas latina in primis…), abbiamo preferito cercare nell’antichità le pezze d’appoggio per costruire quelle – piccole o grandi – identità politiche, nazionali (e, ahimè, perfino razziali…) che hanno caratterizzato il mondo contemporaneo.
Voglio ora proporre un paio di esempi relativi all’inizio del secolo scorso, ricordando però, come hanno sottolineato l’antropologo Francesco Remotti e l’antichista Maurizio Bettini2, che pure i nostri tempi – si parva licet… – stanno abusando un po’ troppo di termini quali “identità” e “radici”, scomodando talora (spesso a sproposito) anche i nostri beneamati classici.
Il travisamento razzista della Germania di Tacito
Un caso paradossale di forzato travisamento moderno di un testo latino è quello – tanto noto quanto tristemente evocativo – relativo alla Germania di Tacito (opera scritta intorno al 98 d.C.). Tale mistificazione ha riguardato soprattutto il suo quarto capitolo, che così inizia:
Dal canto mio, condivido il parere di coloro che reputano le genti della Germania non contaminate da nozze con altri popoli. Si tratta dunque di un popolo a parte, di sangue puro, con caratteristiche fisiche peculiari. Infatti, per quanto è possibile all’interno di un così vasto gruppo di persone, l’aspetto fisico è lo stesso in tutti: occhi truci e cerulei, capelli rosso-oro, corporature imponenti e valide soltanto al primo assalto. Non proporzionata appare però la loro resistenza al lavoro e alla fatica: non sono abituati a sopportare sete e caldo, mentre tollerano freddo e fame, date la rigidità del loro clima e la povertà del loro suolo.
(trad. G. D. Mazzoccato)
Lo scrittore e filosofo inglese (che scriveva anche in tedesco) Houston Stewart Chamberlain, nel suo Le Basi del diciannovesimo secolo (edito la prima volta nel 1899 e poi ripubblicato in varie lingue)3, aveva infatti voluto dare una lettura assai faziosa di questo passo, contribuendo ad alimentare negli anni a venire il mito della purezza della “razza ariana”, «un mito-chiave nel bagaglio ideale del Nazismo», come ha bene scritto lo studioso Luciano Canfora, che a tale argomento ha dedicato un’importante monografia4.
Chamberlain aveva addirittura emendato il testo tacitiano pur di rafforzare la curvatura razziale (e “razzista”) della sua lettura; se infatti in Germania 4, 2, invece che Unde habitus quoque corporum, tamquam in tanto hominum numero, idem omnibus, si leggesse… quamquam in tanto hominum numero, il senso muterebbe sensibilmente.
Passare da «per quanto è possibile all’interno di un così vasto gruppo di persone, l’aspetto fisico è lo stesso in tutti» (col significato limitativo di tamquam) a «benché in un così vasto gruppo di persone, l’aspetto fisico è lo stesso in tutti» contribuirebbe infatti a togliere qualunque attenuazione all’espressione: i Germani – tanti, tutti… – sarebbero pertanto connotati dai medesimi tratti somatici, in virtù dell’autoctonia e della purezza che li caratterizza.
Difficile accogliere la variante filologica di Chamberlain, anche se attestata da un codice già a Jesi (il celebre codex Aesinas) e ora alla Biblioteca Nazionale di Roma (codice 1631): non a caso le SS di Heinrich Himmler (non certo un bibliofilo…) cercarono vanamente di strapparlo nel 1943 al conte jesino Baldeschi Balleani, suo proprietario, per portarlo in Germania5.
Allo stesso modo, è impossibile pensare che il senatore romano Publio Cornelio Tacito, che pure spesso contrappone il vigore fisico e morale dei Germani al decadimento etico e politico dei suoi concittadini, possa fare dell’autoctonia e della purezza germanica un elemento di esaltazione assoluta.
Molto più semplicemente, lo storico latino accoglie un tópos della cultura antica – quello dell’identità tra il carattere di un popolo e la natura delle propria terra – e lo sviluppa in relazione ai Germani; e lo fa – come già aveva rilevato il grande filologo Eduard Norden6 – con parole simili a quelle con le quali un testo greco falsamente attribuito al medico greco Ippocrate (V sec. a.C.), intitolato Sulle acque, le arie, i luoghi, affrontava il tema dell’autoctonia di Egiziani e Sciti, che “ariani” non erano proprio!
Quello che Chamberlain pensava essere scritto per i Germani era dunque un “motivo itinerante”, che vari autori classici usarono in epoche diverse con una sorta (mi si perdoni l’espressione…) di “copia e incolla”. Conformismo? Forse sì, ma non certo “razzismo”…
Il fascismo e la “razza romana”
Non poteva mancare, in questa nostra riflessione, un accenno al recupero del mondo romano in chiave “razzista” fatto da Benito Mussolini: tale mistificazione – come ricorda la storica Paola S. Salvatori7 – ebbe il suo culmine nel 1938, non a caso l’anno della promulgazione delle leggi razziali in Italia. Infatti, in un discorso coevo, il Duce affermava:
Il problema razziale è per me una conquista importantissima, ed è importantissimo averlo introdotto in Italia. I romani antichi erano razzisti fino all’inverosimile. La grande lotta della Repubblica Romana fu appunto questa: sapere se la razza romana poteva aggregarsi ad altre razze […] Bisogna mettersi in mente che non siamo camiti, che non siamo semiti, che non siamo mongoli. E allora, se non siamo nessuna di queste razze, siamo evidentemente ariani e siamo venuti dalle Alpi, dal nord. Quindi siamo ariani di tipo mediterraneo, puri.
Si può ben capire come sia inutile la confutazione di tesi tanto assurde e indimostrabili, per di più corroborate da esempi storici a dir poco traballanti. Più produttivo, invece, è ricordare la vasta eco manipolatoria di tali idee, poiché il giovanissimo Giorgio Almirante – poi figura di spicco della destra politica italiana – scrisse sul primo numero della rivista «La difesa della razza» (sempre nel famigerato 1938) un articolo teso a dimostrare come la decadenza dell’impero romano sia iniziata con l’ascesa al trono di imperatori non italici, e abbia avuto il suo culmine proprio con quel Caracalla – di origine africana, una faccetta nera, dunque… – che nel 212 d.C. estese ai provinciali la civitas.
D’altronde, per un razzista non poteva che essere lui «africano di nascita, celtico di costumi […] per nessun vero verso un imperatore romano» a rovinare Roma, poiché
agisce come oggi agiscono, nei cosiddetti paesi democratici, i negatori del razzismo; fa di Roma il crogiuolo in cui tutte le genti possono impunemente mescolarsi; e in tal modo affretta il crollo della civiltà antica, che è civiltà della razza italica.
Roma, una civiltà multietnica
Già si è detto come Tacito non potesse essere un campione dell’autoctonia, tanto più di quella dei “nemici” Germani, che da ufficiale dell’esercito aveva probabilmente combattuto in quanto sudditi ribelli. Egli infatti sapeva bene, perché gli bastava guardarsi intorno, che Roma aveva costruito la sua forza proprio dalla fusione di etnie, lingue e religioni diverse, che si erano riconosciute sotto un’unica autorità politica8.
E se ai suoi tempi la grande e “civile” Roma vacillava e i barbarici Germani erano invece nel pieno del loro vigore, ciò non dipendeva dalla “purezza” di questi ultimi contrapposta al melting-pot romano; ciò dipendeva invece dal logoramento morale, ma anche economico, politico e soprattutto militare che era stato procurato ai Romani dalla plurisecolare gestione di un immenso, sconfinato, potere (che logora anche chi ce l’ha, contrariamente a quanto affermava Giulio Andreotti).
Quel potere che certo l’imperatore Caracalla esercitò un secolo dopo con poca saggezza e tanta ferocia; ma non perché – con buona pace di Almirante – «africano di nascita, celtico di costumi» (era infatti figlio dell’africano Settimio Severo ed era nato a Lione) o perché afflitto da anacronistiche simpatie «democratiche», ma perché principe inetto e inesperto, logorato dalle faide familiari e dalle pressioni dei pretoriani, i quali alla fine lo assassinarono.
La concessione della civitas ai provinciali, tra l’altro, fu forse una delle sue poche scelte azzeccate, anche perché non era stato lui a fare «di Roma il crogiuolo in cui tutte le genti possono impunemente mescolarsi». Era stata la Storia con la S maiuscola, seguendo l’impulso dato dal divino Romolo, fondatore dell’Urbe, il quale, secondo il racconto di Tito Livio (Ab Urbe condita 1,8, 5-6), aprì a “migranti” di ogni tipo le porte della neonata città. Infatti:
In seguito, perché non fosse inutile tale ampiezza dell’Urbe, allo scopo di accrescere la popolazione secondo l’antico accorgimento dei fondatori di città, i quali attiravano a sé gente oscura e umile facendola passare per autoctona, [Romolo] offrì come asilo il luogo che ora, a chi vi sale, appare circondato da una siepe tra due boschi. Ivi si rifugiò dai popoli vicini, avida di novità, una folla di gente d’ogni sorta, senza distinzione alcuna tra liberi e servi, e quello fu il primo nerbo dell’incipiente grandezza.
(trad. M. Scandola)
Certo, qualcuno potrebbe obiettare che allora i numeri di “richiedenti asilo” erano pochissimi, che questi venivano tutti dal Lazio (e dunque – per parlar chiaro – erano della stessa “razza” dei Latini), e per di più che Romolo non è mai esistito, nonostante le suggestioni dell’archeologo Andrea Carandini9… Osservazioni legittime, queste, nella loro disarmante semplicità. Così come è, però, di disarmante semplicità la ben più documentata verità scientifica definitivamente acclarata in questi anni, e cioè il fatto che le razze non esistono! Chissà se tale scoperta, oltre alle odiose discriminazioni razziali, spazzerà via anche queste manipolazioni della storia antica? Manipolazioni insensate, folli, che parrebbero addirittura ridicole, se non avessero contribuito ai tragici genocidi del Novecento.
NOTE
1. B. Anderson, Comunità immaginate. Origine e forme dei nazionalismi, Laterza, Roma-Bari 2018 (ultima di numerose edizioni); il titolo originale inglese è Imagined Communities, London-New York 1991.
2. Il riferimento è a F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 2007 e M. Bettini, Radici. Tradizione, identità memoria, Il Mulino, Bologna 2016.
3. H. S. Chamberlain, Die Grundlagen des XIX Jahrhunderts, Munchen 1899.
4. L. Canfora, La Germania di Tacito da Engels al Nazismo, Liguori editore, Napoli 1979.
5. Sulle vicende del codice (gravemente danneggiato dall’alluvione del 1966 a Firenze, dove allora si trovava), e non solo, si veda: C. B. Krebs, Un libro molto pericoloso. La Germania di Tacito dall’Impero romano al Terzo Reich, Il Lavoro editoriale, Ancona 2012 (prima edizione: New York 2011). L’edizione italiana ha un’appendice filologica di Paolo Fedeli, che al codex Aesinas ha pure dedicato un’importante lectio all’Accademia dei Lincei: www.lincei.it/files/documenti/Lectio%20Brevis_Fedeli_20151113.pdf.
6. E. Norden, Die germanische Urgeschichte in Tacitus Germania, Berlin-Leipzig 1920.
7. P.S. Salvatori, Razza romana, in A. Giardina, F. Pesando (edd.) Roma caput mundi, Electa, Milano 2012, pp.277-286; le citazioni del discorso di Mussolini e dell’articolo di Almirante sono tratte da questo lavoro, cui rimando anche per la mirata bibliografia. Importanti pure le osservazioni contenute passim in Andrea Giardina, André Vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2000.
8. Mi limito a ricordare il volume A. Giardina, F. Pesando (edd.) Roma caput mundi, Electa, Milano 2012, già citato alla nota precedente, ma anche a P. Veyne, L’impero greco-romano. Le radici del mondo globale, Rizzoli, Milano 2007.
9. La disputa sulla possibile storicità della figura di Romolo ha spesso assunto toni accesi. Notevole la polemica tra il “possibilista” A. Carandini (Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città, Catalogo della mostra, Electa, Milano 2000) e il “negazionista” A. Fraschetti (Romolo il fondatore, Laterza, Roma-Bari 2002).