Per ottenere grandi risultati, si pensa, servono eventi eccezionali come l’utilizzo di risorse notevoli, il darsi di interventi particolarmente qualificati, il verificarsi di situazioni straordinarie.
Per ottenere grandi risultati, si pensa, servono eventi eccezionali come l’utilizzo di risorse notevoli, il darsi di interventi particolarmente qualificati, il verificarsi di situazioni straordinarie. Capita, in effetti, che sia così. Il punto è che non solo ciò non è necessario, ma che a volte non è questa l’unica via, né forse la migliore. Capirlo, mette in grado di cercare strategie vincenti che passino attraverso microcambiamenti, solitamente più a portata di mano.
Chi non ricorda il famoso discorso di Tony D’Amato (Al Pacino) allo spogliatoio, nel film di Oliver Stone Ogni maledetta domenica? Con crescente intensità drammatica l’allenatore spiega ai suoi ragazzi che la vita è fatta di piccole conquiste che assommate e ottenute in squadra portano a risultati decisivi. Merita rileggerlo, ne riporto di seguito una parte (per vederlo ecco il link).
«Non so cosa dirvi davvero. Tre minuti alla nostra più difficile sfida professionale. Tutto si decide oggi. Ora noi o risorgiamo, come squadra, o cederemo un centimetro alla volta, uno schema dopo l’altro, fino alla disfatta. Siamo all’inferno adesso, signori miei, credetemi, e possiamo rimanerci, farci prendere a schiaffi, oppure aprirci la strada lottando verso la luce. Possiamo scalare le pareti dell’inferno un centimetro alla volta. Io però non posso farlo per voi: sono troppo vecchio! Mi guardo intorno vedo i vostri giovani volti e penso: “certo che ho commesso tutti gli errori che un uomo di mezza età possa fare”. Sì, perché io ho sperperato tutti i miei soldi, che ci crediate o no. Ho cacciato via tutti quelli che mi volevano bene. E da qualche anno mi dà anche fastidio la faccia che vedo nello specchio. Sapete col tempo, con l’età tante cose ci vengono tolte, ma questo fa parte della vita. Però, tu lo impari solo quando quelle cose tu le cominci a perdere. E scopri che la vita è un gioco di centimetri e così è il football. Perché in entrambi questi giochi, la vita e il football, il margine di errore è ridottissimo. Capitelo: mezzo passo fatto un po’ in anticipo o in ritardo e voi non ce la fate, mezzo secondo troppo veloci o troppo lenti e mancate la presa. Ma i centimetri che ci servono sono dappertutto, sono intorno a noi, ce ne sono in ogni break della partita, ad ogni minuto, ad ogni secondo. In questa squadra si combatte per un centimetro. In questa squadra massacriamo di fatica noi stessi e tutti quelli intorno a noi per un centimetro! Ci difendiamo con le unghie e con i denti per un centimetro! Perché sappiamo che quando andremo a sommare tutti quei centimetri, il totale allora farà la differenza tra la vittoria e la sconfitta!! La differenza tra vivere e morire!».
Evidentemente non è (solo) un discorso per fanatici del football americano. Si capisce chiaramente che esso è e vuole essere un insegnamento che nasce da una sofferta esperienza di vita. Un giudizio simile, anche se per forza di cose meno romantico e appassionato, lo si ritrova nelle scienze sociali. Macrorisultati possono conseguirsi da microvariazioni, da microiniziative.
Nel bel libro di Malcom Gladwell, Il punto critico. I grandi effetti dei piccoli cambiamenti, si chiarisce come fu possibile modificare radicalmente la situazione di grave degrado in cui versava la metropolitana di New York negli anni Ottanta del Novecento. Fu applicata la teoria delle finestre rotte, frutto del lavoro dei criminologi J.Q. Wilson e G. Kelling, secondo cui il fatto che in un quartiere vi sia una finestra rotta, non riparata, rende probabile che altri rompano altre finestre dell’edificio, in una spirale distruttiva crescente, per via di un fenomeno di emulazione. Il darsi di disordine e incuria, insomma, incoraggia altri atti vandalici, così da generare un crescendo distruttivo. Nel caso della metropolitana di New York, era difficile intervenire perché il degrado era il frutto di tanti piccoli atti, di per sé difficilmente punibili. Per tenere sotto controllo la situazione, agendo di petto, si sarebbe dovuto dispiegare un apparato di polizia capillarmente presente in ogni stazione e perciò numericamente imponente, estremamente dispendioso e con scarse prospettive di successo. Va ricordato che la rete di trasporti registrava circa 15.000 atti criminali ogni anno. La rete era imbrattata da graffiti e resa fatiscente dagli atti vandalici. Viaggiare senza biglietto era piuttosto comune, tanto che l’azienda trasporti subiva una perdita di 150 milioni di dollari l’anno. Secondo alcune stime 170.000 persone usavano quotidianamente il servizio senza pagare. Si poteva arrestare tutte quelle persone per non aver pagato 1 dollaro e 25? In questo contesto deprimente, la direzione della metropolitana fu affidata a David Gunn. Questi puntò tutto in primo luogo proprio sui graffiti. Una scelta apparentemente minimalista e poco felice. Sembrava infatti che in tale situazione grave, preoccuparsi dei graffiti che imbrattavano la metropolitana, fosse assurdo, trattandosi dell’ultimo dei problemi. Le carrozze furono ripulite. Egli stabilì che nessuna vettura risistemata potesse circolare insieme alle carrozze pulite, se nuovamente imbrattata, finché non fosse stata nuovamente ripulita. Durante il turno di sosta, i nuovi graffiti venivano rimossi. Particolarmente curioso è il racconto che segue: «Avevamo uno scalo ferroviario ad Harlem, sulla 135 th Street, dove di notte sostavano i treni. I ragazzi arrivavano la prima notte e dipingevano di bianco la parete del treno. Poi venivano la notte successiva, quando la vernice si era asciugata, per tracciare il contorno del disegno, mentre la terza notte lo coloravano. Era un lavoro che durava tre giorni. Sapevamo che stavano lavorando su uno dei treni sporchi e non facevamo che aspettare che finissero il loro murale, poi arrivavamo con i rulli e lo riverniciavamo. I ragazzi avevano le lacrime agli occhi, ma noi continuavamo ad andare su e giù. Era un messaggio diretto proprio a loro: se volete buttare via tre notti della vostra vita a compiere atti vandalici su un treno, fate pure, ma il graffito non vedrà mai la luce del giorno» (pp. 170-171). Anche William Bratton, seguì la teoria della finestra rotta. A lui fu affidata la seconda fase del progetto di rilancio della metropolitana. Egli infatti aveva il compito di dirigere la polizia della metropolitana. Decise di puntare, non già a colpire i reati gravi, ma le piccole cose e, in particolare, il mancato pagamento del servizio. Scelse le stazioni in cui il problema dei passeggeri abusivi era maggiore. Vi piazzò fino a 10 poliziotti in borghese. Quelli che non pagavano erano arrestati uno alla volta, ammanettati e lasciati in piedi al binario fin che non si era «riempita la rete». L’arresto condotto in questo modo si rivelò presto un ottimo sistema di prevenzione generale, perché molti degli arrestati erano ricercati per reati precedenti. Bratton perciò scrive che «Ogni arresto era come aprire un pacchetto di patatine. Un mandato di cattura? Un omicida? […] Dopo qualche tempo, i cattivi misero giudizio, iniziarono a lasciare a casa le armi e a pagare il biglietto» (p. 173).