Al British o ad Atene?
Sono infatti molti a ritenere che i resti del Partenone (statue dai frontoni, metope, parti del fregio) e di altri edifici ateniesi del V secolo a.C., che lo spregiudicato ambasciatore di Sua Maestà Britannica presso la Sublime Porta dal 1799 al 1803 Thomas Bruce (conte di Elgin) portò in patria ai primi dell’Ottocento, debbano essere restituiti alla Grecia. E non si tratta di un’opinione derivante da un moderno punto di vista “politicamente corretto”, perché già Lord Byron la pensava così, opponendosi all’acquisto nel 1816 di quei capolavori da parte del British. E non era neppure il solo, allora, ad avversare quello che egli riteneva una sorta di furto.
Il firmano che autorizzò la spoliazione
Sarebbe, ovviamente, meraviglioso che il moderno Museo dell’Acropoli di Atene potesse affiancare i “marmi Elgin” a quanto era rimasto in territorio ellenico ed è oggi lì eccellentemente esposto. La Gran Bretagna, però, oppone alle richieste greche un dato sul quale gli esperti di diritto internazionale faticano a obiettare, e cioè l’esistenza di un firmano, cioè un decreto, con il quale le autorità turche (allora sovrane su Atene) non solo consentivano a Elgin e alla folta “spedizione” da lui organizzata di studiare, disegnare, censire il materiale archeologico dell’Acropoli, ma che affermava anche «quando volessero portar via qualche pezzi di pietra con vecchie inscrizioni, e figura, non sia fatta lor’oposizione».
È chiaro allora che gli Inglesi (tra loro c’era però anche il pittore romano Giovan Battista Lusieri, il quale ebbe un ruolo fondamentale nella scelta dell’asporto dei marmi…) – come dice il proverbio – partendo dal dito si sono portati via il braccio. Altro che «qualche pezzi di pietra»: ci fu per anni un andirivieni di navi cariche di marmi verso l’Inghilterra, complice il firmano di cui si è detto e l’accondiscendenza dei funzionari turchi, coperti alla bisogna di regali e favori.
Un recente libro di Marta Boneschi
Di queste vicende, sullo sfondo di un clima internazionale nel quale la “predazione” di opere antiche era (anche) una manifestazione di potere politico (si pensi a Napoleone, che “rimpolpò” il Louvre di antichità – anche se dopo Waterloo la Francia dovette rendere parte del “maltolto” – ma anche al re Ludovico di Baviera, che fece portare a Monaco i frontoni del tempio di Egina e ne affidò il restauro al grande scultore Bertel Thorvaldsen), ci parla un recentissimo libro di Marta Boneschi, Il naufragio del Mentor. I marmi del Partenone e la guerra per il dominio d’Europa, Luiss University Press, Roma 2021.
Il protagonista assoluto di questo piacevole saggio-romanzo è proprio Lord Elgin, che ci viene descritto in tutta la sua composita personalità. Per lui portare in Inghilterra i reperti classici divenne una vera e propria ossessione, nella quale si mescolavano orgoglio patriottico, ricerca di prestigio personale, spirito di conquista, passione per l’antico, ma anche volontà di salvaguardia di quei beni che – in effetti – sotto il dominio ottomano erano stati assai poco “custoditi”. A parte l’esplosione sull’Acropoli del 1687 (quando i cannoni del veneziano Francesco Morosini danneggiarono il Partenone, trasformato in polveriera dai Turchi), si narra infatti che i soldati ottomani usassero le metope scolpite da Fidia come bersaglio per le loro esercitazioni di tiro…
Debiti e naufragi
Elgin non badò a spese in questa sua azione, che dovette portare a termine con denari propri (e del facoltoso suocero), contraendo debiti che la vendita dei reperti al British non coprì che molto parzialmente, poiché a fronte delle novantamila sterline impiegate ne ricavò solo trentamila, nonostante figure del calibro di Antonio Canova stimassero il valore di quei reperti almeno a centomila. Ma le accuse di Byron e dei suoi seguaci non gli avevano certo reso un buon servizio, e il Nostro fu costretto ad accettare l’offerta al ribasso del Museo, esito di un lungo dibattito parlamentare.
Tra le disavventure alla quali egli andò incontro durante la campagna di Grecia ve ne fu una che l’autrice descrive con particolare attenzione, e che dà il titolo al libro. Infatti il 7 settembre 1802 il suo brigantino Mentor naufragò nel mar Egeo, nei pressi porto di San Nicolò nell’isola di Cerigo (oggi Kythira), mentre trasportava ben diciassette casse di opere d’arte sottratte al Partenone e ad altri monumenti dell’Acropoli di Atene. Non è difficile immaginare le difficoltà nel recupero di quei marmi (il relitto della nave è ancora in situ), che necessitò anni, e che fu possibile solo grazie all’impiego di coraggiosi (e resistentissimi) pescatori di spugne provenienti dalle isole di Kalimnos e Symi, dove quell’attività era allora fiorente. Chi scrive ha visitato questi luoghi (anche) molti anni fa, e ricorda qualcuno degli ultimi epigoni di questa pericolosa professione.
Come dicevo, il volume di Marta Boneschi è ricchissimo di informazioni, spunti, curiosità, e ci catapulta in un clima politico-culturale davvero intrigante. La narrazione, però, è talora un po’ ripetitiva e il “filo del discorso” in qualche frangente si perde in divagazioni eccessive. Nonostante ciò, è una lettura che mi sento di consigliare agli appassionati di storia e antichità, anche per l’equilibrio con il quale l’autrice tratteggia la personalità di Elgin (né eroe né delinquente: un uomo del suo tempo…) e affronta la spinosa questione dalla quale siamo partiti (quella dell’eventuale “restituzione” dei reperti alla Grecia).
Una questione complessa
Ho già accennato, a questo proposito, alla complessità politico-giuridico-culturale e perfino (o soprattutto?) etica del problema, sul quale non mi sento in grado di formulare un’opinione sicura, al di là delle suggestioni da “vecchio filelleno” quale sono da sempre e che ho sopra formulato. In poche parole: vedrei bene, con vera gioia, quelle opere ad Atene (ricordo che era il sogno della compianta Melina Mercouri, grande, “mitica”, attrice greca e ministra della cultura negli anni Ottanta), ma non sono sicuro che sia questo quello che il diritto internazionale prevede, anche perché darebbe il via a un “domino” di richieste difficilmente governabile.
Quel che è certo è che le posizioni dei due Stati continuano a essere molto lontane, se è vero che nel marzo di quest’anno (2021) il premier britannico Boris Johnson ha ribadito la contrarietà del suo governo alla resa delle sculture, mentre la ministra greca della cultura Lina Mendoni continua a chiamare, in ogni intervista, Lord Elgin «ladro seriale». Non sono pertanto sicuro che quelli della mia generazione – nonostante i tentativi di mediazione dell’UNESCO – possano vedere la fine di questa contesa. Una contesa logorante, nella quale il più “logorato” di tutti sembra comunque esser stato il buon Elgin, non solo per il dissesto economico e reputazionale che gli costò la sua impresa, ma anche per i problemi di salute che l’afflissero in quegli anni, che obbligarono i medici ad amputagli parte del naso, rendendolo così simile a qualcuna delle antiche statue da lui strappate al suolo ellenico.